KIERKEGAARD E L'ESISTENZIALISMO RELIGIOSO (1813-1855)

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KIERKEGAARD E L'ESISTENZIALISMO RELIGIOSO (1813-1855)

I - II - III - IV

Staccato dal pubblico, il singolo è nulla
e nel pubblico, in un senso più profondo,
è parimenti un nulla.
Il prossimo è propriamente il raddoppiamento
del tuo stesso io.

Kierkegaard

Quadro storico

Kierkegaard vive in un assetto europeo stabilito dalle nazioni della Santa Alleanza al Congresso di Vienna. La Danimarca della prima metà dell'Ottocento, retta da un regime monarchico-aristocratico, è socialmente più vicina alla Germania che a qualsiasi altro paese europeo. Però è più arretrata economicamente e meno vivace sul piano culturale.

Agli inizi dell'800, durante le guerre napoleoniche, la Danimarca si mise dalla parte della Francia contro gli inglesi, avendo quest’ultimi intenzione di sottrarle parte della flotta, che faceva gola anche a Napoleone. Ne uscì sconfitta e perse anche la Norvegia, che passò sotto il dominio svedese (1814). La Danimarca mantenne le colonie di Islanda, le isole Fær Øer e la Groenlandia. Oltre che sulle colonie nordiche governò anche sull'India danese dal 1628 al 1869, sulla Costa d'oro danese (Ghana) dal 1658 al 1850 e sulle Indie occidentali danesi (le Isole Vergini Statunitensi) dal 1671 al 1917.

Nel 1848 gli strati sociali democratici delle due regioni Schleswig e Holstein (la cui maggioranza era tedesca) si ribellano al dominio danese, formano un governo provvisorio e si sollevano in una lotta armata con l'obiettivo di annettere i due ducati alla Germania. I danesi vengono sconfitti, ma su richiesta di Inghilterra, Russia e Svezia, il governo provvisorio viene sciolto. L'armistizio però non fece che provocare altri disordini, finché nel 1864 la Prussia, alleatasi con l'Austria, aggredisce la Danimarca, spartendosi coll'alleato le due regioni, che erano assai vantaggiose dal punto di vista economico e strategico, essendo situate nella congiunzione del mar Baltico col mare del Nord.

Attorno al 1830 il movimento liberale e nazionalista danese prese un grande slancio e grazie ad esso, in seguito alle rivoluzioni del 1848, il re Cristiano VIII emanò la prima Costituzione, successivamente divenuta sempre più liberale; il paese divenne così una monarchia costituzionale.

Si formano verso la metà dell’Ottocento un movimento per l’emancipazione dei contadini non proprietari e un importante movimento culturale-religioso, capeggiato dal pastore e scrittore Grundtvig, per scolarizzare e formare i contadini danesi: è il movimento dell’“università popolare”, che offre corsi liberi agli adulti di qualsiasi età.

Quadro culturale

Una buona testa, aperta a tutto ciò che abbia esigenza
di un interesse di progresso,
ma egli era anche infantile al massimo grado
e aveva una certa smania di libertà e d'indipendenza
che si mostra anche con una spensieratezza allegra e a volte bizzarra,
la quale gli impediva d'impegnarsi a fondo in qualche cosa
e di abbracciarla più per interesse che non per applicarvisi.

M. Nielsen (attestato scolastico)

Nella letteratura danese dell'inizio del XIX sec. ebbe una grande diffusione il Romanticismo. La sua ala reazionaria e mistica non mise in luce nessun personaggio importante. La linea progressista e patriottica, invece, fu rappresentata da A.G. Oehlenschläger (detto Oleario), creatore di poemi e tragedie che fecero rinascere i temi leggendari del passato scandinavo, respingendo la falsa e arida civiltà borghese. Comunque in Danimarca il Romanticismo ebbe carattere più estetico-letterario che politico. Il movimento politico-liberale non chiese la fine della monarchia ma una monarchia costituzionale.

Il più grande scrittore danese e favolista dell'800, conosciuto in tutto il mondo, fu H. C. Andersen.

Iter biografico e intellettuale

Tu non combinerai mai nulla finché avrai denaro.

M. Pedersen Kierkegaard

Sören Kierkegaard nacque a Copenaghen il 5 maggio 1813. Il padre, un commerciante agiato, non aveva avuto figli dalla prima moglie; dalla seconda invece ne ebbe sette, dei quali Kierkegaard fu l'ultimo. Fu proprio il padre che indirizzò il giovane Kierkegaard verso l'esperienza pietistica della comunità religiosa dei Fratelli Moravi: l'educazione ricevuta fu quindi piuttosto severa e caratterizzata da una valutazione negativa della cristianità protestantica ufficiale della Danimarca di allora.

Nel 1830 si iscrisse all'Università di Copenaghen e dopo undici anni si laureò. Durante il periodo universitario, egli partecipò al movimento religioso-riformistico di tendenza grundtvigiana, professando idee social-cristiane: nel giovane Kierkegaard vi è più la preoccupazione di una riforma ecclesiale pietistica che abbia un riflesso anche nei rapporti sociali della società civile, che non la preoccupazione di sviluppare una ricerca teologica autonoma. Grundtvig infatti aveva capito che la Bibbia non poteva resistere da sola agli attacchi della filosofia hegeliana, per cui aveva puntato l'attenzione sulla riforma pratica della chiesa protestante. Durante il periodo universitario Kierkegaard fu anche presidente della Lega degli studenti, attaccando soprattutto le idee liberal-borghesi di rinnovamento democratico. La sua posizione non era molto dissimile da quella dell'ultimo Schelling, che si illudeva di poter superare l'hegelismo accentuando l'importanza della religione.

Nella tesi di laurea del '41, Sul concetto dell'ironia (in riferimento costante a Socrate), pubblicata lo stesso anno, Kierkegaard prende posizione contro il romanticismo estetico, evasivo, estraniato, dei fratelli Schlegel, di Tieck e Solger, mettendosi dalla parte di Hegel. Quel tipo di romanticismo - che secondo lui proviene dalla filosofia dell'Io di Fichte - gli appare troppo soggettivistico, in quanto tende a contrapporre unilateralmente il soggetto alla realtà. Nella tesi Kierkegaard accetta la critica romantica del mondo piccolo-borghese ("lo squallido perbenismo bacchettone", come lo chiama) e del vuoto sentimentalismo di questo mondo, ma allo stesso tempo rifiuta che lo strumento di tale critica - appunto l'ironia - venga usato come fine a se stesso, in totale dispregio dello Stato, della società civile e della famiglia, e ciò in nome di una mera valorizzazione intellettualistica del passato mitologico. L'ironia romantica è per Kierkegaard fonte di isolamento. Contro i romantici tedeschi e danesi, egli oppone Goethe e Shakespeare, ove l'ironia è "dominata", cioè è solo un "momento", non una condizione di vita.

Kierkegaard accetta anche la critica di Hegel a Socrate, secondo cui col principio di ironia Socrate si era posto al di sopra dello Stato e della famiglia, facendo della soggettività un assoluto, anche se proprio in tal modo Socrate poté in un certo senso fondare la morale, in quanto con lui l'individuo, nell'ambito della filosofia, inizia ad agire moralmente non per dovere ma per convinzione personale (mentre per i sofisti il bene coincideva con l'utile). Fin qui Kierkegaard la pensa come Hegel.

Se ne distacca invece su due punti: 1) Hegel non avrebbe capito che Socrate criticava la decadenza di una realtà storica determinata, quella del suo tempo, per cui il suo atteggiamento ironico andrebbe contestualizzato, per essere meglio compreso; 2) Socrate non aveva alcuna intenzione di desumere dal principio teorico dell'ironia una qualche conseguenza pratica (se non quella di confondere gli avversari insegnando loro l'umiltà e il buon senso). L'ironia era per Socrate - dice Kierkegaard - una conseguenza determinata dalla prassi (il processo cioè era dal concreto all'astratto e tale rimaneva, mentre Hegel faceva esattamente il contrario). Socrate insomma avrebbe dato all'ironia - secondo Kierkegaard - un'importanza filosofica minore di quella che gli attribuisce Hegel. Non riuscendo a comprendere l'importanza maieutico-pedagogica dell'ironia socratica, Hegel non sarebbe neppure riuscito ad accettare il valore relativo dell'ironia.

Hegel - secondo Kierkegaard - sarebbe approdato a tale svista perché aveva accettato le interpretazioni idealistiche che Senofonte e Platone fecero del metodo socratico, rifiutando quella realistica di Aristofane, che secondo Kierkegaard è la più vicina alla verità.

Ma per un'altra ragione ancora Kierkegaard preferisce l'ironia socratica alla negazione dialettica (l'antitesi) della filosofia hegeliana (che secondo Kierkegaard in un certo senso si equivalgono): perché mentre la dialettica hegeliana nega la contraddizione solo a livello speculativo, l'ironia socratica invece impegna la vita di una persona in maniera molto concreta, portando sino al sacrificio di sé. Come si può notare, quindi, il giovane Kierkegaard manifestava delle esigenze realistiche notevoli, con le quali mirava a superare le astrattezze dell'hegelismo dominante nell'università di Copenaghen.

Tuttavia nel '36 egli aveva già rotto i ponti con la Lega degli studenti. Negli anni '37-'38 si distacca anche dalla comunità morava, nella consapevolezza che la realizzazione delle riforme religiose non era immediatamente fattibile. Sempre in quegli anni passa ad insegnare latino in un liceo di Copenaghen, ma presto smette, non trovando comunicazione con gli studenti. Dopo la morte del padre riceve una cospicua eredità che in pratica gli permette di vivere di rendita. Una serie di lutti colpisce la sua famiglia per diversi anni: gli muoiono cinque fratelli. Egli addebita questo fatto a una punizione divina in seguito a una maledizione contro Dio che il padre aveva lanciato quando si trovava in ristrettezze.

Dopo aver sostenuto un esame di teologia, nel '40, che lo abilitava alla carriera ecclesiastica, compie un viaggio nello Jutland per rimettersi da una grave forma di esaurimento nervoso, e decide improvvisamente di fidanzarsi con Regina Olsen, anch'essa della comunità morava. La rottura del fidanzamento, non meno improvvisa, avviene l'anno dopo: Kierkegaard la giustificò appellandosi al cosiddetto "pungolo nella carne" (probabilmente un difetto fisico). Subito dopo aver rotto con Regina compie un viaggio a Berlino, per ascoltare le lezioni di Schelling, ma ne rimane profondamente deluso. Nel marzo del '42 torna a Copenaghen, dando inizio alla sua vasta produzione letteraria.

Nel '43 pubblica quella che forse è considerata la sua opera più significativa, Enten-Eller, che fu anche quella che gli diede maggior successo. Enten-Eller è diviso in due parti e contiene in un certo la sintesi del pensiero estetico, religioso e fenomenologico del giovane Kierkegaard. Vi sono inclusi il Diario del seduttore (scritto per respingere Regina), i Diapsalmata (una serie di aforismi autobiografici), Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in cui Kierkegaard contesta il valore dell'associazionismo della sua epoca, anteponendogli quello dell'individualità isolata, tormentata, che si sacrifica - come Antigone - per il bene dell'ideale. In Enten-Eller vi sono anche Don Giovanni, gaudente esteta e il testo che in lingua italiana è stato tradotto con Aut-Aut, comprendente solo la lunghissima Lettera dell'assessore Guglielmo, che è forse la parte più importante di Enten-Eller. Questa Lettera, pur apparendo nella seconda parte del volume, venne scritta per prima, ed essa, nel suo rifiuto della vita estetico-romantica, è quella che meglio si ricollega alla tesi di laurea. Tuttavia, Kierkegaard, quando scrisse Enten-Eller non era in direzione dell'eticità o dell'impegno sociale (come il contenuto del testo lascia supporre), ma in direzione dell'intellettualismo astratto, individualistico, a sfondo mistico-religioso. Tant'è che, nonostante il successo editoriale dell'opera, risultarono del tutto vani i tentativi di coinvolgerlo in una collaborazione culturale, filosofica (in riferimento soprattutto all'estetica), da parte dei vari circoli, club e riviste di Copenaghen. Con la pubblicazione di Enten-Eller Kierkegaard usciva ufficialmente dal mondo della cultura e dell'impegno sociale (egli rifiutò per sempre anche la carriera ecclesiastica).

Nel '43 pubblica Timore e tremore, un libro sulla figura di Abramo. Con esso Kierkegaard antepone al dubbio della filosofia moderna (al cogito cartesiano) la fede angosciata nell'Assoluto di un uomo (biblico) che non può mettersi in comunicazione con nessuno, sapendo di non poter essere capito. Kierkegaard si serve di Abramo per giustificare la sua nuova posizione sociale: l'individualismo religioso. Come Abramo, che esteriormente appariva un assassino, mentre interiormente era un uomo di fede, così Kierkegaard sa di apparire alla cittadinanza come una persona stravagante, anomala, inaffidabile, e proprio in virtù di questa incomprensione egli aspira a diventare qualcosa di "speciale", di "unico", nella consapevolezza delle proprie doti intellettuali e dei propri drammi interiori.

L'approfondirsi del tema religioso è appunto un riflesso del suo progressivo disimpegno sociale. Lo si nota molto bene nell'interpretazione del sacrificio di Isacco, che risulta forzata in quanto Kierkegaard estrapola l'episodio dal contesto storico-sociale in cui è avvenuto o comunque in cui è stato elaborato. La decisione di Abramo di sacrificare il figlio appare come la risposta a un ordine irrevocabile di Dio, e non come il frutto di una decisione interiore, personale, maturata con grande angoscia. L'angoscia che prova Abramo è nei confronti di una chiamata esterna, a lui superiore, alla quale non può disobbedire. L'Abramo di Kierkegaard ha una fede per la quale solo Dio può dare delle risposte, ed è già quindi una fede astratta, che si crea un Dio a propria immagine e somiglianza.

La fede di Abramo viene descritta nella pretesa di una superiorità della religione nei confronti dell'etica hegeliana. Kierkegaard infatti risponde affermativamente a due domande poste nel libro: 1) Si dà una sospensione teleologica dell'etica? (cioè esiste la possibilità di far valere gli interessi religiosi del singolo su quelli etici della collettività?); 2) Esiste un dovere assoluto verso Dio? (che sia superiore assolutamente a tutti gli altri doveri verso la collettività?). Alla terza domanda: Dal punto di vista etico si può scusare il silenzio di Abramo con Sara, Eliezer, Isacco sul suo progetto?, Kierkegaard fa capire che se l'etica giustifica il silenzio, essa è in accordo con la religione; se essa invece non lo fa, allora la religione deve rivendicare la propria autonomia.

Nel '44 pubblica Il concetto dell'angoscia. Kierkegaard ne aveva già parlato trattando le figure di Antigone, Agamennone, Jefte e soprattutto Abramo. L'importanza che il libro ebbe nella Kierkegaard-Renaissance tedesca è stata superiore al suo effettivo valore intrinseco. Il libro è servito a Kierkegaard per dimostrare che l'angoscia conseguente alla rottura col mondo sociale era uno stato d'animo inevitabile, come fu in un certo senso inevitabile il peccato originale per Adamo.

Angoscia vuol dire "possibilità della libertà", quindi in teoria il peccato non è inevitabile. Tuttavia Kierkegaard fa dipendere la colpa dal fatto che l'oggetto di questa possibilità è il "nulla". Ovverosia, l'innocente Adamo è angosciato dal fatto che nel suo stato di beatitudine eterna (che è ignorante) non c'è "niente contro cui lottare" (il peccato fa uscire da una condizione di noia o insoddisfazione per una vita che ha poco senso, o di frustrazione a motivo del divieto, la cui gravità non viene percepita come tale, in quanto Adamo non può avere un'esatta cognizione delle conseguenze della trasgressione: p.es. non può sapere cosa voglia dire "morire", come conseguenza del peccato). Il suo peccato non era necessario (altrimenti la nozione di libertà perderebbe di senso), ma non era neppure evitabile, in quanto il "nulla" non offriva alternative: il divieto lo ha indotto a peccare perché lo ha reso consapevole della possibilità della libertà, come forma di trasgressione. In tal modo Kierkegaard può giustificare la sua rottura col mondo sociale: egli può relativizzare il proprio "peccato" sostenendo che non c'erano valide alternative per non farlo. Da questo "peccato" egli, come Adamo, si è poi salvato col pentimento, riponendo ogni fiducia in Dio.

Nello stesso anno pubblica Briciole di filosofia. La tensione drammatica dei testi precedenti è notevolmente ridimensionata. Ora Kierkegaard trasferisce sul piano filosofico le riflessioni maturate su quello psico-religioso. Egli inoltre cerca di dare un fondamento filosofico alla propria concezione religiosa dell'esistenza. I concetti che va elaborando, oltre a quello di "singolo", sono: "paradosso" (in antitesi alla mediazione hegeliana dei contrari: la mediazione è concettuale, l'esistenza è paradossale perché unica, irriducibile alla comprensione adeguata del pensiero), "scandalo" (che è - secondo Kierkegaard - il vero volto del dubbio cartesiano e di tutta la filosofia moderna, che ha voluto staccarsi dalla religione), "contemporaneità" (in antitesi al concetto hegeliano di "divenire storico": per il singolo la storia si riduce a un nulla, in quanto il problema di realizzare una "beatitudine eterna" nella storia gli si presenta nella sua assoluta radicalità e la storia non gli è di nessuno aiuto ai fini della realizzazione). Il singolo di Kierkegaard deve essere consapevole di vivere un'esistenza unica, paradossale e, in quanto "discepolo di Cristo" (perché il singolo si definisce "cristiano" o almeno intenzionato a diventarlo) deve anche sentirsi "contemporaneo" a lui, al di là dello sviluppo storico, anzi contro questo stesso sviluppo, che ha ridotto l'esperienza cristiana a una banalità, a una ovvietà (si è cristiani in massa, solo perché si viene battezzati, solo perché si vive in un certo Stato ecc. - dice Kierkegaard). In questa "contemporaneità" la fede del singolo non può che destare "scandalo" nell'interlocutore, che si sente già cristiano e che non dubita della propria fede. Lo scandalo mette in crisi le certezze acquisite, le conquiste del passato. Kierkegaard rifiuta il concetto di "divenire storico" in quanto la storia ha tradito Cristo. Con questo saggio prosegue la critica, iniziata con Timore e tremore, dell'ufficialità protestantica della Chiesa danese, anche se questa polemica, per il momento, passa attraverso la critica dell'hegelismo. Da notare comunque che Kierkegaard non ha mai accettato di definirsi "filosofo": anche quando scriveva di filosofia egli preferiva definirsi col termine di "scrittore religioso" o "edificante" (la sua, semmai, è una filosofia della religione).

Alle Briciole seguirà nel '46 la monumentale Postilla conclusiva non scientifica. A partire da questo volume (che secondo Kierkegaard doveva essere un'antitesi alla Logica di Hegel), Kierkegaard si lamenta di non avere più un interlocutore. Nelle Briciole, infatti, il "re senza terra", lo "scrittore senza pretese" - come si autodefinisce nel Concetto dell'angoscia) crede ancora nel valore di un pubblico riconoscimento della sua produzione letteraria. Ma nella Prefazione della Postilla - visto il pessimo risultato editoriale delle Briciole - cambia completamente parere, chiarendo anzi che la celebrità è un grave impedimento alla realizzazione del suo ideale religioso. Così pure afferma nel discorso edificante Vangelo delle sofferenze, edito sempre nel '46, ove esalta la figura di Giobbe. Tuttavia, i fatti successivi al '48 dimostreranno che Kierkegaard non era affatto alieno dal desiderare una pubblica notorietà.

Con la Postilla - di cui riuscirà a vendere solo 50 copie - l'intenzione di Kierkegaard era quella di concludere la sua attività di scrittore: lo attesta il fatto che con essa egli fa un bilancio di tutta la sua precedente produzione letteraria, rivelando al pubblico, che peraltro già lo sapeva, chi si celava dietro i diversi pseudonimi usati per i suoi libri. A chiudere tale attività l'aveva indotto anche la polemica con la rivista satirica "Il corsaro", che lo prese in giro per diversi mesi, facendo colpo sul pubblico. Il giornale venne chiuso dal governo e il direttore espulso dal paese per "indegnità morale", ma Kierkegaard se ne risentì profondamente, anche perché pochissimi avevano preso le sue difese. Egli aveva sopportato gli scherni perché così gli sembrava di adempiere al compito di testimoniare una verità religiosa, ma ciò non era avvenuto senza profondi drammi personali. Nella vita di Kierkegaard gli avvenimenti esteriori sono molto pochi ma, a causa del suo autoisolamento, essi venivano ad acquistare un'importanza eccezionale per la sua coscienza. Kierkegaard voleva essere uno scrittore per il popolo, o meglio per i molti singoli della società: "Il corsaro" invece aveva capito ch'egli altro non era che uno "scrittore per scrittori", cioè un'individualità astratta, isolata, con pretese sproporzionate rispetto alle sue forze. Nella Postilla comunque il disprezzo per la socialità raggiunge forme di particolare conservatorismo filo-monarchico. Kierkegaard teme chiaramente le idee liberali, democratiche e socialiste.

Tuttavia, nella Postilla la rottura col pubblico non è così esacerbata come lo sarà nella Malattia mortale e nell'Esercizio del cristianesimo. Forse perché la sua posizione esistenziale restava, in ultima istanza, ancora troppo poco determinata: lui stesso la definisce "umoristica". "Climacus" (lo pseudonimo scelto per i due volumi di filosofia) è un "umorista privatista", cioè un intellettuale indifferente alle vicende della vita, è un "poeta", "senza autorità", senza essere seguace di alcun partito, ha solo il senso del "comico" (che è tipico delle nature malinconiche) e scrive per il gusto di scrivere, senza sentirsi coinvolto sino in fondo in quello che dice. La sua preoccupazione è quella di porre il problema di come vivere il cristianesimo, non è quella di dimostrare come vada vissuto concretamente. "Climacus" non è cristiano ma è impegnato a diventarlo.

La Postilla vuole anzitutto essere un testo anti-hegeliano. Essa rappresenta il tentativo di fare del cristianesimo un'esigenza personale, non solo l'oggetto di una speculazione intellettuale. In questo senso la filosofia di Kierkegaard è sempre una filosofia religiosa o della religione. Ciò che più gli interessa non è il problema "oggettivo" della verità, cioè non gli interessa discutere sulla verità oggettiva del cristianesimo, poiché questa verità egli la dà per scontata. Il problema per lui è dimostrare soggettivamente il valore di questa verità. La speculazione, le prove ontologiche dell'esistenza di Dio, la tradizione, la Bibbia, la considerazione storica...: tutto ciò o è tautologico (in quanto non si dimostra soggettivamente ciò in cui dice di credere oggettivamente) o è ipocrita (in quanto si dice il contrario di quello che si vive, di quello che è la realtà). L'oggettività o è falsa o non serve, in quanto non può provare nulla.

Per Kierkegaard è definitivamente tramontato il tempo in cui il cristiano può considerarsi tale solo perché dice di credere nelle verità di fede della chiesa. La sua propria religiosità deve dimostrarla nei fatti, coll'atteggiamento personale. Tuttavia nella Postilla Kierkegaard arriva a tale consapevolezza solo a livello teoretico, con l'affermazione principale che "la verità è la soggettività", che vuol dire: solo nel modo come il soggetto vive la verità si può comprendere se questa verità è per lui autentica, genuina, profonda. Il criterio della verità è la pratica della verità stessa. Questa pratica per Kierkegaard è eminentemente religiosa. La fede è quella forma di interiorità (destinata a esplicitarsi in un giudizio di condanna della cristianità stabilita) che non si lascia oggettivare da alcunché. La soggettività infatti è la sola realtà che Kierkegaard sia disposto ad ammettere. Nel Vangelo delle sofferenze (1846) Kierkegaard fa coincidere espressamente "interiorità" con "sofferenza". Cioè la sofferenza è il criterio della verità: senza pathos una qualunque verità è astratta, non edificante. In particolare nel Vangelo delle sofferenze il singolo-Giobbe soffre da innocente davanti a Dio, pur pensando, umilmente, d'essere colpevole, poiché davanti a Dio l'uomo ha sempre torto. Kierkegaard dunque sa di non aver nulla da rimproverarsi davanti agli uomini, in quanto l'esteriorità della Chiesa trionfante è chiaramente per lui una falsità.

Nel 1846-47 scrisse anche il Libro su Adler, che però decise di non pubblicare. Il pastore protestante Adler aveva affermato nel '42 d'aver avuto una rivelazione direttamente da Gesù Cristo sul problema dell'origine del male. La Chiesa danese, nella persona del primate Mynster, temendo l'eresia e diffidando della sincerità del pastore, decise di deporlo dalla carica. Kierkegaard prende a discutere del caso e concessis - com'egli afferma -, cioè dando per scontata la realtà della rivelazione, e si chiede in che modo Adler avrebbe dovuto agire per essere coerente sul piano esistenziale-religioso. A suo giudizio le alternative erano due: o attestava in modo incrollabile la propria rivelazione (ovviamente senza essere un pazzo), oppure la ritrattava pentendosi. Non avendo fatto nessuna delle due cose, Kierkegaard considera che la soluzione disciplinare di Mynster sia stata giusta.

Grazie comunque al comportamento errato di Adler, Kierkegaard crede d'aver capito che per dimostrare la propria irriducibile diversità religiosa, contro l'ordine costituito, bisogna essere coerenti sino in fondo, bisogna essere "determinati in carattere", altrimenti è meglio ridimensionare le pretese. Il libro non venne pubblicato appunto perché Kierkegaard non si sentiva ancora pronto a sostenere la sfida della collettività, sentiva cioè di non poter ancora rappresentare un'efficace alternativa ad Adler. Quando il momento verrà, con gli avvenimenti del '48, che in pratica sconvolsero la situazione storico-sociale in modo tale da permettere più facilmente a Kierkegaard di rivendicare l'esigenza di un'alternativa religiosa al sistema, non ci sarà più motivo di pubblicare il Libro su Adler: la Malattia mortale e l'Esercizio del cristianesimo non solo ne riassumeranno magistralmente i contenuti fondamentali, ma costituiranno anche un notevole passo in avanti.

Nel Libro su Adler Kierkegaard mise l'accento sul fatto che il singolo straordinario dev'essere riconoscibile dall'essere disposto a sacrificarsi per il bene dell'ideale. Il testimone della verità coincide - a suo giudizio - con il "martire della fede". L'attacco all'ordine stabilito deve essere ben meditato, poiché qui è in gioco la stessa identità del cristiano, il quale, quando deciderà di uscire allo scoperto, saprà in anticipo di non essere capito, rappresentando egli, nel momento, un paradosso che desta scandalo.

In effetti, Kierkegaard si servirà della emergente democrazia sociale non per contestare il sistema monarchico-aristocratico (lui stesso, in fondo, vivendo di rendita, si sentiva dalla parte dell'aristocrazia, seppure solo nella veste dell'intellettuale), ma se ne serve per contestare la cristianità stabilita della chiesa protestante (benché la sua polemica possa essere estesa a tutte le religioni compromesse col potere politico-statale). Nei suoi dialoghi col re Cristiano VIII egli esprimerà sempre delle posizioni nettamente anti-democratiche.

Egli aveva cominciato ad attaccare i pastori protestanti sin da Timore e tremore, ma in chiave pseudonimica e senza particolare astio (il suo vero nome lo riservava alla cosiddetta "produzione edificante", che è una sorta di teologia morale, non molto significativa). Nella Postilla Kierkegaard ebbe nei riguardi del vescovo Mynster due atteggiamenti: uno di solidarietà contro le pretese riformatrici di vari leader religiosi (il primo dei quali era Grundtvig); un altro di critica per motivi di ordine personale: da un lato gli rimprovera l'incomprensione della natura dei Discorsi edificanti, giudicati da Mynster troppo filosofici, mentre per Kierkegaard volevano appunto essere dei "discorsi" e non delle "prediche"; dall'altro Kierkegaard rifiuta l'espressione "sublime menzogna" calibrata dal vescovo per Timore e tremore. Ciò che però turbò particolarmente il vescovo - a detta di Kierkegaard - furono gli Atti dell'amore.

Durante le polemiche scatenate dal "Corsaro", il vescovo non si preoccupò affatto di sostenere la posizione di Kierkegaard, anzi nel saggio sulla Situazione della chiesa in Danimarca egli arrivò a giudicarla negativamente, mettendola sullo stesso piano del direttore del giornale. Dopo la pubblicazione, nel '48, della Malattia mortale, Mynster rifiuterà di concedere a Kierkegaard, che glielo aveva chiesto, un posto come professore al seminario di Copenaghen.

Tuttavia un attacco diretto contro Mynster, Kierkegaard lo sferrerà solo alla fine della sua vita. Nell'Esame di coscienza del '51 continua a prendere le sue difese e in un articolo su "Faedrelandet" si espone addirittura contro l'introduzione del matrimonio civile proposta dal teologo Rudelbach, rivendicando l'unità di Stato e chiesa.

Il rapporto di Kierkegaard col vescovo Mynster è importante perché esso riassume tutto il suo rapporto col protestantesimo quale religione ufficiale del suo paese. Mynster era la più alta autorità della chiesa ed era stato cappellano del padre di Kierkegaard.

Kierkegaard ha sempre sostenuto, una volta rotto col pietismo, la posizione di Mynster contro il riformismo socio-religioso di base, ma lo ha sempre contestato (seppure in forma indiretta: la forma diretta la riservava al Diario) quando lo vedeva scendere a compromessi col potere democratico-borghese. Kierkegaard voleva che Mynster accentuasse di più gli aspetti che secondo lui avrebbero potuto scuotere la cristianità stabilita: ovvero, la sofferenza, la paradossalità della fede, la critica del cristianesimo di massa, la contemporaneità col Cristo, la decisione esistenziale, il senso dell'infinita distanza tra uomo e Dio, la coscienza del peccato, l'esigenza di testimoniare la verità in modo personale, ecc. Tutto ciò per Kierkegaard aveva senso in un'ottica (quella della "opposizione agli altri", cioè a quelli che si credevano cristiani solo perché battezzati), in cui difficilmente Mynster avrebbe potuto trovarsi d'accordo. Kierkegaard infatti era considerato dai funzionari clericali come "un'esagerazione ridicola" e pertanto era guardato con sospetto. Dal canto suo, Kierkegaard non pretendeva d'essere considerato come un modello da imitare, poiché gli era estranea l'intenzione di costruire strutture e realtà sociali in cui i suoi ideali potessero meglio esprimersi. Egli voleva soltanto essere considerato come un "poeta" che aveva saputo evocare l'esigenza di una vita cristiana più intensa, più personalizzata. Voleva cioè essere riconosciuto per l'autorevolezza del suo pensiero non della sua persona.

L'esperienza del '48 troverà però Kierkegaard completamente spiazzato. I movimenti riformistici di base (specie il pietismo) non lo riconoscono più come un loro seguace; quelli di carattere laico-borghese da tempo non gli interessano, anzi li detesta profondamente; l'ufficialità protestantica, nella persona di Mynster, tende ad emarginarlo progressivamente, dovendo ora affrontare la spinta propulsiva dei suddetti movimenti, che rischiano di incrinare la facciata dello status quo, come poi in effetti avverrà. Mynster - dirà Kierkegaard - pur di conservare il potere, cercherà di compiacersi anche le forze democratiche. Tutto ciò fa sentire Kierkegaard una vittima delle circostanze, un escluso dalle vicende del suo tempo, addirittura un "tradito" dal vescovo nei cui confronti ha sempre nutrito amore e odio. Ecco perché, ad un certo punto, pretende, a titolo di riparazione del torto subìto, che il vescovo affermi pubblicamente d'essere stato un puro e semplice "declamatore domenicale", uno "scaltro eudemonista mondano"...

La malattia mortale, in questo senso, denunciava che il concetto di "cristianità" equivale al "rifiuto di pentirsi". A giudizio di Kierkegaard i cristiani di oggi sanno di essere "pagani", però dicono di essere "cristiani" (e la filosofia hegeliana e la teologia sistematica non fanno che confermare questa falsità). Fede, paradosso e dogma si oppongono al paganesimo, ma siccome il cristianesimo odierno conosce, pur senza viverli, questi tre concetti, occorre una nuova determinazione esistenziale per dimostrare ch'essi sono veri: il singolo (da notare che nella Malattia mortale Kierkegaard si serve del "pungolo nella carne" come prova di una particolare elezione del singolo, voluta da Dio: in virtù del "pungolo" il singolo avrebbe capito che aveva una missione speciale da compiere).

Nell'Esercizio del cristianesimo egli afferma che Dio si serve del singolo per far uscire l'ordine stabilito dal suo autocompiacimento. L'ambizione del singolo è quella di essere direttamente contemporaneo a Cristo, tanto da dover apparire, agli occhi dei suoi contemporanei, come lui, cioè come un singolo che lotta contro il sistema sacrificandosi fino al martirio. Kierkegaard ha bisogno di porre in atto la possibilità dello scandalo, da cui può sorgere la fede, al fine di dimostrare al sistema che la sua alternativa è l'unica praticabile, recuperando così la profondità del cristianesimo.

Nell'Esercizio Kierkegaard torna a parlare della collisione del pietismo coll'ordine stabilito, ma egli pensa di aver fatto molto di più. Egli avrebbe rifiutato l'esperienza pietistica perché come singolo la possibilità dello scandalo gli era parsa superiore. La comunità - dice Kierkegaard - è "un'anticipazione impaziente dell'eternità", mentre essere singoli significa lottare contro tutti, poiché la storia è il tempo della lotta, mentre l'eternità è la felicità della vittoria. La chiesa militante deve essere una chiesa di singoli.

La possibilità dello scandalo è qui superiore perché nell'ambito del singolo la "comunicazione diretta" con l'interlocutore è impossibile, cioè è impossibile essere capiti, almeno finché si è vivi. Ciò è per il singolo fonte di sofferenza, ma per l'interlocutore è una prova della sua fede, la quale è scelta esistenziale e non conclusione logica di un ragionamento. L'interlocutore deve credere nel singolo non per quello che fa ma per quello che dice. Infatti per quello che fa egli resta insignificante, ambiguo: il che però, rapportato a quello che dice, desta profondo scandalo. Questa "duplicità dialettica" deve far riflettere l'interlocutore e portarlo alla fede. Per indicare l'impossibilità della "comunicazione diretta" (che se ci fosse porterebbe l'interlocutore ad avere fede non in Dio ma nel singolo), Kierkegaard usa il termine "raddoppiamento maieutico" o "reduplicazione".

L'Esercizio del cristianesimo, che appare nel '50, toccherà Mynster - dice Kierkegaard - "in misura estremamente dolorosa", tanto che il vescovo reagirà bollandolo con l'apostrofe "un gioco empio con le cose sacre". Con questo libro Kierkegaard in pratica rinunciava a una qualunque intesa colla cristianità: egli aveva messo in chiaro il suo punto di vista, ora poteva finalmente smettere di scrivere.

Tuttavia nel '51 pubblica, senza pseudonimo, Per l'esame di se stessi raccomandato ai contemporanei, ove esalta la figura dell'apostolo Giacomo (per la valorizzazione del concetto di "opere") e la figura di Lutero per l'approfondimento del concetto che senza la fede le opere non servono a niente; alla fine condanna la cristianità per aver abolito fede ed opere. Naturalmente l'opera più importante è per Kierkegaard "l'imitazione di Cristo", che è il contrario della superficiale ammirazione. Sempre nel '51, per un tracollo finanziario, Kierkegaard perde molti suoi beni.

Intanto nel Diario moltiplica i fogli come mai ha fatto. Gli attacchi contro la chiesa di stato, le comunità religiose, gli ordinamenti civili e le strutture sociali e democratiche che vanno emergendo, si sprecano. Le figure più bersagliate sono Mynster, Martensen e Grundtvig. Nel '54 muore il vecchio vescovo. Al fiacco rigorismo del primate la chiesa danese si vede succedere il rigido conservatorismo dell'hegeliano Martensen. L'eclettismo kierkegaardiano veniva tagliato fuori una volta per sempre.

Sfumata l'occasione di una pubblica autocritica di Mynster, Kierkegaard era di nuovo piombato nel suo vizio di sempre: l'ambiguità fra l'esigenza teoretica e l'esperienza pratica. Ciò che soprattutto l'opprimeva era l'indifferenza se non lo scherno del clero e della collettività dei credenti nei suoi confronti. Ma in assenza di un attacco diretto contro di lui, Kierkegaard non poteva essere matematicamente sicuro di aver colpito nel segno pubblicando l'Esercizio.

L'occasione tuttavia non tardò a mostrarsi. Martensen fece l'elogio funebre di Mynster qualificandolo col termine di "testimone della verità". Sul "Faedrelandet" Kierkegaard si chiede se veramente Mynster sia stato un "testimone della verità" e risponde che lo sarebbe stato se avesse puntato di più l'attenzione sul precetto della mortificazione, dell'ascesi, della rinuncia volontaria, dell'odiare se stessi e della sofferenza per la verità. Come può essere un testimone della verità - si chiede Kierkegaard - chi ha cercato il potere, il benessere, i compromessi? Martensen risponde che testimone della verità e martire non coincidono e che comunque non è uno che vive un'esistenza malaticcia da singolo che può insegnare qualcosa a qualcuno.

Questo bastò a far scoppiare la polemica su diversi giornali della capitale. Kierkegaard inizia a pubblicare molti articoli, opuscoli e nove fascicoli dal titolo "Il momento". La tensione e lo sforzo intellettuale furono altissimi. Kierkegaard morirà nel corso di quella polemica (durata 4 mesi), convinto d'aver assolto il suo compito di testimone della verità in quanto appunto "martire" (il martirio era diventato per lui la suprema attestazione della verità della propria fede). Egli non ritrattò nulla di quello che gli chiese l'amico pietista Boesen sul letto di morte: peraltro già aveva scritto che non l'avrebbe fatto nell'Immutabilità di Dio, l'ultimo discorso edificante, dedicato al padre, pubblicato nel '55; in esso Kierkegaard era convinto d'essere completamente nel giusto e che Dio fosse dalla sua parte. Morendo sotto i colpi dell'avversario egli era convinto di poter contribuire meglio all'affermazione della verità. Nell'ottobre del '55 fu colto da malore e stramazzò per strada privo di sensi. Ricoverato in ospedale vi morì 40 giorni dopo, rifiutando qualunque rapporto col clero di stato e di accettare la riabilitazione indicata dai medici. Il decimo fascicolo del "Momento" venne trovato, pronto per essere stampato, sulla sua scrivania.

In questi fascicoli (che nella tr. italiana portano il titolo "L'ora"), Kierkegaard non polemizza solo con la chiesa protestante danese ma anche con lo Stato cristiano, che proprio per il fatto di dirsi "cristiano" impedisce la realizzazione del cristianesimo (cosa comunque possibile per Kierkegaard solo nell'aldilà). In pratica egli chiedeva la separazione di Stato e chiesa. E' evidente, infatti, che se si può essere cristiani solo in "opposizione" agli altri, qualunque compromesso/concordato/intesa politica è insostenibile, poiché il cristianesimo di massa, mutando una religione della sofferenza in una religione del piacere (grazie alla quale ci si salva con poco), esclude di per sé la possibilità di diventare cristiani.

Aspetto sistematico e analitico

In fondo io credo che tu sia pazzo.

Regina Olsen

a) Crisi della filosofia oggettiva

Kierkegaard pone fine alla filosofia dichiarandosi "scrittore religioso", uno scrittore che rifiuta di limitarsi a riflettere sul cristianesimo, cercando piuttosto di viverlo a livello esistenziale. Come credente "cristiano" Kierkegaard dice di esserlo diventato solo a partire dalla Malattia mortale, in quanto prima si poneva solo come "evocatore" dell'esigenza di vivere il cristianesimo in prima persona, soggettivamente. Il Concetto dell'ironia è l'unico testo in cui l'esigenza esperienziale non è collegata direttamente al contenuto religioso. Si può anzi dire che la vera scoperta del contenuto religioso avvenga solo con Timore e tremore. Anche Enten-Eller documenta bene che l'esperienza religiosa è vista come ultima opzione di vita, non come unica ed esclusiva di ogni altra.

Nel Concetto dell'angoscia si comprende bene come Kierkegaard cerchi di ricondurre la comprensione dell'intera esistenza umana alla categoria della "possibilità", mettendone in luce il carattere negativo e paralizzante. I rapporti colla famiglia (soprattutto col padre), l'impegno di fidanzamento, la sua stessa attività di scrittore appaiono carichi di alternative terribili, che angosciano profondamente Kierkegaard. Di qui l'uso degli pseudonimi e il progressivo distacco dagli avvenimenti sociali, politici e culturali della sua epoca. Kierkegaard fu socialmente impegnato nel corso degli anni universitari e tornò ad esserlo negli ultimi anni della sua vita. Negli anni universitari non aveva quella determinazione in carattere che ebbe a partire dal '48, ma non ebbe neppure quelle convinzioni irrazionalistiche che caratterizzeranno tutta la sua produzione letteraria a partire da Timore e tremore e soprattutto dopo la Malattia mortale.

La scoperta del "singolo", che avviene in Timore e tremore, lo porta a rifiutare non solo la filosofia hegeliana ma tutta la filosofia moderna, da Cartesio ad Hegel. In particolare egli rifiuta il punto di partenza del cogito e del dubbio, ritenuti processi meramente concettuali (in luogo del dubbio - dice Kierkegaard - bisognerebbe parlare di disperazione o di scandalo, cioè di stati d'animo ben più profondi e complessi. Il dubbio per lui è un modo di confondere volutamente le cose). Egli rifiuta anche la mediazione hegeliana dei contrari, perché ritenuta illusoria (occorre affermare l'aut-aut in luogo dell'et-et, in quanto le scelte che l'uomo compie sono sempre il frutto di un dramma interiore e come tali avvengono per salti qualitativi e non per successive determinazioni quantitative). Rifiuta anche il panteismo razionalista di Spinoza e di tutto l'idealismo, in nome della rivelazione cristologica, e rifiuta ogni forma di dualismo metafisico, in nome di una integrale esperienza della fede.

Alla filosofia moderna egli opporrà sempre quella greca (specie quella socratica, che per lui resta il discrimen tra la religione naturale e quella rivelata). Socrate cioè è inferiore solo a Cristo, in quanto non avrebbe compreso che il male può essere compiuto anche nella consapevolezza del bene.

La scoperta del "singolo" porta Kierkegaard a liberarsi dalla pretesa hegeliana di conciliare gli opposti a livello speculativo. "La verità è verità solo quando è per me" - dirà Kierkegaard. In tal modo egli può rivendicare il primato dell'esistenza sull'essenza, dell'essere sulla coscienza, del soggetto sull'oggetto... La verità non può essere oggetto di pensiero ma processo di appropriazione da parte del soggetto. In ciò naturalmente Kierkegaard rivendica l'assoluta differenza tra uomo e Dio, per cui il processo di appropriazione personale della verità risulta essere la cosa più difficile di questo mondo, anche se è l'unico efficace, in quanto solo l'esistenza è il contrario del sistema. Nel momento stesso in cui viene pensata, l'esistenza viene soppressa. Ogni pensiero infatti appartiene al passato, mentre l'esistenza può vivere solo nel presente. Il sistema dà sicurezza (formale), l'esistenza invece è angoscia. Il sistema colloca tutte le cose in una continuità astratta, l'esistenza invece è discontinua, è salto, trascendenza.

Naturalmente per "filosofia oggettiva" Kierkegaard non intende solo quella da Cartesio ad Hegel, ma anche tutte le scienze naturali e tutto lo scientismo positivistico, nonché qualunque teologia sistematica (la quale di per sé nega la fede).

b) Gli stadi dell'esistenza: estetica, etica e religiosità

Per Kierkegaard esistono tre stadi esistenziali in cui l'uomo gioca la sua vita: ne parla anzitutto in Enten-Eller, ma anche negli Stadi sul cammino della vita. Lo stadio estetico è rappresentato dal seduttore mozartiano Don Giovanni, ed è quello istintivo di chi vive nell'immediato, nell'indifferenza per il valore, in quanto non sceglie mai, essendo di continuo alla ricerca del piacere. La crisi dell'estetica avviene quando si prende consapevolezza che questa vita è disperazione. Ecco che allora subentra l'etica, che è continuità, ripetizione, scelta esistenziale, in quanto l'uomo si adegua all'universale e rinuncia ad essere l'eccezione. L'ideal-tipo è il marito che lavora (vedi l'assessore Guglielmo di Aut-Aut). Il passaggio dall'etica alla religiosità si verifica nel momento in cui l'etica si pente, cioè quando essa di accorge della propria disposizione al male (che è il meschino conformismo borghese). Il passaggio però avviene con il salto della fede, ed è quindi più difficile di quello dall'estetica all'etica.

Molti critici hanno notato che in Enten-Eller esisteva tra etica e religione un'armonia che a partire da Timore e tremore non si ritroverà più, in quanto la religione - come ad es. mostra la figura di Abramo che sacrifica Isacco - si oppone radicalmente ad ogni forma di etica.

c) Angoscia e Disperazione

Il tema dell'angoscia attanaglia la produzione di Kierkegaard sino alla Malattia mortale, ove si verifica il tentativo di superare l'angoscia con la fede, determinata dal superamento della disperazione. L'angoscia è la possibilità della libertà ed anche il senso di colpa conseguente al peccato. La disperazione invece è il rifiuto del pentimento e, siccome è rivolta all'interno dell'io, essa implica una maggiore determinazione in carattere. L'io nella Malattia mortale è una sintesi di libertà e necessità: senza la pienezza della necessità l'io si disperde e non realizza nulla di concreto (l'io, nel testo, comprende la necessità riflettendo sul pungolo nella carne); senza la pienezza della libertà l'io non potrebbe essere disperato sino in fondo e quindi non potrebbe giungere a una fede matura.

Nella Malattia mortale Kierkegaard fa nascere la fede dalla disperazione non dall'angoscia, proprio perché, col tempo, l'angoscia di Kierkegaard si era già trasformata in disperazione: il bisogno parossistico di superare la disperazione ch'egli prova di sentirsi un escluso dalla società lo porta ad affermare una fede religiosa del tutto irrazionale.

d) L'istante e la storia

Per Kierkegaard la vivibilità del cristianesimo è possibile solo nel singolo e qui solo nel momento, nell'istante, in quanto ad ogni istante il singolo deve giocare la propria fede, non potendola mai dare per scontata. Non ci può essere continuità storica nella fede, né automatismi di sorta, né una rivelazione progressiva della verità nella storia, poiché tutto è sempre in discussione. La verità può essere affermata solo di volta in volta, sulla base dell'esperienza. L'eternità può solo essere racchiusa nell'istante del tempo, in quanto non fa parte della realizzazione storica. La storia non è di nessun aiuto ai fini di tale realizzazione nell'istante, anzi più spesso essa rappresenta una forma d'impedimento, poiché non fa capire al singolo ch'egli si trova ogni volta di fronte alla verità in maniera assoluta, originale, dovendo decidersi ogni volta per essa. La verità per Kierkegaard è quella di Cristo, nei cui confronti il singolo si sente "discepolo di prima mano", un apostolo tra gli apostoli, del tutto contemporaneo, nonostante i secoli della storia.

Kierkegaard-Renaissance

Uno dei nostri scrittori più dotati.

vescovo Mynster

Kierkegaard è stato considerato il padre dell'esistenzialismo: la corrente filosofica che ha dominato in Europa, sotto diverse diramazioni, verso la prima metà del '900. In particolare il suo pensiero è stato rivalutato subito dopo la I guerra mondiale, quando non si poteva più credere in alcuna filosofia sistematica che spiegasse, con fiducia nel progresso, il perché della vita. A lui si richiama la filosofia esistenziale tedesca di Heidegger e Jaspers, i teologi dialettici Barth, Gogarten e Bultmann, gli esistenzialisti francesi Marcel, Lavelle, Le Senne, Whal, Camus, Gide.... In Inghilterra si rifanno a lui Allen, Bain. In Russia lo apprezzarono Berdjaev e Chestov. Il suo influsso lo si avverte anche nelle opere di Ibsen, Strindberg, Kafka, Dostoevskij. In Italia suoi seguaci sono stati Abbagnano e Paci, Fabro e Cortese, Cantoni, Pareyson e molti altri ancora. Si deve però sottolineare che l'esistenzialismo francese, tedesco e italiano non ha tenuto in particolare considerazione la problematica religiosa di Kierkegaard; dal suo pensiero ha piuttosto tratto quei concetti generali validi per ogni uomo, come "possibilità", "scelta", "paradosso", "angoscia", "disperazione", "nulla", "singolo", ecc. E' stata invece la teologia dialettica ad approfondire i concetti dell'"infinita differenza qualitativa" tra uomo e Dio, della "contemporaneità col Cristo", della "decisione di fede", ecc.

Rilievi critici

Sei andato un po' troppo oltre,
mi sembra che forse hai qualche ritrattazione da fare.

E. Boesen

1) Il miglior Kierkegaard è quello giovane, quello che tratta l'estetica in maniera fenomenologica e quello della tesi di laurea sull'Ironia.

2) Kierkegaard è passato da un'esistenza etica malamente vissuta (forte infatti era la tentazione estetica del dandysmo durante il periodo universitario) a un'esistenza estetico-intellettuale caratterizzata da un interesse per il religioso svolto in maniera sempre più irrazionale. La sensibilità maturata in gioventù per le questioni sociali, attraverso il filtro dell'esperienza socio-religiosa, è venuta meno quando si è rinunciato a questa esperienza, senza cercarne un'altra altrettanta sociale, ed è riemersa (in maniera irrazionale) quando si è cercato di anteporre la propria esperienza religiosa a quella della collettività protestante (ma anche democratico-borghese e socialista).

3) Si potrebbe tentare uno studio psicanalitico della personalità di Kierkegaard cogliendo nei due momenti di rottura fondamentali della sua vita (quello alla fine degli anni '30 nei riguardi del pietismo e quello alla fine degli anni '40 nei riguardi del protestantesimo) il passaggio da una forma di nevrosi ossessiva a una forma di psicosi ancora più ossessiva e delirante.

4) La sua esigenza di valorizzare il singolo ha senso solo all'interno di un contesto sociale, di un'esperienza collettiva in cui la verità del singolo possa e debba confrontarsi con la verità di altri singoli, altrimenti è follia. La sua stessa critica del cristianesimo-borghese se può apparire giusta nella parte polemica, risulta inconsistente al momento della proposta risolutiva, proprio a causa della determinazione isolata del singolo.

5) Kierkegaard potrebbe essere situato, per il concetto di "singolo", in quella linea di pensiero che va da Stirner a Nietzsche.

SINTESI

Nel filosofo danese Soeren Kierkegaard l'affermazione della superiorità dell'individuo (rispetto alla collettività) va di pari passo con l'affermazione della sua religiosità. Nel senso cioè che la religione viene usata da Kierkegaard come occasione per distaccare l'individuo dal contesto sociale, rendendolo un "eletto di dio" (Nietzsche farà la stessa cosa ma servendosi dell'ateismo e quindi parlando di "superuomo").

Nella tesi di laurea sul Concetto dell'ironia (1841) e nel suo capolavoro Enten-Eller (1843) non si nota ancora questo processo di estraniazione e di auto-alienazione come invece a partire da Timore e tremore (1843), che costituisce una sorta di spartiacque fra il primo e il secondo Kierkegaard, cioè tra il fenomenologo dell'esistenza e lo psicologo, teologo e filosofo della religione.

Egli personalizzerà l'interpretazione di vari personaggi biblici: Abramo, Adamo, Giobbe..., solo per giustificare, ogni volta, la sua rottura con la società. Il nesso, assai stretto, di singolo e religione è chiaramente irrazionalistico, e rappresenta il tentativo di trovare un'alternativa alle idee democratiche e socialiste che venivano emergendo anche nell'arretrata Danimarca.

Il Kierkegaard più profondo sul piano psicologico (si pensi al Concetto dell'angoscia del 1844, ma soprattutto alla Malattia mortale del 1848) è anche il Kierkegaard più irrazionale, quello meno disposto a rimettere in discussione il primato del singolo. Fino alla Postilla non scientifica (cioè prima del '48) Kierkegaard soffriva di un irrazionalismo nevrotico, non psicotico, cioè un irrazionalismo pieno di paure, di rimorsi, di sensi di colpa: con la Malattia mortale invece si realizza quella che lui definiva la "determinazione in carattere".

Spesso la critica afferma che il giovane Kierkegaard è molto più superficiale del Kierkegaard maturo, appunto perché si limitava a sviscerare l'argomento dell'estetica. In realtà, l'estetismo affermato in Enten-Eller non voleva apparire come un gioco fine a se stesso. Si trattava di un estetismo col quale mettere in crisi l'astratta filosofia hegeliana, che imperava anche nelle università danesi. Era un estetismo accettabile, finalizzato peraltro a una valorizzazione più personale dell'etica (non a caso l'ideale di Kierkegaard, nella tesi di laurea, era stato Socrate).

Il torto di Kierkegaard sta: 1) nell'aver isolato il singolo che critica l'eticità formale e statalista di Hegel; 2) nell'aver caratterizzato in chiave solo religiosa tale protesta. Un errore di metodo e uno di merito.

Kierkegaard comprese perfettamente la dinamica del passaggio dallo stadio estetico a quello etico, ma ha poi preteso d'indirizzare verso la religione la crisi dell'etica (peraltro verso una forma di religione vissuta in maniera estetica e intellettuale, cioè in maniera asociale). Cioè alla crisi dell'etica borghese (rappresentata dall'hegelismo), Kierkegaard ha dato una risposta non politica ma psicologica, non sociale ma individuale.

Quando poi egli, nella tarda maturità, s'impegnerà politicamente contro la chiesa danese, facendolo dal punto di vista esclusivamente religioso, userà dei modi del tutto irrazionalistici, poiché il suo sarà il punto di vista di una religiosità meramente individuale, priva di riscontri nella realtà (si pensi, in tal senso, alle assurde equazioni di verità e martirio o di verità e sofferenza).

Di Kierkegaard, al limite, si potrebbe accettare tutto: il concetto di paradosso, di scandalo, di fede, d'interiorità, di contemporaneità e persino quello di soggettività che fa la verità, ma non si può assolutamente accettare che tutto ciò venga circoscritto nell'ambito della mera individualità isolata.

Per l'individualismo di Kierkegaard i concetti suddetti sono "assoluti", non "relativi", cioè non si lasciano mettere in gioco dialetticamente con i loro contrari. Il paradosso, ad es., viene sempre usato contro la mediazione, lo scandalo contro il dubbio, la fede contro la ragione, la contemporaneità contro la storia e così via. Questo modo di vedere le cose risulta, alla fine, più astratto e velleitario di quello hegeliano.

Bibliografia

S. Kierkegaard, Opere, a c. di C. Fabro, ed. Sansoni, FI 1972. Contengono: Diapsalmata, Riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Timore e tremore, Il concetto dell'angoscia, Briciole di filosofia, Postilla conclusiva non scientifica, La malattia mortale, L'esercizio del cristianesimo, Il vangelo delle sofferenze, Per l'esame di se stessi, L'immutabilità di Dio.
 Opere, Piemme 1995 (I, II, III)
 Enten-Eller, a c. di Cortese, ed. Adelphi 1976-78 (I, II, III, IV, V).
 Aut-Aut, Mondadori 2002
 Diario, BUR 2000 (vedi anche i 12 Diari pubblicati a c. di C. Fabro, Morcelliana, 1980-83)
 Atti dell'amore, Bompiani 2007 (anche Rusconi 1983).
 Sul concetto d'ironia, ed. Guerini e associati, Milano 1991.
 L'ora, Newton Compton, Roma 1977.
 L'istante, Marietti 2001
 In vino veritas, Laterza 2007
 La ripetizione, ed. Guerini e associati 1991
 Lo specchio della parola, Sansoni 1948.
 La neutralità armata, ed. Sortino, Messina 1972.
 Dell'autorità e della rivelazione (libro su Adler), ed Gregoriana 1976.
 La dialettica della comunicazione etica ed etico-religiosa, Morcelliana 1957.
 La lotta tra il vecchio e il nuovo negozio del sapone, ed. Liviana, Padova 1967.
 Diario di un seduttore, Giunti Demetra 2008
 Il concetto dell'angoscia, SE 2007
 La malattia mortale, Newton 2004
 Don Giovanni, BUR 2006
 Sul matrimonio, BUR 2006
 Sulla mia attività di scrittore, ETS 2006
 Briciole filosofiche, Queriniana 2004
 Timore e tremore, Mondadori 2003
 L'attrice di Inter et Inter, Marietti 2002
 L'istante, Marietti 2001
 Stadi sul cammino della vita, BUR 2001
 Dalle carte di uno ancora in vita, Morcelliana 1999
 Due discorsi edificanti (1843), Marietti 2000
 Prefazioni, BUR 1996
 Sulla filosofia della rivelazione di Schelling, Bompiani 2008
 La comunicazione della singolarità, Herbita 1969
 Accanto a una tomba, Il Nuovo Melangolo 1999
 Mozart. L'erotico nella musica. Dalle «Nozze di Figaro» al «Don Giovanni», Bastogi Editrice Italiana 1998
 Johannes Climacus o De omnibus dubitandum est, ETS 1996
 Una recensione letteraria, Guerini e Associati 1995
 Due epoche, Nuovi Equilibri 1994
 Diapsalmata, Editoriale opportunity book 1996
 Esercizio di cristianesimo, Piemme 2000

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Aggiornamento: 26-04-2015