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Commento al cap. 4 "Lo sviluppo del Capitale"
del Trattato marxista di economia di E. Mandel (vol. I)
(ed. ErreEmme, Roma 1997)

Mandel parte subito male: "Il sovrapprodotto agricolo è la base di ogni sovrapprodotto e quindi di ogni civiltà"(p. 163). Anche in queste affermazioni apparentemente banali possono celarsi grandi limiti.

Attribuire la nascita delle civiltà, cioè di formazioni sociali basate sulla divisione in classi contrapposte, a una mera questione quantitativa, a sua volta determinata da un puro e semplice progresso tecnologico, significa non comprendere il dramma del passaggio dal comunismo primitivo alle civiltà. Non c'è stata evoluzione ma rottura tra le due formazioni sociali. Altrimenti noi non riusciremmo a spiegare storicamente, se non affidandoci al caso (che è categoria utile per miti e leggende), il motivo per cui il capitalismo non sia nato in paesi non europei.

A dir il vero Mandel sa bene che "il sovrapprodotto agricolo, fornito sotto forma di lavoro non pagato o di corvée, appare agli albori di qualsiasi società di classe"(ib.). Però questo non può significare che nelle formazioni tribali non potesse esistere surplus agricolo, né che questo surplus, in dette formazioni, fosse il frutto di un pluslavoro non retribuito. Un marxista non dovrebbe far coincidere la quantità con la qualità.

L'eccedenza, il surplus (in questo caso alimentare) non sta di per sé ad indicare la presenza di un conflitto di classe, di un antagonismo sociale. Altrimenti saremmo costretti a dire che la tecnologia può svilupparsi solo in contesti conflittuali: il che per milioni di anni non è mai stato. Non c'è nulla sul piano quantitativo che possa giustificare la presenza di questa o quella qualità. Neanche un'automazione completa della produzione industriale può supporre, di per sé, la presenza di un capitalismo avanzato.

Mandel sbaglia anche in un'altra cosa, là dove dice che "l'incremento progressivo della produzione agricola è accaparrato dai signori che, per parte loro, la vendono al mercato. Ma per la stessa ragione la gran massa della popolazione non è in grado di acquistare prodotti artigianali fabbricati nelle città. Questi prodotti restano dunque, soprattutto, prodotti di lusso. La ristrettezza del mercato limita all'estremo lo sviluppo della produzione artigianale"(p. 165).

Qui dunque si è già in presenza di una civiltà in cui la città è più importante della campagna: infatti il "signore" vuol subito vendere le eccedenze sul mercato per acquistare prodotti artigianali di lusso, mentre il contadino, da parte sua, avrebbe bisogno di fare la stessa cosa per ottenere "prodotti artigianali urbani" per il proprio fabbisogno.

Una situazione di questo genere è già di tipo capitalistico e non feudale o precapitalistico, in cui si poteva ugualmente avere un rapporto col mercato senza per questo dover subordinare il valore d'uso al valore di scambio. Non è vero -come dice Mandel- che "il carattere di queste civiltà è fondamentalmente agricolo"(p. 166). Quando c'è "dipendenza" dal mercato, la produzione agricola è inevitabilmente di tipo capitalistico.

Infatti, in tutte le civiltà precapitalistiche il contadino era anche artigiano o comunque poteva ottenere dall'artigiano della comunità di villaggio in cui viveva ciò di cui aveva bisogno e per la manutenzione del quale fruiva di una relativa autonomia, essendo il funzionamento della tecnologia alla sua portata.

Non era la "ristrettezza del mercato" che "limitava" la produzione artigianale; questa semmai era in rapporto ai bisogni tecnologici di una produzione agricola basata sull'autoconsumo. Il passaggio dall'autosussistenza alla dipendenza dal mercato non è avvenuto per motivi contingenti, per sviluppi di tipo quantitativo, per cause di tipo tecnologico o per un aumento improvviso o progressivo di bisogni vitali. Niente di tutto questo (se non in via eccezionale e transitoria) è in grado di spiegare il dramma di una transizione che il mondo contadino ha vissuto come un'imposizione.

Se un contadino fosse costretto a cercare sul mercato ciò che gli occorre per la sua economia di autoconsumo, non avrebbe bisogno di aspettare la trasformazione della rendita in natura in rendita in denaro, per sentirsi "sconvolto da cima a fondo"(p. 166).

Il giudizio che Mandel dà dell'economia feudale è decisamente negativo. Si tratta di "un'economia naturale e chiusa"(ib.), come se ciò che è "naturale" sia di per sé "chiuso", nel senso di "ristretto", "limitato", "rozzo", "primitivo"...

"La vita economica esce dal suo torpore secolare -dice Mandel- e dal suo relativo equilibrio per diventare dinamica, squilibrata, spasmodica"(ib.). "Torpore secolare" e "relativo equilibrio" sono qui stranamente equivalenti: perché dunque passare dall'"equilibrio" allo "squilibrio"? In realtà per Mandel il concetto di "equilibrio" indica solo "staticità", "fissità", "povertà" a tutti i livelli (tecnologici, economici, culturali...). Solo il capitalismo è "dinamico": è questo il primo aggettivo usato. Il fatto che sia anche "squilibrato", "spasmodico" rientra nel suo "dinamismo".

Più interessante invece il fatto che Mandel dica che "la trasformazione del sovrapprodotto agricolo da rendita in natura in rendita in denaro non è il risultato inevitabile dell'espansione del commercio e dell'economia monetaria, ma risulta da rapporti di forza dati tra le classi"(p. 167). E qui cita Postan: "in mancanza di una grande riserva di liberi lavoratori senza terra e al di fuori delle garanzie legali e politiche dello Stato liberale, l'espansione dei mercati e l'aumento della produzione possono portare piuttosto al rafforzamento delle corvées che al loro declino"(ib.).

Questo è vero, ma andava spiegato diversamente. Non basta parlare di "rapporti di forza tra le classi". La forza di questo scontro fisico (politico-militare) si è basata anche sulla forza delle idee, che Mandel però neppure vede. Se lo sviluppo del mercato porta al rafforzamento delle tradizionali corvées, significa che il conflitto non è solo tra "signori" e "contadini", ma anche tra "signori" e "borghesi" e che in questo conflitto un ruolo decisivo viene giocato dall'ideologia, perché se il borghese riesce a convincere il contadino che è meglio per lui emanciparsi dal servaggio, mettersi in proprio, trasferirsi in città e trasformarsi in borghese come lui..., nessuna coercizione extraeconomica sarà in grado d'impedire questo passaggio di mentalità e questa possibilità di mutamento della condizione sociale.

Mandel però non è interessato alle motivazioni culturali: gli basta sapere che le classi possidenti, "in cambio della parte del sovrapprodotto agricolo che non arrivano a consumare direttamente, possono acquistare prodotti di lusso, gioielli, utensili domestici di grande valore e bellezza, che tesaurizzano per acquistare un prestigio sociale e per sentirsi sicuri in caso di catastrofi"(p. 169).

Dunque delle due l'una: o questi possidenti avevano un'inconscia psicologia borghese che attendeva la nascita del mercato per venire alla luce, oppure la mentalità borghese, propagandata ai quattro venti, doveva per forza aver condizionato anche loro. Ma se è vera la seconda, perché Mandel preferisce la prima, che da un punto di vista storico ha un valore uguale a zero?

Queste classi tardo-feudali chiedono di comprare sul mercato cose di cui fino a quel momento avevano potuto fare a meno, o comunque sono disposte a sconvolgere dalle fondamenta l'economia che fino a quel momento aveva loro garantito introiti sicuri, soltanto per il gusto di avere degli oggetti di lusso.

Mandel non si rende conto che anche per i nobili non meno che per i contadini (ovviamente in gradi e forme diverse) fu un trauma la nascita e lo sviluppo del mercato capitalistico, e che ben pochi di loro furono in grado di adattarsi a questa dipendenza economica. Altro che acquistare prodotti "per sentirsi sicuri in caso di catastrofi"! La catastrofe era già arrivata, ed era quella di dover spartire il potere con una nuova classe sociale. La nobiltà semmai fu responsabile del fatto che pretendeva di avere i vantaggi del capitalismo facendone pagare il prezzo ai contadini. Cioè nel momento della minaccia non vide nel contadino un possibile alleato in funzione anti-borghese, ma una bestia da soma da sfruttare più di prima.

Tuttavia la cosa più strana nell'analisi di Mandel è un'altra, ed è il fatto che, secondo lui, la classe borghese s'arricchisce a dismisura proprio in conseguenza del fatto che quella feudale acquistava delle merci sul mercato per un puro e semplice godimento personale, senza mai pensare a produrre, investire, capitalizzare... (p. 171). Cioè sembra che i nobili abbiano assunto una mentalità da figliol prodigo, causata da un capitalismo che in realtà doveva ancora nascere! Questi nobili feudali si comportano come i "signori" e "possidenti" d'ogni epoca storica o civiltà, salvo che, in questo caso, il loro sperpero, il loro consumo fine a se stesso fa arricchire smisuratamente una categoria di persone molto più furba di loro, al punto che farà nascere una nuova civiltà, che manderà a picco quella precedente. "Il denaro viene accumulato per fruttare plusvalore"(p. 171). Come se dallo "sperpero" al "plusvalore" non si fossero in mezzo un'altra miriade di passaggi da fare!

I borghesi non sono diventati capitalisti solo perché non lo sono diventati i signori feudali: non è stata una questione di opportunità, di occasioni. In Inghilterra p.es. lo diventarono contemporaneamente: la piccola e media nobiltà, a differenza di quella grande, acquisì velocemente la mentalità borghese. Qui entrano in gioco dei processi culturali di cui Mandel non sospetta neppure l'esistenza (e chissà perché questo suo limite lo si ritrova anche in tutto il marxismo della IV Internazionale).

Gli stessi borghesi non avrebbero potuto diventare capitalisti semplicemente limitandosi a vendere per il mercato. Occorreva un insieme di fattori che sono nel contempo sociali, culturali e politici. Una storia dell'economia che non prendesse in esame gli elementi extraeconomici, avrebbe lo stesso valore di una storia meramente politica o meramente religiosa.

Se Mandel l'avesse fatto, non avrebbe mai detto che "la prima forma con cui il capitale si presenta in un'economia ancora fondamentalmente naturale, agricola, produttrice di valori d'uso, è quella del capitale usurario"(p. 172).

Questa non è la prima forma di capitale ma la seconda, perché la prima resta sempre quella del capitale commerciale o mercantile, che è legale. L'usura acquista un certo potere solo nelle civiltà dove esiste già un certo capitale commerciale o mercantile, e non tanto o non solo per l'ovvia ragione che non c'è usura senza denaro (se non in forme limitate), quanto perché la mentalità usuraia è una conseguenza di quella mercantile. L'usuraio, che nelle civiltà è sempre esistito, non è mai un capitalista ma un semplice commerciante di denaro: se diventa capitalista smette di essere usuraio. Contro di lui la chiesa feudale inventò i monti di pietà, molti dei quali, poi, si trasformarono in banche (ed entrambi, per molti versi, si trasformarono in usurai legalizzati). Peraltro i prestiti in natura in cambio di un interesse si fa fatica a definirli "usurari", poiché c'è usura solo quando il prestito stesso è un modo per far fallire chi lo riceve. Il fine dell'usura non è tanto quello di riottenere un rimborso del prestito maggiorato di un interesse esoso, quanto quello di mettere sul lastrico la persona indebitata per spogliarla di tutto (fino a schiavizzarla, come spesso succedeva nel passato, ma potrebbe benissimo accadere anche oggi).

Una mentalità del genere poteva essere solo un'eccezione persino nelle società dove il capitale commerciale era molto avanzato. Se diventava la regola, ed era comunque una regola illegale, anche le persecuzioni o le ritorsioni, non meno illegali, contro gli usurai lo diventavano, senza che nessuno avesse da ridire qualcosa. Nell'antico popolo ebraico l'usura veniva tollerata solo nei confronti degli stranieri.

Mandel dà troppa importanza al capitale usurario, ed è costretto a farlo non avendo argomentazioni di tipo culturale. E' molto raro che un usuraio diventi capitalista, perché l'usuraio non ama rischiare i propri capitali. Anche un usuraio ricchissimo non andrebbe mai oltre l'investimento immobiliare o comunque diversificherebbe l'investimento del proprio patrimonio guardandosi bene dall'impegnarsi direttamente a livello industriale. L'usura, in genere, distrugge il tessuto economico, non crea alcunché.

Viceversa il capitalista ha bisogno di sfruttare legalmente la forza-lavoro di operai formalmente liberi, i quali potrebbero anche coalizzarsi e ribellarsi. Per un'operazione del genere ci vuole tutt'altra mentalità e cultura.

Mandel sostiene che il capitale usurario "ripiega verso gli strati oscuri della società, in cui sopravvive per secoli a spese della gente minuta"(p. 176), solo dopo che si è generalizzata l'economia monetaria. In realtà l'usura non ha un prima o un dopo nei confronti dell'economia monetaria. L'usura, nelle civiltà, coesiste sempre con l'economia ufficiale, dominante, che può essere prevalentemente agricola o basata sulla circolazione monetaria. L'usura aumenta all'aumentare delle crisi sociali ed economiche e tende a diminuire quando la società intera, le sue istituzioni, prendono provvedimenti contro le crisi (utilizzando generalmente i conflitti bellici, le dittature politiche, ma anche il credito agevolato).

* * *

Anche sull'origine del capitale mercantile Mandel è esagerato, come tutti quelli che affrontano la realtà in maniera schematica, semplicistica. A suo parere l'accumulazione primitiva di capitale monetario proviene da due fonti principali: "la pirateria e il brigantaggio, da un lato, l'appropriazione di una parte del sovrapprodotto agricolo o persino del profitto necessario del contadino, dall'altro"(p. 176).

Questa però non può essere stata un'accumulazione primitiva che ha trasformato il mercante in un imprenditore capitalista. Pirateria e brigantaggio non hanno mai portato, di per sé, al capitalismo; al massimo un capitalismo ancora imberbe poteva servirsene per contrastare capitalismi più maturi, nati in precedenza. I capitalismi ultimogeniti di Italia e Germania furono costretti a far scoppiare due guerre mondiali per recuperare il tempo perduto (la Spagna si accontentò, si fa per dire, di una sanguinosissima guerra civile).

E per quanto riguarda l'appropriazione del surplus va detto ch'essa già suppone il capitalismo, quindi non ha nulla di "primitivo". Marx non ha mai detto cose del genere.

Mandel non si rende conto che il capitalismo ha avuto bisogno di una buona dose di legittimità storica per poter nascere e svilupparsi. Se fosse nato sulla base di un "furto" (come voleva il socialismo utopistico) ci sarebbe stata una reazione di massa. Il "furto" è senza dubbio una componente intrinseca a qualunque attività commerciale, ma è una componente "legale", che l'acquirente accetta e da cui sa di doversi difendere.

Finché i commerci restano subordinati a mercati urbani o fiere con cadenze periodiche, in cui si va a vendere il surplus o ad acquistare ciò che scarseggia o non si trova nella comunità di villaggio, la regola del "furto" può essere tranquillamente accettata: non sarà qualche raggiro subìto involontariamente che manderà a pezzi un'economia di autosussistenza. Le civiltà precolombiane non sono crollate quando gli spagnoli scambiavano specchietti per oggetti d'oro, ma quando gli indigeni furono costretti ai lavori forzati.

I problemi sorgono quando in virtù dell'accrescere dei commerci e dell'incapacità culturale e politica di contrastarli, l'economia di autosussistenza si trasforma progressivamente in un'economia di dipendenza dalle leggi di mercato. Questi processi avvengono contro le dinamiche comunitarie tradizionali, ma sotto una parvenza di legalità che inganna gli individui. E' dunque assurdo sostenere "che i primi mercanti navigatori raccolgono il loro piccolo capitale iniziale" col brigantaggio e la pirateria (che a loro volta, se vogliamo, sono non cause ma conseguenze dello sviluppo del capitalismo commerciale), e che "l'accumulazione del capitale-denaro dei mercanti italiani che dominarono la vita economica europea dall'XI al XV secolo, proviene direttamente dalle crociate"(p. 176-77).

Qui si confonde la causa con l'effetto. Il commercio si sviluppa indipendentemente dalle crociate, come il capitalismo indipendentemente dal colonialismo, anche se crociate e colonialismo furono scatenate subito dopo, o comunque diedero un forte impulso alla nascita del capitalismo, che ha motivazioni interne alla società europea, la quale, una volta basata sul commercio o sul capitalismo, tende ad impoverire la maggior parte della propria popolazione. Crociate e colonialismo furono le risposte borghesi alle contraddizioni che la stessa borghesia aveva creato nel proprio paese d'origine. La prima crociata è intorno al Mille, ma intorno al Mille si formarono anche i primi Comuni. Questo significa che la classe dei mercanti esisteva in Italia ben prima del Mille.

Peraltro Mandel dà una giustificazione delle crociate e del colonialismo, ovvero del commercio estero, del tutto sbagliata. Non sono semplici difficoltà economiche ("un commercio strettamente limitato e regolato", p. 178) che inducono a scatenare guerre commerciali che durano per dei secoli e che comportano sempre perdite colossali di uomini, risorse e mezzi, e che si rivelano davvero produttive solo dopo un certo tempo. Non ci si avventura in imprese belliche così onerose per poter avere la possibilità di smerciare "prodotti di lusso destinati alle classi possidenti"(ib.).

Crociate e colonialismo servirono piuttosto a far espatriare quelle categorie di persone che nella madrepatria risultavano eccedenti, oltre che per avere scali portuali per qualunque tipo di merce (o anche solo per mettere dei dazi per il transito delle merci, come spesso i turchi s'accontentavano di fare). E questo mercato estero ebbe bisogno di motivazioni culturali per essere giustificato e legittimato. Ai tempi delle crociate si proponeva di liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli; ai tempi del colonialismo di diffondere ovunque la civiltà europea, ritenuta, grazie a scienza e tecnica, superiore a ogni altra.

Erano piuttosto i trasporti che rendevano un lusso questo commercio, ma là dove furono create delle colonie non si pensò mai a produrre qualcosa che solo poche persone avrebbero potuto comprare. Andava bene qualunque tipo di commercio che sostenesse gli ingenti costi di trasporto (equipaggio, mezzi, dogane... ivi inclusa la pirateria).

Se vogliamo dare per scontato che il commercio fosse solo per i prodotti di lusso, allora dobbiamo anche dare per scontato che il commercio non aveva ancora permeato di sé l'intera economia. Possiamo accettare l'idea del "lusso" in occasione delle crociate, in quanto l'attività dominante era quella agricola nella madrepatria, certo non in relazione al colonialismo.

E comunque resterebbe sempre da spiegare il modo in cui un'economia prevalentemente agricola sia diventata prevalentemente commerciale in virtù di un commercio estero basato sui prodotti di lusso.

Inoltre è sciocco pensare che un "grande mercante" si sforzasse "di limitare qualsiasi nuova espansione, pena il distruggere per sua stessa opera le radici monopolistiche dei profitti"(p. 181). Un atteggiamento del genere andrebbe spiegato sul piano culturale, perché se può essere appartenuto alle città marinare al tempo delle crociate, non è tipico della borghesia coloniale. Mandel fa citazioni di autori che sono vissuti in periodi storici diversissimi, al fine di mostrare delle analogie trasversali nello spazio e nel tempo, ma il problema è proprio questo, che per spiegare le origini del capitalismo le analogie non bastano, anzi sono fuorvianti. Marx l'aveva già capito.

Cioè anche se si volesse sostenere che i mercanti medievali accumulavano capitali per poi reinvestirli in gran parte in beni immobili o in speculazioni di borsa, o in operazioni di credito..., e che solo i loro discendenti arrivarono a investirli in attività capitalistiche vere e proprie, il passaggio da un tipo di mercante all'altro resterebbe comunque da dimostrare, perché di per sé non può essere considerato un passaggio logico o inevitabile. E' tutto da dimostrare infatti che un imprenditore capitalistico, agli albori del capitalismo, avesse necessariamente origini mercantili. Cioè non è di per sé il capitale commerciale che fa nascere il capitalismo, ma una serie di circostanze (economiche, tecnologiche) in cui la cultura dominante (o che vuole diventarlo) gioca un ruolo chiave.

Parlare di "rivoluzione commerciale" (p. 128) solo perché si scoprì l'America o si cominciò a commerciare con India e Cina, o perché i prezzi salirono alle stelle o perché si verificarono importanti innovazioni tecnologiche, è esagerato. La Spagna, da tutto questo, non ebbe alcuna "rivoluzione commerciale", anzi sprofondò nel baratro sino al Franchismo, mentre l'Italia, che era la più avanzata d'Europa nel XVI sec., insieme all'Olanda, si bloccò sino alla fine dell'800.

Non esistono determinazioni quantitative che ad un certo punto producono, automaticamente, una nuova qualità. Si eredita, è vero, ciò che ci precede, ma per far nascere il capitalismo occorre porre in essere delle dinamiche culturali completamente diverse dal passato. P.es. la rivoluzione scientifica non è semplicemente nata per aiutare gli uomini a emanciparsi dalla religione e neppure soltanto per rispondere alle esigenze delle nuove forze produttive (commerciali prima e capitalistiche dopo). E' nata anche -e da qui si comprende l'importanza della cultura- come forma di risposta che l'uomo ha dato alla propria alienazione, quella causata da una nuova civiltà.

Per la prima volta nella storia delle civiltà gli uomini hanno avvertito il bisogno di non riconoscere alla natura alcuna autonomia, ma anzi di sottometterla in ogni forma e modo. L'esigenza di applicare senza ritegno il macchinismo alla natura, per sfruttarne al massimo ogni risorsa, non a caso è emersa nel momento stesso in cui gli uomini si sentivano estranei tra loro da non avere alcuno scrupolo nell'usare tutti i mezzi possibili per sfruttare il lavoro altrui.

Se non si esamina la cultura si sarà indotti a ritenere che il capitalismo non nacque nel periodo delle crociate solo perché allora mancava la tecnologia adeguata. Eppure gli spagnoli avevano una grande tecnologia per la produzione delle armi: per quale ragione non riuscirono ad applicarla per allestire fabbriche di tipo capitalistico?

In realtà sotto le crociate il capitalismo non poté nascere proprio perché la cultura borghese non era ancora sufficientemente elaborata e spregiudicata, in grado di produrre tecnologia per sfruttare il lavoro di persone formalmente libere. Non ci sarebbe mai stato il capitalismo senza riforma protestante, e là dove il capitalismo s'è imposto senza i traumi della nascita di questa riforma, è stato perché questa era stata esportata nella sua fase più avanzata e definitiva (ecco perché oggi sono gli Stati Uniti a guidare il capitalismo mondiale).

"Solo nel Giappone -dice Mandel-, i cui mercanti-pirati infestano il mare della Cina e delle Filippine a partire dal XIV secolo, e accumulano un capitale considerevole mentre contemporaneamente l'autorità dello Stato si dissolve, la supremazia borghese commerciale e bancaria sulla nobiltà e poi lo sviluppo di un capitale manifatturiero, hanno permesso di ripetere, dal XVIII secolo, cioè con due secoli di ritardo, l'evoluzione del capitalismo in Europa occidentale, indipendentemente da questo"(p. 213). Non una parola sullo shintoismo, questa particolare religione priva di un qualunque "ordine etico", in grado di far convivere aspetti feudali e capitalistici con grande disinvoltura.

Secondo Mandel è il capitale commerciale (tipico della colonizzazione) che trasforma il commercio di lusso (tipico del capitale mercantile) in commercio generalizzato. In realtà non si tratta affatto di un progresso nel commercio estero: p.es. una maggiore estensione delle zone geografiche (susseguente alla scoperta dell'America). Anche qui si ragiona in termini hegeliani: dalla quantità alla qualità.

Il capitalismo non nasce dal colonialismo, perché il colonialismo è una caratteristica anche dell'epoca feudale. Le crociate, volute dal mondo cattolico-romano, possono aver contribuito, indirettamente, allo sviluppo del capitalismo, ma solo perché hanno contribuito allo sviluppo delle idee che porteranno alla Riforma, senza la quale il capitalismo non sarebbe mai nato.

Noi non dobbiamo dimenticare che la prima opposizione alle idee mercantili fu quella organizzata dalle eresie pauperistiche, che la chiesa cattolica, con l'aiuto dell'impero e delle forze comunali e feudali in genere, riuscì a liquidare in maniera irreversibile.

Dopo quei movimenti, che si svolgevano in una cornice di capitalismo mercantile, vi furono le guerre contadine (la più famosa forse è quella tedesca) e le rivolte degli operai salariati (a partire, in Italia, da quella dei Ciompi).

Ma le idee della borghesia ebbero bisogno di tempo per affermarsi. Cioè il fatto che la chiesa eliminasse con la forza le eresie pauperistiche non sta di per sé a significare che le idee borghesi riuscirono, dopo di allora, ad avere la strada spianata. In Inghilterra, per imporsi, dovettero fare la rivoluzione del 1688, in Francia quella dell'89, in Italia, nonostante l'umanesimo e il rinascimento, vi fu il regresso della controriforma.

Questo per dire che se anche poniamo intorno al Mille la nascita delle prime idee a chiaro orientamento borghese, ci vorranno ancora 500 anni prima che si possa parlare di nascita del capitalismo. Se dovessimo guardare la storia col metro delle determinazioni quantitative, verrebbe subito da chiedersi il motivo per cui una borghesia, già cosciente di sé intorno al Mille, ci abbia messo ben 500 anni prima di imporsi all'attenzione dell'intera società. Non era solo questione di limitatezza dei commerci o delle tecnologie; era piuttosto il fatto che la borghesia aveva bisogno di darsi delle motivazioni culturali convincenti, sufficientemente elaborate, supportate da un benessere dimostrabile, che rompessero definitivamente i ponti con la cultura cattolico-feudale, la quale, mentre sul piano politico da un lato concede e dall'altro impone, sul piano sociale è eccessivamente legata alle tradizioni del mondo contadino e nel complesso nutre degli ideali in cui religione e politica si mescolano continuamente (come nell'ebraismo e nell'islam).

Non per nulla il movimento comunale, pur essendo originato da istanze borghesi, in Italia fu spesso caratterizzato da lotte intestine di tipo ideologico-politico, tra opposte fazioni la cui identità si poneva in relazione all'accettazione o meno del primato della chiesa sull'impero o sugli stessi comuni (guelfi e ghibellini, per fare un esempio).

Senza riforma protestante, che non a caso per imporsi dovette fare guerre colossali contro la chiesa romana e i sovrani che la difendevano, la borghesia sarebbe rimasta inesorabilmente a livello "mercantile", rischiando, come p.es. in Italia, inaspettati regressi.

* * *

Un'altra delle cose singolari nell'analisi economica di Mandel è il passaggio automatico dal capitalismo commerciale all'industria a domicilio.

Si noti la seguente incongruenza: "Malgrado l'estensione del grande commercio internazionale a partire dall'XI secolo nell'Europa occidentale, il modo di produzione urbano era rimasto fondamentalmente quello della piccola produzione mercantile"(p. 189).

Ora, passare all'industria a domicilio, cioè alla manifattura sparsa, significa inequivocabilmente passare al capitalismo. Cosa ha determinato questo passaggio? Ecco la risposta di Mandel: "l'aumento progressivo della popolazione e del numero degli artigiani"(p. 190). Cioè ancora una volta semplici determinazioni quantitative portano la famiglia contadina a produrre non più per se stessa ma per un mercante che la paga.

Una cosa del genere non sarebbe mai stata possibile senza emancipazione dal servaggio, ma un'emancipazione del genere ha bisogno di lotte politiche e di battaglie culturali, di cui Mandel non dice nulla.

Se non si parla di queste cose si finisce col dire sciocchezze come la seguente: "Per portare i propri prodotti a una fiera lontana, un tessitore o un ramaio deve fermare la produzione e non può riprenderla che al suo ritorno. E' inevitabile che taluni di essi, in particolare i più ricchi, in grado di procurarsi un sostituto in casa, si specializzino ben presto nel commercio"(pp. 190-91).

Ragionamenti analoghi vengono fatti dai teologici quando per spiegare il peccato originale lo danno per scontato. Mentre pensa di portare i propri prodotti in fiera, l'artigiano è ancora legato al mondo feudale, ma siccome teme di dover fermare la produzione... Quale "produzione"? Ovviamente quella per il mercato. Ma allora mentre ha "timore", l'artigiano, come se potesse azionare una macchina del tempo, si ritrova a vivere qualche secolo dopo; e questo artigiano cripto-capitalista o malgré soi non si comporta, come sarebbe stato naturale per un parvenu come lui, "controllando" la produzione e mandando qualcuno a vendere le sue merci, ma fa esattamente il contrario, come se vivesse nel Medioevo!

Ma la cosa più comica è un'altra: questi artigiani -dice Mandel- "in un primo momento portano al mercato, assieme ai loro prodotti, i prodotti dei vicini solo per rendere un servizio. Finiscono poi con l'acquistare direttamente i prodotti di una gran massa di mastri artigiani e con l'incaricarsi esclusivamente della vendita in luoghi lontani"(p. 191).

Cioè l'artigiano non solo non controlla la propria produzione, ma addirittura si trasforma in mercante, cioè smette di lavorare e di essere magnanimo, si toglie la maschera del "buonista" e comincia tranquillamente a sfruttare il lavoro altrui. Ora è diventato un mercante in grado d'impedire a dei mastri artigiani "proprietari dei loro mezzi di produzione"(p. 191), di andare a vendere i loro prodotti sul mercato. Anzi, questi mastri artigiani sono addirittura costretti a comprare la materia prima dal mercante e a rivendergliela finita o semilavorata ad un prezzo irrisorio.

E' davvero incredibile che un processo che ha sconvolto l'esistenza di milioni di persone, distruggendo tradizioni consolidate di secoli, sia avvenuto in maniera così naturale, senza che nessuno abbia opposto un minimo di resistenza. E' forse questa la "scientificità" che l'analisi economica vuol dare alla conoscenza storica? A dir il vero Mandel parla di una certa opposizione da parte degli artigiani, ma per dire, subito dopo, che quanto più resistevano tanto più facevano il gioco dei mercanti (p. 192). Insomma la categoria della "necessità storica" viene in soccorso, ancora una volta, alla trasformazione della quantità in qualità.

"La legge ovunque è favorevole ai mercanti" -dice Mandel (p. 192), senza rendersi conto che la legge ha ostacolato l'attività dei mercanti per almeno 500 anni (nei paesi est-europei almeno sino alla fine dell'800). Tutte le battaglie furibonde tra chiesa e comuni o tra comuni e impero, ovvero tra cattolici e protestanti (esistono guerre durate 30, 100 anni) ha sempre avuto come unico scopo quello di mettere un freno all'attività della borghesia, che per le forze tardo-feudali stava accumulando troppi poteri economici e politici.

E se la legge era davvero favorevole perché i mercanti si rivolgevano agli artigiani residenti in campagna? E' Mandel stesso che lo dice: "per sfuggire alle regole delle corporazioni urbane e agli alti salari degli artigiani"(p. 192). Mandel ha posto una suddivisione cronologica dei fatti che lascia molto a desiderare. Questo perché la sua scelta metodologica è quella di porre una linea evolutiva tra i fatti, senza rotture significative. La sua ambizione è stata addirittura quella di mostrare che detta linea può essere estesa a civiltà ed aree geografiche del tutto estranee all'Europa occidentale. Il che non ha senso, almeno per quanto riguarda la genesi del capitale moderno.

* * *

Le illogicità di Mandel cominciano a essere troppe. Ecco l'ultima prima di passare al cap. "Particolarità dello sviluppo capitalistico in Europa occidentale"(p. 205): da un lato i "mercati lontani"(p. 185) subordinano la piccola produzione mercantile al capitale monetario; dall'altro la borghesia commerciale "non investe che una frazione dei propri capitali e profitti nell'industria a domicilio"(p. 205).

Primo errore di comparazione: "Nella piccola produzione mercantile, il produttore, padrone dei mezzi di produzione e dei suoi prodotti, può vivere solo vendendo questi prodotti per acquistare mezzi di sussistenza. Nella produzione capitalistica, il produttore, separato dai propri mezzi di produzione, non è più padrone dei prodotti del suo lavoro e può vivere solo vendendo la propria forza-lavoro in cambio di un salario che gli consenta di acquistare questi mezzi di sussistenza"(p. 205).

Se la si mette così, il passaggio dall'una all'altra diventa obbligato, e la seconda appare migliore perché non "piccola" ma "grande" produzione.

Nel capitolo sopra citato Mandel non può non porsi la domanda fondamentale che Marx s'è posto tutta la vita: "Perché questa accumulazione di capitale usurario e mercantile non ha dato origine al capitale industriale in queste civiltà [precapitalistiche]?"(p. 207).

Tutte le risposte che dà Mandel prescindono dalle questioni culturali e in tal senso non servono a molto; infatti molte delle cose che dice indicano un livello culturale non "arretrato" ma "avanzato", in quanto la rinuncia ad adottare metodi di tipo capitalistico va considerata come un segno di "civiltà" superiore, dal punto di vista dei valori etici, soprattutto se il rifiuto era consapevole (questo naturalmente a prescindere dal fatto che con tale rifiuto si sono volute perpetuare forme di sviluppo socioeonomico tutt'altro che democratiche).

  1. Nelle civiltà extraeuropee hanno fatto difetto "le forme di organizzazione intermedie tra l'artigianato propriamente detto e la grande fabbrica... l'industria a domicilio e la manifattura"(p. 207),
  2. il commercio è rimasto di lusso,
  3. "la schiacciante maggioranza della popolazione non partecipa alla produzione di merci"(p. 208),
  4. non c'è stato sviluppo del macchinismo, che "è il solo a consentire alla grande fabbrica di spezzare la concorrenza dell'industria a domicilio e dell'artigianato..."(p. 209),
  5. "il disprezzo verso il lavoro manuale"(p. 210) - cosa però riscontrabile anche nell'Europa occidentale, nelle classi colte, nobiliari..., almeno sino allo sviluppo della borghesia,
  6. "la concorrenza di una manodopera a buon mercato..."(p. 210) - che oggi invece è quella più temuta dai monopoli occidentali,
  7. "l'impiego produttivo dell'energia idraulica a fini non agricoli... entrava in conflitto con le esigenze dell'irrigazione del suolo"(p. 210) - questa è una tesi che si ritrova anche in Max Weber, il quale poi la prese da Marx,
  8. l'assenza di una classe, quella borghese, in grado di contrapporsi a quella dominante il cui potere è legato all'uso della terra, persino in grado di contrapporsi allo Stato: temendo confische, supertasse, persecuzioni... la borghesia non europea, invece di concentrare i capitali li disperde, tesaurizza invece di investire. E pontifica Mandel, senza capire nulla dei tentativi istituzionali di porre un freno al dilagarsi dei traffici: "Invece di progredire verso l'autonomia e l'indipendenza, marcisce nella paura e nel servilismo"(p. 212). L'unica eccezione il Giappone, di cui già si è detto.
  9. Infine una motivazione che ricorda la teoria dei climi di Montesquieu: "L'agricoltura ben più primitiva dell'Europa medievale non poteva sopportare il peso di una densità paragonabile a quella della Cina o della vallata del Nilo nelle epoche di prosperità"(pp. 213-14). Questa tesi è davvero strana, poiché l'aumento della densità demografica in Europa occidentale era già effettivo intorno al Mille in relazione allo sviluppo del capitale mercantile, all'urbanizzazione, al commercio internazionale ecc. Quello stesso commercio che invece di sacrificare la piccola produzione, le aveva dato un grande impulso.
  10. Mandel non dice una sola parola sui processi culturali, salvo questa piccola noticina, riferita però ai processi politici: la borghesia fece il proprio "apprendistato di lotta politica nei liberi Comuni del Medioevo"(p. 211). Come se i mercanti dei paesi extraeuropei appartenessero a civiltà che impedivano loro di fare qualunque lotta politica!

* * *

Si può forse concludere questo breve commento al cap. 4 del Trattato di Mandel dicendo, molto semplicemente, che la classe dei mercanti è sempre esistita, generalmente per il commercio di beni di lusso (anche le spezie lo sono state per molto tempo) o per tutte quelle merci che non si potevano trovare (o che si trovavano con molta difficoltà) nei mercati locali o nelle fiere, cui poteva tranquillamente accedere la comunità di villaggio (una delle merci più importanti per tantissimo tempo è stato il sale).

Questi mercanti facevano spesso lunghi viaggi, a loro rischio e pericolo, e solo dopo un certo tempo si presentavano nei mercati locali o nelle fiere, oppure agivano come ambulanti.

Oltre a questa classe, la cui attività è sempre stata tollerata da qualunque civiltà contadina o precapitalistica, lo stesso contadino poteva vendere (o meglio: barattare, perché per molto tempo s'è fatto questo) sul mercato le proprie eccedenze o persino i propri prodotti artigianali (spesso fabbricati dalle donne, specie se il prodotto era tessile). Quando l'abilità artigianale si separò da quella contadina, e l'artigiano si trasferì in città, il prodotto artigianale si specializzò e diventò una merce che poteva essere venduta in maniera regolare, senza aspettare le eccedenze.

Questo distacco dell'artigianato dall'agricoltura fu l'inizio della divisione della città dalla campagna: in sé non avrebbe comportato nulla di pericoloso per l'autosussistenza della comunità di villaggio, se contestualmente a tale separazione non fosse nata una classe mercantile che voleva trasformare la città in un luogo di dominio della campagna.

I mercanti avevano scarsi legami con le comunità di villaggio, perché erano come dei nomadi, o comunque era gente che, anche se stanziale, mostrava più interesse al proprio profitto che non al bene collettivo. E' sempre stato così e le società contadine hanno tollerato queste eccezioni appunto perché erano tali.

Quando il mercante si arricchiva con traffici più o meno leciti, di regola acquistava della terra, delle proprietà e assumeva degli operai che lavoravano per lui. Poteva anche comprare dei titoli nobiliari. Anche questo processo, fintantoché la terra e i mezzi per lavorarla rimasero in mano ai contadini (o in proprietà o in uso), non costituì alcun vero pericolo per l'autosussistenza della comunità.

Anche se il mercante, invece di acquistare della terra, voleva gestire un'impresa artigiana, doveva comunque sottostare a dei controlli rigorosi, tipici delle corporazioni. Questi processi sono andati avanti per dei secoli in Europa occidentale senza che venisse minacciata l'esistenza delle comunità di villaggio. Un mercante non poteva arricchirsi oltre un certo livello né poteva aspirare a un particolare potere politico.

E' fuor di dubbio che i mercanti hanno cominciato ad acquistare un certo peso (economico e politico) nelle città marinare, che per loro natura sono a contatto con realtà molto diverse tra loro e dove il rispetto di tradizioni consolidate è sempre stato più debole. Non a caso le città marinare parteciparono volentieri alle crociate contro l'islam e per il saccheggio dell'impero bizantino in decadenza.

Grazie a queste crociate, che praticamente durarono 200 anni, la classe dei mercanti ebbe un notevole impulso. Si può anzi dire che senza lo sviluppo della classe mercantile difficilmente ci sarebbero state le guerre tra Comuni e Impero o tra Comuni e feudatari (laici ed ecclesiastici). E' grazie ai mercanti che si sviluppa un'ideologia anticlericale, antifeudale, antimperiale, a tutto vantaggio delle autonomie comunali.

I primi elementi di ideologia laico-umanistica furono introdotti dai mercanti nella teologia cattolica. Sarebbe tuttavia un errore far coincidere "laicità" con "umanesimo". I mercanti non introdussero l'umanesimo nella teologia cattolica, ma la laicità, cioè la riduzione a termini umanistici dei termini teologici. L'umanesimo dei mercanti è sempre stato viziato dall'individualismo, come mezzo fondamentale per ricercare un fine economico: il profitto, la proprietà, il capitale.

Nella misura in cui la chiesa romana tollera questo trend, anche nella speranza di trarne un vantaggio personale, la borghesia può facilmente svilupparsi, per quanto si sviluppino anche i movimenti contestativi (pauperistici), che denunciano a più riprese le collusioni tra cattolicesimo istituzionale e mercantilismo. E' noto come tali movimenti verranno bollati col marchio dell'eresia e liquidati dalla chiesa romana.

Sarà proprio la persecuzione di questi movimenti che porterà alla definitiva affermazione sociale (anche se non ancora politica) delle idee borghesi. La riforma protestante erediterà la contestazione pauperistica per volgerla a favore della borghesia e per chiedere a questa un distacco (culturale in Germania, politico in Francia, Inghilterra ecc.) dalla chiesa romana. Conclusa la riforma, la borghesia non avrà più alcuna riserva per affermare se stessa.

Fonti

La filosofia della storia di Ernest Mandel
dal Trattato marxista di economia (vol. I)

Marx-Engels


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015