IL GIOVANE KIERKEGAARD

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KIERKEGAARD E L'ESISTENZIALISMO RELIGIOSO (1813-1855)

I - II - III - IV

DINAMICA IRRAZIONALE NEL GIOVANE KIERKEGAARD

Premessa

Esistono due momenti centrali nella vita di Kierkegaard: gli anni 1837-39 e gli anni 1847-49, che indicano due rotture, pratiche e teoretiche; nella prima si rompe con l'esperienza pietistica, affermando il primato del singolo problematizzato nell'interiorizzazione sofferta della verità cristiana; nella seconda si rompe con la chiesa protestante danese, affermando, in forza della sofferenza cristiana, la fede di un singolo "martire", ritenuto vero e autentico testimone della verità.

Soprattutto la prima rottura, quella del periodo giovanile, i critici kierkegaardiani l'hanno o poco considerata o abbastanza fraintesa. Dando più peso alle polemiche con la chiesa danese e al volto "maturo" della sua personalità, il giudizio espresso sul giovane Kierkegaard è stato quasi sempre piuttosto affrettato. D'altra parte è necessario, anche se un po' schematico, interessarsi, nell'esame di un filosofo o comunque di uno scrittore, più della posizione assunta nella maturità che non di quella giovanile, specie se si riscontra che questa è stata successivamente smentita.

Così, nella certezza più o meno dichiarata che la partecipazione all'esperienza morava-pietistica non può aver avuto alcun peso determinante nella vita di Kierkegaard, il critico riduce di quest'ultimo, quasi sempre inconsapevolmente, l'argomentazione religiosa allo scontro teologico-esistenziale col protestantesimo ufficiale o, come fa Cornelio Fabro, al mancato incontro col cattolicesimo tomista.

Spesso insomma il coinvolgimento kierkegaardiano col pietismo viene visto solo alla luce d'una giovanile "istanza d'autenticità", destinata ad eclissarsi a maturazione avvenuta, in un'interpretazione più ampia e complessa della chiesa protestante. Lo stesso Kierkegaard a volte lascia intendere al suo immaginario e postumo biografo che avrebbe preferito esser letto in quest'ottica.

A tale proposito osserva Cornelio Fabro: "un punto essenziale che finora è passato quasi inosservato od appena sfiorato dagli studi kierkegaardiani è il rapporto di Kierkegaard al pietismo. Alcune puntate critiche del Diario potrebbero mettere qui fuori strada: se Kierkegaard criticava certe stramberie e mal sopportava l'odore di muffa di certe conventicole pietiste, ne ritiene lo spirito e professa i capisaldi di quell'orientamento spirituale come forse nessun'altro scrittore religioso del secolo XIX (Introduzione al Diario, curato da C. Fabro, 2 voll., Morcelliana, Brescia 1962, 2 ed., pp. 66-7).

Perciò ogni impostazione ermeneutica, se vuole realmente comprendere la complessità dell'esistenza di Kierkegaard, deve partire proprio dagli anni 1834-42, il periodo che va dall'inizio della stesura del Diario alla pubblicazione di Enten-Eller.

I

Tracciando una biografia ragionata del giovane Kierkegaard si dovrebbe scegliere come punto di partenza l'anno 1834 non tanto perché con esso egli inizia la stesura del suo monumentale Diario, ma per un pensiero estremamente indicativo ai fini della comprensione del dramma esistenziale che caratterizzerà tutta la sua vita.

L'annotazione, fatta sul Diario del 1835, si riferisce a un viaggio compiuto in precedenza a Gilleleie per rimettersi da una grave forma d'esaurimento nervoso. "Ciò che in fondo mi manca - scrive - è di veder chiaro in me stesso, di sapere 'ciò ch'io devo fare' (At 9,6) e non ciò che devo conoscere, se non nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l'azione. Si tratta di comprendere il mio destino, di vedere ciò che in fondo Dio vuole ch'io faccia, di trovare una verità che sia una verità 'per me', di trovare 'l'idea per la quale io voglio vivere e morire' [...] ma per trovare quest'idea o meglio per trovare me stesso, non serve a nulla l'ingolfarmi ancor più nel mondo. Era proprio questo ch'io prima facevo"(IA75).

Al giusto primato attribuito alla pratica sulla conoscenza oggettiva o fine a stessa, all'importanza decisiva di possedere una verità "edificante", non necessariamente "scientifica" (e questi son già i motivi della sua futura polemica anti-hegeliana), fa seguito qui una considerazione di metodo stranamente a-sociale se non addirittura anti-sociale: l'io può ritrovar se stesso solo ponendosi al di fuori del mondo.

Se si guarda anche solo il contesto culturale in cui venne a formarsi la personalità di Kierkegaard, ci si accorgerà facilmente che ogni cosa era intrisa di istanze concrete. La stessa comunità morava era una ulteriore concretizzazione del movimento pietista, il quale a sua volta voleva dare maggior sostanza e coerenza al protestantesimo ufficiale. I maestri neokantiani del giovane Soeren, S. C. Sibbern e P. Moeller, miravano a valorizzare, senza cadere in ciechi empirismi, l'hegeliana Fenomenologia dello spirito. Nei suoi appunti universitari, le categorie più ricorrenti sono quelle di personale, figura, rappresentanza, schema, individualità... Gli interessi culturali paiono concentrarsi sulla costruzione di una fenomenologia dell'individuale; notevoli sono gli studi sulla psicologia estetica e religiosa; significativi quelli sulla poesia danese a lui contemporanea, nonché le letture di Bayle, Leibniz, Tennemann, Trendelenburg e in specie Schleiermacher, la cui influenza era visibilmente avvertita nell'Università di Copenaghen.

Ora, come mai quel progressivo allontanamento dal sociale, dal "mondano", dagli interessi fenomenologici ed estetici, come mai il distacco dalla materialità della vita? Come è giunto Kierkegaard alla scelta esistenziale dell'individualismo che lo porterà poi all'irrazionalismo? Su questo è lui stesso a darci una risposta nel medesimo passo sopra riportato: "non essendo riuscito a piegare tutto al mio arbitrio, mi sono ritirato con la coscienza della mia capacità...". Ciò che dunque ha spinto ad abbandonare il sociale è stata l'impotenza del suo arbitrio a realizzarsi.

Kierkegaard amava il mondo, più volte ne parla nel Diario: "io amavo in simpatia malinconica gli uomini e la folla degli uomini. La loro bestialità mi costrinse, per poter resistere, a mettermi sempre più in rapporto con Dio"(XI1A384). Ma in che modo egli riusciva ad amare gli altri? Nei Diapsalmata avrà modo di dire che "il malinconico possiede soprattutto il senso del comico", e lui è certamente una natura malinconica. E' il "demonio della spiritosità" a farlo emergere di prepotenza sugli altri; ma mentre questo, da una parte, gli procura la gioia di una socialità, dall'altra lo sottopone a un'amara ma inevitabile strumentalizzazione. Egli infatti non viene mai considerato al di là della sua ironia.

In un passo del Diario del 1849 egli precisa che, in un certo qual modo, la malinconia costituisce "una specie di pazzia parziale"(X1A519). Altrove sostiene che in fondo la disperazione (o accidia o malinconia) è data proprio dal supremo isolamento dell'uomo. E anche nel Riflesso del tragico antico nel tragico moderno egli aveva espressamente detto che il comico "consiste nell'isolamento" e che "ogni particolarità isolata diventa sempre comica per il fatto ch'essa vuol far valere la sua contingenza di fronte alla necessità dello sviluppo". Infine in Aut-Aut scrive: "ai nostri giorni l'essere malinconico è quasi diventato uno snobismo ricercato da tutti", ma la malinconia è "l'isterismo dello spirito".

Proprio a motivo di questa ambiguità di fondo Kierkegaard pone in dubbio il suo intendimento della vita. Scrive, a tale proposito, nel Diario del seduttore: "Non si sottraeva alla realtà: non era, infatti, troppo debole per sopportarla, anzi era troppo forte. Ma questa sua forza in fondo non era che malattia". "Aveva una vita spirituale troppo sviluppata...", il che gli determinò "quel modo ambiguo nel quale visse tutt'intera la sua vita". E' dunque veramente stima quella per un uomo frivolo? Ed è veramente utile a se stessi questo gioco estetizzante col cristianesimo? "Finora ho lottato per la verità del Cristianesimo quasi tenendomi in un certo modo fuori di esso", andrà constatando nel Diario (IIA232).

Nel 1850, poco prima di rompere ufficialmente e per così dire platealmente con la chiesa protestante danese, egli cercherà di reagire alla propria estraneità alla sfera socio-religiosa non rinunciando definitivamente all'elemento religioso di questa realtà, ma, al contrario, facendo di esso un motivo particolare per accentuare il proprio irrazionalismo. Un passo significativo è tratto sempre dal Diario, che è una vera miniera per quello studioso che voglia analizzare psicologicamente le personalità religiose chiuse in se stesse: "non ho garantito che in fatto d'interiorità nascosta io fossi un cristiano, pur cercando del resto con tutte le mie forze di comportarmi bene nel mondo. Al contrario, ho mascherato la mia interiorità, ho preso l'aspetto di un egoista, di un uomo frivolo ecc., e tuttavia ho agito poi in modo da sperimentare nella mia esistenza i conflitti cristiani. Nondimeno resta sempre la questione delicata di sapere se ciò è permesso, poiché la caratteristica del Cristianesimo è di attirarsi addosso sarcasmi e persecuzioni, quando lo si professa per davvero. Agendo alla stregua del Cristianesimo, io mi attiro, è vero, un trattamento dello stesso genere, ma chissà, forse l'accanimento sarebbe ancora maggiore se il mondo venisse a sapere che lo si fa per confessare il Cristo. Perché alla peggio il mondo è piuttosto propenso ad accettare una bizzarria geniale che adattarsi... al Cristianesimo" (A3A334, testo non compreso nell'edizione curata da C. Fabro).

E' il problema dell'identità di sé ch'egli non riesce a risolvere: non è abbastanza coinvolto in un'esperienza socio-religiosa per potersi dire pienamente protestante, contestando eventualmente i limiti di tale confessione standovi dentro (cosa che farà solo nella fase pietistica); soffre sicuramente del protestantesimo gli aspetti dell'individualismo, tipici di questa confessione, così strettamente vincolata a esperienze di tipo borghese; non è credibile - come invece sostiene Fabro - ch'egli era troppo "cattolico" per poter essere un vero protestante; è invece del tutto vero ch'egli fosse troppo "religioso" per aderire a esperienze sociali di tipo laico: i giudizi ch'egli darà del socialismo e della democrazia saranno sempre fortemente negativi.

"Mi sembra - così scrive in un'altra pagina del Diario - che la vita ch'io vivo non sia la mia, ma corrisponda invece punto per punto a quella di un'altra persona, senza ch'io possa far niente per impedirlo; ed ogni volta non me ne accorgo se non quando è fino a un certo punto già vissuta" (IIA444). L'identità insomma è sdoppiata in due personalità: una virtualmente, idealmente, intenzionalmente religiosa, racchiusa nella sfera isolata del singolo credente; l'altra dell'intellettuale strambo, asociale, disorganico.

Nell'introversione del soggetto, che vuole recuperare se stesso, Kierkegaard trova di vero e autentico non immediatamente il suo proprio "io", ma una "ricerca e scoperta del regno dei cieli"(IA75). Egli ha abbandonato un'esperienza pratica della fede (il pietismo), in qualche modo socialmente significativa, per darsi alla contemplazione "mistico-intellettuale" del dio luterano, e siccome questo passaggio è coinciso con una notevole produzione letteraria (da cui s'è fatta addirittura partire la corrente dell'esistenzialismo europeo), non pochi critici hanno ravvisato in ciò la vera maturità kierkegaardiana e non l'inizio del suo irrazionalismo.

Kierkegaard ha scelto il dio luterano perché incapace di vivere nel mondo, con la differenza ch'egli, in questa scelta, non ha accettato un dio "istituzionale" o comunque di una qualsivoglia esperienza socio-religiosa, ma ha preferito costruirsi un'immagine di dio a proprio uso e consumo. Cioè egli ha cominciato il suo iter irrazionalistico non solo nel momento in cui ha finito l'università, ha rinunciato all'insegnamento del latino e al matrimonio con Regina Olsen, ma anche nel momento in cui, accettando di restare credente, ha preferito rompere col Pietismo e di non riconoscersi in alcuna altra mediazione di tipo ecclesiale.

Può anche essere vero - come sostiene Fabro - che il motivo della rottura col Pietismo fu dettato dalla necessità di personalizzare una verità vissuta in modo formale, ma l'interiorizzazione venne gestita semplicemente come pretesto per scegliere l'isolamento. E' assurdo sostenere che Kierkegaard divenne irrazionalista perché in Danimarca non ebbe mai la possibilità di vivere un'autentica alternativa religiosa al Protestantesimo. Egli più e più volte scrisse che nel compito dell'interiorizzazione la comunità non era di nessun aiuto, essa anzi smorzava l'urto con la dura realtà dei fatti, deresponsabilizzando l'individuo, cioè inducendolo a delegare ad altri l'urgenza di una propria decisione esistenziale (il "rapporto assoluto all'Assoluto", come verrà da lui enfaticamente definito).

In tutta la fase irrazionalistica della sua produzione egli ha avuto la pretesa di anticipare per così dire la vita nel pensiero dialettico, senza mai confrontarsi concretamente con la realtà. Dirà infatti nel Diario: "provo così poca soddisfazione a vivere perché ogni pensiero si presenta alla mia mente con tale energia, in una proporzione così sovrumana, ch'io ne sono veramente come sopraffatto. E questa anticipazione, lungi dal trasfigurarmi l'esistenza, mi rende piuttosto impotente a trovare ciò che le corrisponda nella vita, mi lascia troppo agitato e coi nervi troppo scossi per trovare il riposo" (IIA512).

Si tratta del sostanziale rifiuto dell'imperfezione della realtà sociale per la perfettibilità di un'idea meramente concettuale, che non riflette altro che un travaglio meramente interiore. "Nel frequentare la media degli uomini ho avuto ben poco da guadagnare o perdere. In parte perché tutto il loro affaccendarsi - ciò che si chiama la 'vita pratica' - non m'interessa affatto; in parte la loro freddezza o completa apatia per i moti spirituali o interiori dell'uomo, me ne hanno ancor più allontanato. Neppure i miei amici abituali, fatta qualche rara eccezione, hanno influito molto su di me" (IA75).

Tale progressivo distacco dai rapporti sociali, che nel giovane Kierkegaard si fondono con quelli religiosi del Pietismo, abbisognava, in forza dello scrupolo che prende sempre uno che sceglie l'isolamento dopo aver vissuto un'esperienza di socializzazione, di una giustificazione più "oggettiva" di quella che poteva offrire lo stato d'animo della malinconia.

Ora, detta giustificazione solo limitativamente può essere individuata nel cosiddetto "pungolo nella carne", che a suo parere lo rendeva simile a Paolo di Tarso (2Cor 12,7ss.) e che probabilmente fu da lui considerato motivo sufficiente per rompere il rapporto con Regina: il che ha fatto pensare a qualche difetto di tipo fisico.

La vera giustificazione sta in realtà in un giudizio di critica sommaria nei confronti del mondo che lo circonda. "Si sono ammirate le mie doti - scriverà nel Diario - e per questo si voleva che fossi più socievole coi miei simili, ecc.; poiché non volli si pensò ch'era orgoglio da parte mia e perciò si dice che ora tutto mi sta bene. Ahimé, e non si trattava in realtà che di sofferenza e tormento tale da dar di volta al cervello in mezz'anno a chiunque. Ma si crede che sia orgoglio e perciò, stavo per dire, si spera e si aspetta ch'io finisca al manicomio" (VIIIA185).

E in Aut-Aut, rivolgendosi a un immaginario interlocutore: "una volta dicesti, in un momento di scoraggiamento, che forse c'erano già coloro che tra sé avevano tirato le somme sul tuo conto, pronti a liquidarti alle seguenti condizioni: ti riconoscevano per un cervello fine, in compenso però dicevano che ti saresti perduto e non saresti diventato un membro della società degno di nota. E' innegabile che nel mondo esiste tanta gente meschina che vuole trionfare su tutto quello che si eleva di un solo palmo dalla mediocrità".

La pubblicazione di Enten-Eller - nonostante il clamoroso successo editoriale - non gli valse a nulla. Vani furono i tentativi di Heiberg d'invitarlo ad aderire al suo circolo culturale, il maggiore di Copenaghen, e di P. L. Moeller di chiedergli una collaborazione alla rivista di estetica "Gaea". Kierkegaard era già situato sulla linea irreversibile dell'anti-socialità in nome di un singolo religioso e sofferente, teso a diventare "testimone della verità cristiana". Ecco perché rifiuta di tenere conferenze, dibattiti, non lascia alcuna dichiarazione e non concede alcuna intervista. Nel 1843, con la pubblicazione di Enten-Eller, Kierkegaard usciva ufficialmente dal mondo della cultura, rinunciava agli interessi di fenomenologia dell'estetica e si accingeva ad affrontare sistematicamente soltanto argomenti di tipo religioso.

II

Riguardo alla rottura pietistica posta da Kierkegaard, il biennio 1837-39 risulta per così dire centrale, anche se, a ben guardare, l'esperienza del giovane Soeren andrebbe datata a partire dagli anni 1828-30, e forse ancor prima, se si considera ch'egli entrò giovanissimo a parte della comunità morava, la quale presumeva di dare maggiore concretezza sociale alla rivoluzione teologica del protestantesimo.

"A nostro avviso - osserva Giulia Bochi - la sola sufficiente interpretazione del pensiero etico-religioso di Kierkegaard, la sola cioè tale da rendere ragione della sua problematicità, è quella che tien conto della tradizione pietistica: si pensi alla 'comunità dei fratelli di Stormgade', che l'adolescente Kierkegaard aveva frequentato e conosciuto, alla profonda conoscenza dei testi pietistici (ad Arndt, Spener e Teerstegen si riferisce costantemente nel Diario); ed anche alla derivazione indiretta per cui il Cristianesimo a buon diritto si pone accanto alla filosofia religiosa di pietisti come Hamann e Schleiermacher"(in Peccato e fede. Motivi pietistici del pensiero di Kierkegaard, Faenza 1957). Fu lo stesso Michael, il padre di Soeren, a indirizzarlo verso l'esperienza pietistica.

Nel 1830 Kierkegaard s'iscrisse all'università. La sua frequenza fu irregolare, sia per lo scarso interesse che per lui dovettero rappresentare le lezioni accademiche, sia per l'impegno politico-sociale intrapreso nella Lega degli studenti. Quand'era presidente di detta Lega - rileva C. Fabro - "tenne un sensazionale discorso attaccando soprattutto le idee liberali e la loro 'donchisciottesca' opposizione al governo"(in Introduzione alle Opere). Dunque da giovane Kierkegaard era una sorta di integrista che univa fede e politica in nome di ideali socio-religiosi, in funzione anti-liberale e anti-romantica.

Tuttavia già nel novembre del 1836 egli riceve una sollecitazione di pagamento di quattro mesi arretrati della quota prevista dalla Lega, sotto pena d'interdizione dalla sala di lettura: l'allontanamento del giovane Soeren da istanze di tipo sociale (fossero esse studentesche o morave) avviene prima ancora di laurearsi.

Nella Postilla non scientifica (1846), delineando a grandi tratti il suo passato, egli si sofferma più sugli aspetti negativi che su quelli positivi, come per motivare a se stesso l'inevitabilità o addirittura la giustezza della rottura posta. Scrive: "sono stato studente circa una decina d'anni. Benché non sia mai stato pigro, la mia attività non era che una brillante inattività, una specie di occupazione per la quale io sento ancora una grande attrattiva e per la quale ho forse anche un pizzico di genialità. Leggevo molto e passavo il resto della mia giornata a gironzolare e a pensare, ossia a pensare e a gironzolare; ma tutto anche finiva lì. La spinta produttiva, assorbita dalla vita quotidiana, sfumava nel suo primo sbocciare. Un potere inesplicabile di persuasione quanto forte altrettanto astuto mi tratteneva, schiavo della sua persuasione. Questo potere era la mia indolenza".

Egli rinunciò ad ammettere a se stesso d'aver vissuto negli anni della sua giovinezza qualcosa di particolarmente significativo: il ricordo di quegli avvenimenti non poteva essere sopportato in una coscienza che pretendeva d'affermarsi come vera proprio in forza di quella rottura col passato: perciò questo viene deformato e allo stesso tempo ricompreso sotto diversa luce.

Il passo che segue spiega bene la speranza di una riconciliazione sui generis: "il tempo passa, dicevo a me stesso, e ti stai avvicinando alla vecchiaia senza essere niente e senza in fondo aver fatto niente. Dappertutto invece dove tu volgi lo sguardo, nella letteratura come nella vita, vedi i nomi e le figure degli uomini celebri, gli uomini preclari e applauditi (...) E tu che fai? (...) Tu devi fare qualcosa; ma poiché sarebbe impossibile per le tue forze limitate rendere qualcosa di più facile di quel che non sia già stato fatto, tu devi, col medesimo entusiasmo di umana simpatia di quegli altri famosi, assumerti il compito di renderlo più difficile. L'idea mi piacque in modo straordinario: essa inoltre destò in me il lusinghiero pensiero che anch'io, come gli altri, sarei stato amato e celebrato per la mia fatica da tutta la comunità"(in Opere, p. 359).

La speranza di poter trovare con altri mezzi e modi una qualche riconciliazione col proprio passato si comprende in questo senso, che fino a quando la comunità non avesse giudicato negativamente la soluzione individualistica prospettata da Kierkegaard, fino a quando cioè la comunità avesse rinunciato a spiegare criticamente il senso della scelta arbitraria dell'isolamento ch'egli voleva far passare come "oggettiva", inevitabile, allora, contro ogni aspettativa, sarebbe stato possibile mantenere un rapporto con la comunità sotto altre vesti, magari di tipo "poetico-evocativo" (il "compito di rendere le cose più difficili" risente in effetti di un certo intellettualismo), riuscendo addirittura, in una sorta di mistificazione apparentemente neutrale, benevola, a trovare una certa soddisfazione anche alla inevitabile angoscia prodotta dalla scelta dell'isolamento. Avrebbe potuto funzionare un rapporto così ambiguo tra io e non-io?

In una lettera del 1838 indirizzata all'amico Boesen (membro della stessa comunità morava), Kierkegaard chiarisce, da una parte, il motivo del suo progressivo allontanamento dall'esperienza pietistica, e dall'altra, il tentativo poetico-ideale di conservare ugualmente un nesso col passato, al fine di rimuovere l'inevitabile scrupolo morale dovuto all'individualismo. Scrive: "l'unico che sia rimasto al mio fianco quando lasciai che il dubbio e la sfiducia si portassero via e annientassero ogni cosa! (...) Sono stato detronizzato... sono un ex-monarca... un giovane di 25 anni privo di speranze... E tutta la mia vita non è forse falsata in modo che... è impossibile ch'essa prenda un senso e ancora di più che sia io a dargliene uno? (...) Tuttavia la mia tristezza sul mondo e nel mondo non si è ancora cambiata per la disperazione nel suo contrario... 'Una chiesa si erge lontano' (...) essere più di un uditore, provvisoriamente, io non posso"(Diario, I, pp. 261-3). Da qui prendono le mosse i motivi della sofferenza e della interiorizzazione.

Un anno prima Kierkegaard aveva avuto un fugace incontro con Regina Olsen e dopo aver cominciato a ricevere da suo padre una rendita annua di 500 talleri, inizia la sua vita indipendente. Da critica, col passar dei mesi, la sua situazione esistenziale diviene pressoché drammatica. Il fratello maggiore Pietro nota nel suo diario che "Soeren è più oppresso del solito da idee nere sulla sua salute fisica che lo rendono infelice, incapace di nulla, da rasentare quasi la pazzia"(Diario, I, p. 160). I pensieri sulla malinconia, sulla predestinazione, sulla coscienza del peccato, sul pungolo nella carne cominciano a intrecciarsi nella sua mente in un crescendo continuo.

Intanto passa a insegnare latino in un liceo di Copenaghen (periodo 1837-38), ma presto s'accorge di non trovare comunicazione con gli studenti. Nel febbraio del 1838 ancora Pietro ha motivo di lagnarsi del comportamento di Soeren, il quale "diventa sempre più irritabile, scontento, scoraggiato. Le mie conversazioni con lui - e bisogna ch'io stesso lo vada a cercare - non producono alcun effetto su di lui"(ib.).

Il 10 marzo muore P. M. Moeller, professore e amico molto vicino a Kierkegaard; nell'agosto muore anche il padre Michael, e una serie di lutti colpisce la famiglia per diversi anni. Riceve la cospicua eredità, che praticamente gli permette di vivere di rendita. In Aut-Aut è lui stesso a confessare di non aver "mai avuto preoccupazioni materiali", di non aver mai lavorato per vivere, essendo economicamente indipendente. Suo padre aveva come presagito ch'egli si sarebbe lasciato sedurre dagli agi che poteva permettergli una così notevole fortuna; era altresì convinto che in poco tempo l'avrebbe dilapidata, per questo lo spronava a "conquistare le condizioni per vivere", per cercare di vincere la sua "innata malinconia". Da notare che il giovane Soeren era convinto che sopra suo padre - avendo questi da giovane maledetto dio a causa delle proprie ristrettezze economiche - pesasse una vera e propria condanna morale, cui lui stesso si sentiva in qualche modo sottoposto.

Dopo aver sostenuto l'esame di teologia, compie un secondo viaggio nello Jutland per rimettersi da una grave forma d'esaurimento nervoso (cfr Diario, IIIA56) e decide improvvisamente di fidanzarsi con Regina, anch'essa della comunità morava. Sono gli anni 1839-40. Il rapporto con Regina fu per Kierkegaard l'ultimo brandello di vita comunitaria. La rottura del fidanzamento - avvenuta l'anno dopo - trova la sua motivazione nella difficile situazione esistenziale del giovane Soeren, cui nulla poteva la personalità forse un po' troppo remissiva di Regina. Egli volle motivare la rottura del fidanzamento mostrandosi "vigliacco e canaglia" (come risulta dal Diario del seduttore), anche se in Timore e tremore lascerà intendere d'aver troncato quel rapporto per vivere meglio un "rapporto assoluto all'Assoluto".

Il Diario degli anni 1839-41 documenta eloquentemente questo traumatico distacco dalla comunità morava e dal contesto sociale e affettivo della sua Copenaghen. In ciò il timore del giudizio altrui ha un peso rilevante: "così vivo io - scrive -, come un assediato nella mia camera: non ho voglia di vedere nessuno e ad ogni momento temo un assalto del nemico, cioè qualche visita"(Diario, IIA414).

Sembra essere quasi consapevole d'aver fatto una scelta molto grave e irresponsabile: "Io vivo in un modo - dirà nel Diario - che è il più adatto per portarmi difilato alla pazzia e farmi tenere per uno squinternato, e difatti un'intera classe della popolazione mi prende per un tipo strano. Poi ho un fratello che abilmente spiffera fuori ch'io rappresento la 'ecstasi' (questa parola, di solito, per il popolo equivale a essere pazzo, ed è riportata anche nei trattati di medicina per indicare una certa forma di pazzia)..."(XI1A47).

In un testo del 1835 aveva già affermato: "Anche alla loro influenza e agli scarti ch'essa avrebbe potuto provocare nel complesso della mia vita, io mi sono ora sottratto. Ed eccomi così al punto da cui mi tocca cominciare in un altro modo... Questa via mi porta alla lotta, ma non mi ritiro. Non rimpiangerò il passato: a che giova il rimpiangere? Con energia andrò incontro al futuro senza perdere tempo in rimpianti..."(IA75).

Il 23 settembre 1839 Kierkegaard scrive nel suo Diario d'essere nei riguardi del Cristianesimo "completamente passivo"(IIA574 e IIA607), preso dai "fantasmi" della sua immaginazione, di cui con le "discussioni" non riesce a liberarsi. Nella maturità giustificherà questo stato d'animo asserendo che ciò ch'era "peccato" in realtà era solo uno "scrupolo".

L'attività di scrittore avrebbe dovuto in qualche modo lenire il dolore di tale abbandono. Scrivere voleva dire per Kierkegaard affrontare con coraggio la propria malinconia, sottrarsi al giogo infernale dello scrupolo, ponendosi come fine un compito idealmente utile (o socialmente utile solo per via indiretta).

Il 16 luglio 1841, con una tesi magistrale sul Concetto dell'ironia (costantemente riferito a Socrate), egli si laurea in filosofia ottenendo il grado di Magister artium. Nell'ottobre, subito dopo aver rotto con Regina, compie un viaggio a Berlino, per distrarsi o per fuggire da quella situazione fattasi troppo gravosa; va ad ascoltare Schelling, per sei mesi, "annoiandosi terribilmente". Il 6 marzo del 1842 fa ritorno a Copenaghen, dando inizio alla sua enorme produzione letteraria.


Bibliografia

S. Kierkegaard, Opere, a c. di C. Fabro, ed. Sansoni, FI 1972. Contengono: Diapsalmata, Riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Timore e tremore, Il concetto dell'angoscia, Briciole di filosofia, Postilla conclusiva non scientifica, La malattia mortale, L'esercizio del cristianesimo, Il vangelo delle sofferenze, Per l'esame di se stessi, L'immutabilità di Dio.
 Opere, Piemme 1995 (I, II, III)
 Enten-Eller, a c. di Cortese, ed. Adelphi 1976-78 (I, II, III, IV, V).
 Aut-Aut, Mondadori 2002 (contiene due frammenti tratti dalle Carte di B del complesso di Enten-Eller).
 Diario, BUR 2000 (vedi anche i 12 Diari pubblicati a c. di C. Fabro, Morcelliana, 1980-83)
 Atti dell'amore, Bompiani 2007 (anche Rusconi 1983).
 Sul concetto d'ironia, ed. Guerini e associati, Milano 1991.
 L'ora, Newton Compton, Roma 1977.
 L'istante, Marietti 2001
 In vino veritas, Laterza 2007
 La ripetizione, ed. Guerini e associati 1991
 Lo specchio della parola, Sansoni 1948.
 La neutralità armata, ed. Sortino, Messina 1972.
 Dell'autorità e della rivelazione (libro su Adler), ed Gregoriana 1976.
 La dialettica della comunicazione etica ed etico-religiosa, Morcelliana 1957.
 La lotta tra il vecchio e il nuovo negozio del sapone, ed. Liviana, Padova 1967.
 Diario di un seduttore, Giunti Demetra 2008
 Il concetto dell'angoscia, SE 2007
 La malattia mortale, Newton 2004
 Don Giovanni, BUR 2006
 Sul matrimonio, BUR 2006
 Sulla mia attività di scrittore, ETS 2006
 Briciole filosofiche, Queriniana 2004
 Timore e tremore, Mondadori 2003
 L'attrice di Inter et Inter, Marietti 2002
 L'istante, Marietti 2001
 Stadi sul cammino della vita, BUR 2001
 Dalle carte di uno ancora in vita, Morcelliana 1999
 Due discorsi edificanti (1843), Marietti 2000
 Prefazioni, BUR 1996
 Sulla filosofia della rivelazione di Schelling, Bompiani 2008
 La comunicazione della singolarità, Herbita 1969
 Accanto a una tomba, Il Nuovo Melangolo 1999
 Mozart. L'erotico nella musica. Dalle «Nozze di Figaro» al «Don Giovanni», Bastogi Editrice Italiana 1998
 Johannes Climacus o De omnibus dubitandum est, ETS 1996
 Una recensione letteraria, Guerini e Associati 1995
 Due epoche, Nuovi Equilibri 1994
 Diapsalmata, Editoriale opportunity book 1996
 Esercizio di cristianesimo, Piemme 2000

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015