MARX: IL CAPITALE - Il plusvalore 2

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


IL PLUSVALORE

I - II - III - IV

Capitale costante e variabile

Nel capitolo VI, intitolato “Capitale costante e capitale variabile”, Marx torna a parlare del valore d'uso della forza-lavoro, riprendendo la terminologia della I sezione, riferita al valore d'uso della merce. Essendo ora in gioco la forza-lavoro non sarà inutile cercare, anche da parte nostra, di specificare meglio il senso della nozione di “valore d'uso”.

Per Marx il valore d'uso d'una merce è dato dal tempo di lavoro occorso per produrla. Dev'essere però un tempo “socialmente necessario”, cioè riconosciuto come tale dalla collettività, secondo una media standard di dispendio di energie. Un lavoro è concreto, cioè utile, se prima è astratto, cioè “sociale lavoro in genere”(p.242). Marx dà per scontato che il valore d'uso di una merce sia sempre determinato dalla considerazione astratta e generale della collettività (che si esprime, per Marx, non nella comunità ma sul mercato) relativamente alla durata del tempo impiegato per produrla.

Se il tempo di lavoro per produrre una merce subisce una modificazione (nel caso p.es. di un cattivo raccolto), “si verifica -dice Marx- una reazione sulla vecchia merce [nel senso che il suo prezzo si modifica], che conta sempre e soltanto come unico esemplare della propria specie, e il suo valore viene misurato sempre in base al lavoro socialmente necessario, ossia necessario sempre, anche nelle attuali condizioni sociali”(p.253).

L'operaio “aggiunge una data grandezza di valore non in quanto il suo lavoro ha uno specifico contenuto utile, ma in quanto dura un certo tempo”(ib.). La qualità di un prodotto dipende dalla quantità di tempo (generalmente riconosciuta) necessaria per fabbricarlo. Naturalmente Marx non affermerebbe mai che un oggetto ha tanto più valore quanto più grande è stato il tempo per realizzarlo. Il tempo in questione è una grandezza media, il che presuppone che la collettività sappia, per esperienza, cioè anche prima che sia costruito un determinato bene di utilità sociale, quanto dispendio occorra a livello psico-fisico e intellettuale. Il valore d'uso d'una merce specifica presuppone il valore generale delle merci riconosciuto dalla collettività sul mercato.

Ebbene, questo modo di vedere le cose oggi appare limitato e come tale va superato. Spieghiamone la ragione con un esempio. Marx impiegò vent'anni a scrivere il Capitale. E' un'opera monumentale, certamente la più importante di tutte quelle che lui ha scritto. Contiene un'infinità di dati, di osservazioni, esprime una notevolissima cultura ed è strutturata in maniera molto organica. Inoltre rappresenta il superamento definitivo dell'economia politica classica.

Lenin invece scrisse Che fare? in pochi mesi, riflettendo non solo sulla società capitalistica ma anche sul movimento rivoluzionario. Sono due opere completamente diverse. Ma se uno oggi dovesse scegliere quale delle due lo potrebbe aiutare di più a superare i limiti del capitalismo, non potrebbe certo scegliere il Capitale. Relativamente all'esigenza di una transizione al socialismo, il Che fare? di Lenin ha ancora oggi un valore enorme, che non può essere paragonato con nessun altro libro della sinistra rivoluzionaria.

Dunque, ciò che dà valore al Che fare? è qualcosa che riguarda, molto da vicino, la coscienza o la cultura del soggetto che vuole uscire dal capitalismo. Se i due libri vengono messi a confronto, sotto tale aspetto, e lo possono essere, visto che entrambi gli autori desideravano la stessa transizione, il valore di Che fare? è decisamente superiore, e lo resterà fino a quando il socialismo non si sarà realizzato.

Qui naturalmente l'ideologo della borghesia potrà obiettare che il valore di Che fare? è relativo alla coscienza del lettore, cioè non è oggettivo. Da questo punto di vista però nessun libro lo sarebbe, neppure il Capitale né lo Zum Abschluss des Marxschen Systems con cui E. von Böhm-Bawerk ha dato il via alla critica del Capitale. E' vero che l'importanza di Che fare? può essere colta solo da una particolare coscienza soggettiva, ma questo non significa che il suo valore sia “soggettivo”. Certo, non si può stabilire a priori se una cosa ha un valore oggettivo o soggettivo, ma a posteriori lo si può dedurre. In tal senso è sufficiente costatare l'importanza che la storia (non solo dell'Europa ma del mondo intero) ha attribuito a quel libro, benché non tutto il mondo ne sia stato e ne sia ancora oggi consapevole.

L'esempio surriportato ci insegna due cose: 1) il mercato non è un criterio sufficiente per esprimere il valore delle cose; esso è un criterio per esprimere il valore di scambio delle merci, ma solo in termini di uso pratico, sociale, immediato. Il mercato, astrattamente parlando, dovrebbe limitarsi a riconoscere un valore che gli preesiste; esso al massimo può trasferire il valore da una merce all'altra, ma non può creare alcuna forma di valore. Il mercato che pretende di stabilire il valore d'uso delle merci a partire dal loro valore di scambio, compie un abuso (anche se questo fatto può riflettere la crisi di un sistema sociale), e alla fine impone un valore artificioso, irreale. Il valore di scambio deve dipendere dal valore d'uso, il quale si forma al di fuori del mercato.

Prima e dopo del mercato c'è la comunità, che può decidere il valore d'uso dei propri beni solo se è fondata sull'autoconsumo. Una comunità che producesse solo valori di scambio, anche se fosse fortissima sul piano finanziario, sarebbe debolissima su quello strutturale, in quanto completamente soggetta al trend del mercato mondiale. Molto più forte invece è quella comunità che indirizza verso il mercato solo l'eccedenza dei propri valori d'uso. Naturalmente una comunità del genere non potrebbe sussistere se non fosse in grado di proteggere la propria autonomia, specie nei confronti della produzione straniera per il mercato.

2) Il valore non può dipendere solo dal lavoro, astratto o concreto che sia, poiché il lavoro è una determinazione dell'attività umana che non esprime di per sé il valore delle cose, se non in termini strettamente economici, cioè funzionali alla sussistenza e alla produzione e riproduzione. Il valore delle cose è dato in primo luogo dalla “cultura” della comunità che autoproduce, cioè dal valore ontologico che la comunità vive in rapporto al significato della vita in genere. Le cose hanno un valore (anche pratico) in quanto ha valore il contesto in cui vengono collocate e usate. Non è sufficiente il tempo di lavoro socialmente necessario, occorre che le cose abbiano un'anima, in virtù della quale possano suscitare negli esseri umani il senso della libertà.

La categoria del valore si deve pertanto “spiritualizzare”. Questo perché il giorno in cui avremo risolto, nell'ambito del capitalismo, il problema dello sfruttamento sociale che evidenzia la produzione economica del plusvalore, resterà ancora un problema da affrontare: quello di creare nuovi valori culturali nella società socialista.

Da un lato quindi occorre rovesciare politicamente il primato del valore di scambio ripristinando il primato del valore d'uso; dall'altro bisogna estendere il concetto di “valore” a tutto ciò che non riguarda immediatamente la materialità della vita. Quando la merce non costituirà più l'oggetto del contendere umano, forse gli uomini conosceranno altre contraddizioni antagonistiche il cui oggetto sia necessariamente più spirituale, ma può anche darsi che i valori della libertà avranno raggiunto un tale livello di profondità da rendere facilmente smascherabile ogni antagonismo.

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Parlando del processo di valorizzazione del capitale, Marx fa una precisa distinzione tra “capitale costante”(fattore oggettivo del processo lavorativo) e “capitale variabile”(fattore soggettivo). Il primo è quella “parte del capitale che si trasmuta in mezzi di produzione, ossia in materia prima, materie ausiliarie e mezzi di lavoro”; questa parte “non altera la propria grandezza di valore nel processo di produzione”(p.252). Nel senso che essa non aumenta il proprio valore, ma si limita a trasferirlo nei beni prodotti.

“Nel processo lavorativo -dice Marx- si verifica un trapasso di valore dal mezzo di produzione al prodotto solo perché il mezzo di produzione perde, oltre il suo indipendente valore d'uso, anche il suo valore di scambio”(p.244). Ciò in quanto la sua “originaria grandezza di valore [è determinata] dal tempo di lavoro occorrente alla sua stessa produzione”(p.248); “se non avesse avuto valore prima di entrare nel processo, non trasmetterebbe al prodotto alcun valore”(ib.).

Oggettivamente, la perdita di valore è dovuta al “logorio di tutti i mezzi di lavoro”(p.245). Ovviamente “un mezzo di produzione non trasmette mai al prodotto un valore maggiore di quanto ne perda...”(ib.). Calcolare la perdita è relativamente facile: “l'esperienza ci dice quanto dura in media un mezzo di lavoro...”(ib.).

Il capitale variabile invece è “la parte del capitale trasformata in forza lavorativa [che] muta il proprio valore nel processo di produzione. Essa riproduce il proprio equivalente e in più un'eccedenza, il plusvalore, che per suo conto può variare...”(p.252). Questo significa che “un mezzo di produzione entra tutto nel processo lavorativo, ma solo in parte nel processo di valorizzazione”(p.246), poiché questo secondo “processo” viene sostanzialmente gestito dalla forza-lavoro, la quale ha la “proprietà naturale [di] conservare valore aggiungendo valore”(p.249). Per Marx solo il riciclo degli scarti permette a questi di “entrare per intero nel processo di valorizzazione, pur facendo parte solo parzialmente del processo lavorativo”, a condizione però che tali scarti -egli aggiunge- non vengano usati per formare “nuovi mezzi di produzione, e perciò nuovi valori d'uso indipendenti”(p.247).

Dopo aver lasciato chiaramente intendere che un modo di produzione basato anzitutto sul valore di scambio è superiore a un modo di produzione basato anzitutto sul valore d'uso (dice infatti a p.244: “pur essendo importante per il valore esistere in qualche valore d'uso, gli è ugualmente indifferente in quale esso possa esistere...”), Marx, a p.250, con un giro di frasi piuttosto involuto, cerca di spiegare la differenza tra valore d'uso e di scambio nei mezzi produttivi capitalistici. In tali mezzi -egli afferma- non si consuma il valore di scambio (non essendo essi permutati con alcunché), ma solo quello d'uso (a causa del logorio). Perciò il valore di scambio non può essere riprodotto, propriamente parlando, nella merce (con un aumento di valore), ma solo conservato così com'è (dal mezzo produttivo alla merce), a differenza del valore d'uso, che invece si trasferisce dalla macchina al prodotto, diventando un nuovo valore d'uso, con capacità di scambio. Il vecchio valore di scambio dei mezzi produttivi, che si era conservato, è riapparso alla fine del processo produttivo, nel nuovo valore d'uso creato.

Così è dimostrato che l'incapacità di creare “valore”, da parte dei mezzi produttivi, dipende sia dal fatto ch'essi non possono trasferire più valore d'uso di quanto ne perdano, sia dal fatto ch'essi riproducono il loro valore di scambio solo “apparentemente” o “incidentalmente”, poiché in realtà lo trasmettono perdendolo. Dunque chi crea vero nuovo valore (d'uso e di scambio) è solo la forza-lavoro, che riproduce “realmente” il proprio valore, ed anzi produce anche un'eccedenza, il plusvalore, che il capitalista non paga.

Da notare che per Marx la “scambialità” di una merce può essere verificata solo a posteriori, cioè sul mercato. Egli non poteva immaginare che in un regime di monopolio essa è un “a priori” di quell'impresa che non produce semplicemente per vendere (rischiando cioè l'invenduto), ma produce quel che sa in anticipo di poter vendere. Naturalmente la convinzione di poter realizzare determinati profitti presuppone l'investimento d'ingenti capitali.

Ma il difetto principale nell'analisi di Marx è che egli tendeva a considerare in maniera separata la macchina dall'operaio, giacché per lui anzitutto esistevano i mezzi produttivi offerti dalla tradizione lavorativa, i quali successivamente venivano modificati dalle esigenze di profitto del capitalista, il quale costringeva l'operaio ad adeguarsi sic et simpliciter alle capacità della macchina.

Questo modo di vedere le cose, causato da uno scarso affronto culturale della transizione dal feudalesimo al capitalismo, è all'origine del linguaggio poco chiaro (“filosofico”) visto sopra. In realtà i mezzi produttivi capitalistici sono nati, sin dall'inizio, in netta antitesi al modo precedente di usarli, al punto che il plusvalore prodotto dall'operaio sarebbe stato impensabile, ai livelli raggiunti nel capitalismo, senza l'apporto straordinario del macchinismo, frutto, a sua volta, di una grande rivoluzione culturale. Successivamente, nel capitalismo monopolistico i mezzi produttivi vengono creati in toto dagli stessi operai che li usano, il cui apporto intellettuale è sempre più rilevante: tra operaio e macchina vi è una connessione molto stretta, che contrasta ancora di più con l'appropriazione privata del plusvalore.

La tesi di Marx secondo cui la facoltà di creare “valore addizionale” è tipica della forza-lavoro in ogni momento del processo produttivo, è giusta appunto perché nel capitalismo i mezzi produttivi permettono all'operaio questa facoltà. Negli altri sistemi produttivi il lavoratore trasforma valori già dati (dalla natura), non crea nuovi valori, proprio perché il valore di scambio non ha un primato su quello d'uso.

Marx dice che se anche l'operaio lavorasse il tempo necessario alla propria riproduzione, egli trasmetterebbe comunque alla merce “una nuova creazione di valore”(p.251), che i mezzi produttivi, da soli, non saprebbero fare. Con il suo “lavoro concreto”, l'operaio crea valore d'uso e con il suo “lavoro astratto” crea “nuovo valore”, che va ad aggiungersi a quello già esistente.

Tuttavia, se il processo finisse qui -aggiunge Marx, senza accorgersi che il vero limite è un altro-, il valore della merce rappresenterebbe “un semplice equivalente del valore della forza lavorativa”(ib.), in quanto l'operaio avrebbe unicamente rimpiazzato il denaro anticipato dal capitalista per acquistare la forza-lavoro. La nascita del plusvalore avviene quando il capitalista obbliga l'operaio a lavorare “oltre il punto in cui si riprodurrebbe”(ib.). Il plusvalore rappresenta la valorizzazione solo del capitale variabile.

Marx cioè non si è reso conto di un limite ancora più grave del modo di produzione capitalistico, che prescinde in un certo senso dalla realtà dello sfruttamento, e che riguarda inevitabilmente anche il sistema socialista, democratico o burocratico che sia. E' il limite della stessa produzione industriale e del primato del valore di scambio, che uccidono in maniera irreparabile la prassi dell'autoconsumo, il primato del valore d'uso, la tutela dell'ambiente, le tradizioni agricolo-artigianali, il senso dell'autogestione...

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Marx distingue anche i “materiali da lavoro” dai “mezzi di lavoro”. I primi sono p.es. le materie prime, il carbone con cui si riscalda la macchina, l'olio con cui si lubrifica l'asse della ruota, una macchina in riparazione ecc. (sono esempi di Marx). Il capitale investito in questi materiali e che si consuma in un solo processo produttivo e che quindi entra tutto nel nuovo prodotto, è detto “circolante”. I “mezzi di lavoro” propriamente detti sono invece quelli “produttivi”: uno strumento, una macchina, l'edificio d'una fabbrica, un recipiente ecc. Il capitale qui impiegato, che trasmette nel prodotto solo la parte consumata (vedi le cosiddette “quote di ammortamento”), è detto “fisso”.

La differenza sta nel fatto che i mezzi di lavoro “sono utili nel processo lavorativo solo fino a che mantengono la loro forma originaria e tornano domani nel processo lavorativo nella medesima forma che avevano ieri”(pp.244-5). I “materiali da lavoro” invece servono solo a conservare intatti e utili i mezzi produttivi. Generalmente i materiali da lavoro scompaiono nel processo produttivo; Marx qui aggiunge, ancora ignaro dei problemi dell'inquinamento: “senza lasciar traccia”(p.244). Viceversa, “i cadaveri di macchine, di attrezzi, di opifici ecc. continuano ad esistere separati dai prodotti che avevano concorso a formare”(p.245).

Per Marx era inconcepibile l'idea che nel capitalismo vi fossero degli sprechi. A p.247 fa l'esempio delle grandi fabbriche di macchine di Manchester che riciclano “montagne di scarti di ferro”. Il riciclaggio degli “escrementi del processo lavorativo” è una caratteristica tipica del capitalista, che vuole risparmiare su tutto. Marx non poteva neppure sospettare che proprio quei “cadaveri di macchine” rappresentavano la testimonianza più eloquente delle leggi dell'entropia.

Ciò che Marx non avrebbe mai accettato è l'idea che in una moderna società industriale si possano produrre solo valori d'uso e non anche, nello stesso tempo, valori di scambio. L'unità dei due valori, per Marx, non solo è inevitabile in una società in cui i prodotti escono da aziende capitalistiche (e su questo nulla da obiettare), ma sarebbe anche giusta se i prodotti uscissero da aziende socializzate.

Per lui è del tutto “naturale” che un mezzo produttivo perda progressivamente il proprio valore d'uso per trasmetterlo, insieme a quello di scambio, ai prodotti del lavoro. “Se non avesse da perdere alcun valore...non trasmetterebbe alcun valore al prodotto. Esso servirebbe a formare valori d'uso, senza servire a formare valori di scambio: questo è il caso di ogni mezzo di produzione fornito dalla natura, senza che intervenga l'uomo, terra, vento, acqua, ferro nel filone, legname nella foresta vergine ecc.”(pp.245-6).

Cioè per Marx il rapporto artificiale dell'uomo con la natura è sostanzialmente da preferirsi a quello meramente naturale: il problema sta semmai nel potenziarlo secondo una regolamentazione sociale e razionale. Per lui quindi non è in discussione la formazione originaria del capitale costante, cioè la nascita dei moventi dell'industrializzazione e il sorgere della legittimità del suo primato sull'agricoltura e sull'artigianato, ma è in discussione la mera distribuzione del capitale variabile. Significativo è il fatto che dopo il cap. VI Marx parli del saggio del plusvalore e non dell'assurdità del sistema capitalista, che è costretto, per sopravvivere, a rivoluzionare continuamente i propri mezzi produttivi. L'analisi del capitalismo fatta nel Manifesto era, in tal senso, più indovinata.

In ogni caso questo modo di vedere le cose, alla luce delle moderne teorie sul degrado ambientale e sull'entropia, va ampiamente rivisto.

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Che cos'è dunque il plusvalore? E' una parte di lavoro non pagata. Nel capitalismo, come in ogni altro sistema antagonistico, è sinonimo di “sfruttamento”. In nessun capitolo della III sezione Marx ha mai pensato di criticare la formazione in sé del plusvalore; egli si è semplicemente preoccupato di dimostrare che nel capitalismo la sua formazione avviene a spese del lavoratore. Infatti, il problema per Marx era unicamente quello di distribuire in modo equo i frutti del plusvalore. Questo, in sintesi, il significato della sezione in oggetto.

Fino ad oggi la critica borghese ha cercato di confutare l'oggettività del plusvalore scoperto da Marx, ma -bisogna ammetterlo- tutti i tentativi sono falliti. La stessa esigenza degli imprenditori di automatizzare sempre più la produzione nasce proprio dalla necessità di realizzare plusvalore estromettendo la forza-lavoro (che mal sopporta tale sfruttamento) dal processo produttivo.

Tuttavia, la resistenza della teoria del plusvalore alle critiche degli economisti non sta di per sé a significare ch'essa vada considerata come un dogma. Vi sono, in effetti, degli aspetti che vanno approfonditi e altri da sviluppare ex-novo, poiché Marx non li ha neppure presi in considerazione.

Il primo aspetto che bisogna assolutamente affrontare è di natura culturale, ed è inerente alla genesi storica del plusvalore capitalistico. Non dovrebbe essere difficile dimostrare che se non ci fosse stata la possibilità di creare un plusvalore diverso da quello che il feudatario realizzava con i suoi contadini-servi, non sarebbe mai nata alcuna rivoluzione industriale. Essa infatti rappresenta il tentativo (riuscito) di ricostituire, in forme diverse, quello sfruttamento cui il lavoro era fatto oggetto nel sistema feudale, e in cui -a ben guardare- si è sempre caratterizzato dalla fine del comunismo primitivo.

Ma perché ciò potesse avvenire con successo, occorreva che il lavoratore avesse l'illusione della libertà. Cioè da un lato occorreva che il capitalista fosse convinto al 100% che sfruttando la forza-lavoro avrebbe realizzato un profitto di molto superiore al capitale investito; dall'altro occorreva una forza-lavoro disposta a credere che, emancipandosi dallo sfruttamento feudale, non sarebbe ricaduta in uno peggiore.

Gli strumenti con cui realizzare il plusvalore non sono stati solo quelli socio-economici e tecnico-scientifici connessi all'uso della proprietà privata, del capitale, del macchinismo ecc., ma anche quelli di tipo culturale, strettamente legati all'ideologia e ai valori borghesi emergenti (che altro non erano se non una laicizzazione di precedenti valori religiosi). Se non ci fossero stati questi strumenti “invisibili”, nessun imprenditore avrebbe mai impiegato ingenti capitali col rischio di ottenere soltanto la loro conservazione originaria, senza ulteriore valorizzazione.

Certo, la rivoluzione industriale sarebbe potuta nascere anche in una società non antagonistica, ma ciò, se lo fosse stato, sarebbe avvenuto in maniera molto più lenta, senza stravolgere il precedente modo di produzione, e soprattutto senza lo sfruttamento della forza-lavoro (né le risorse naturali sarebbero state saccheggiate, né il colonialismo sarebbe mai nato ecc.). La novità della produzione di tipo “capitalistico” è consistita proprio in questo, che si è voluta costruire una società antitetica in tutto e per tutto a quella del passato, conservando però la prassi della sfruttamento del lavoro altrui.

La conseguenza è stata che in virtù del macchinismo si è potuto realizzare un plusvalore assolutamente imparagonabile con quello delle epoche precedenti. Questo fatto da Marx non viene mai problematizzato a fondo. Nel Capitale (ma già nel Manifesto era così) l'industrializzazione viene considerata come uno dei fattori oggettivi di progresso che ha permesso all'uomo di emanciparsi dalla tradizione agraria pre-capitalistica. Marx non ha colto il fatto che il plusvalore che l'operaio, attraverso la macchina, trasferisce alla merce e di conseguenza al profitto del capitalista, viene in un certo senso “pagato”, oltre che dallo sfruttamento della forza-lavoro, anche da una progressiva svalorizzazione della macchina, per la cui costruzione era stato speso un certo capitale (risorse materiali e naturali, energie psico-fisiche e intellettuali) che alla resa dei conti ha comportato un impoverimento delle condizioni generali dell'ambiente naturale e quindi un'instabilità e una precarietà sempre più crescente nelle condizioni generali di vita della stessa società umana.

Oggi, dopo aver costatato che nell'esperienza del “socialismo reale” il primato concesso all'industria comporta degli squilibri socio-ambientali anche in assenza della “logica” del capitale, siamo arrivati al punto da doverci chiedere: è veramente necessario produrre plusvalore? In teoria esso serve ad aumentare il livello del benessere; nel capitalismo -come noto- ciò è alquanto relativo, poiché il benessere è accompagnato dallo sfruttamento più o meno “selvaggio” delle risorse umane e naturali e quindi da un'appropriazione privata del plusvalore. Quando tale sfruttamento garantisce in Occidente, nei paesi a capitalismo avanzato, un livello medio o medio-alto di benessere, ciò significa che nel Terzo mondo esiste uno sfruttamento già molto intenso.

In una società senza antagonismi di classe, sarebbe ancora necessario il plusvalore? Ovverosia, cosa dobbiamo intendere con la parola “benessere”? La qualità della vita è forse una grandezza che dipende dalla quantità di beni che possediamo? Cos'è più importante: che l'uguaglianza sociale sia garantita o che la produzione aumenti di continuo? Le due cose infatti paiono escludersi a vicenda.

Probabilmente l'uomo, spinto in questo dalle stesse contraddizioni irrisolvibili del sistema capitalistico, è giunto ad una svolta epocale, in cui è costretto a prendere delle decisioni storiche, che dovranno necessariamente mutare lo scenario del suo futuro. Occorre dunque chiedersi: è preferibile limitarsi all'autoconsumo e alla semplice riproduzione dello standard di vita che garantisce a tutti libertà e proprietà, oppure dobbiamo puntare sullo scambio, sulla produttività in serie, sullo sfruttamento della natura, sulla ristrutturazione tecnologica, ovvero su tutto ciò per cui alcuni fruiscono di elevati livelli di benessere e altri (la maggioranza) non ne fruiscono affatto?

Naturalmente le alternative, nella pratica, non sono mai così nette come le formuliamo: sia perché non si può togliere all'uomo la speranza di poter umanizzare o democratizzare un sistema di vita basato sull'uso della tecnologia più avanzata; sia perché non si può togliere all'uomo il diritto di produrre più di quanto abbia effettivamente bisogno.

In questo caso però (che per noi è quello di maggiore interesse), se volessimo considerare positivamente la produzione di plusvalore, si dovrebbe affermare con certezza ch'essa, in una società democratica, non può essere né vietataimposta. Nel senso che la produzione del plusvalore va lasciata alla libera volontà dei cittadini, i quali però devono essere consapevoli che l'autoconsumo produce meno entropia e che il plusvalore va regolamentato con un'efficacia maggiore di quella che occorre per l'autoconsumo.

Ciò che alla comunità locale dovrebbe importare più di tutto è la riproduzione del valore. Il plusvalore non si giustifica col fatto che il capitale costante è soggetto a logorio. E' l'idea stessa d'investire del capitale per produrre solo plusvalore che va superata. Certo, se si dovesse guardare alla possibilità di produrre di più spendendo di meno, ogni innovazione tecnologica, utile allo scopo, dovrebbe essere ben accetta, anche se essa comportasse una contrazione del numero degli operai per ogni unità produttiva, o altri aspetti negativi.

Ma il problema oggi non è più semplicemente quello della maggiore efficienza (la cosiddetta “qualità totale”), del maggior risparmio e così via: sotto quest'unico aspetto sarà difficile contestare le ragioni dei capitalisti, eternamente angosciati, anche nella fase monopolistica, dal problema di battere la concorrenza. In realtà oggi il problema è diventato quello di mettere in discussione la necessità di produrre beni di consumo attraverso, anzitutto, i mezzi industriali, che da almeno 500 anni vengono considerati prioritari rispetto a quelli agricolo-artigianali, al punto che la scomparsa progressiva di quest'ultimi viene ritenuta come un fenomeno non solo inevitabile ma anche legittimo e segno di vero progresso.

Il macchinismo, che avrebbe dovuto garantire ordine e razionalità, ha prodotto invece disordine e arbitrio. Si sono persi i cicli della vita naturale, contadina; usiamo prevalentemente risorse non rinnovabili; i costi economici, per produrre plusvalore, sono sempre maggiori; ogni nuova applicazione tecnologica, fin dal suo inizio, presenta degli effetti secondari imprevedibili, che sono più disastrosi dell'assenza di quella nuova tecnologia, e ai quali, per giunta, si cerca di porre rimedio con un'altra tecnologia, ancora più sofisticata, e tutto ciò in omaggio al fatto che la tecnica non è più un semplice “strumento di lavoro”, ma è addirittura diventata un “modello di vita”. Il lavoro viene sempre più vissuto come una condanna anche da coloro che fruiscono di una vita relativamente agiata.

Ecco perché l'idea che oggi deve affermarsi è quella di una produzione del plusvalore solo in casi limitati, di stretta necessità. L'eccedenza di beni di consumo deve diventare la risultante naturale, spontanea, del processo produttivo, a meno che essa non nasca da un'esigenza particolare della collettività, soddisfatta la quale tutto deve tornare come prima.

Il difetto del capitalismo, in sostanza, non sta tanto nel voler produrre una merce il cui valore sia in eccesso rispetto al valore consumato nel processo produttivo, quanto piuttosto sta nel voler fare solo questo e ad ogni costo: “la produzione di plusvalore -dice Marx- è il fine specifico della produzione capitalistica”(p.278). Ciò è potuto accadere perché, storicamente parlando, il problema di creare plusvalore si è imposto come esigenza di una persona singola, ostile all'interesse comunitario di “conservare” il valore: ieri questi “singoli” erano gli schiavisti e i feudatari, oggi sono i capitalisti (e nel socialismo amministrato i burocrati dello Stato). In virtù dell'attività imprenditoriale del capitalista, noi oggi diamo per scontato che la produzione di plusvalore sia indispensabile, ma la comunità dovrebbe opporsi a questa cultura rivendicando non solo, come chiede il marxismo, la socializzazione del plusvalore, ma anche quella della sua riduzione al minimo indispensabile.

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Torniamo ora alla domanda iniziale: che cos'è il plusvalore? Se la produzione fosse completamente automatizzata ci sarebbe ugualmente il plusvalore?

Marx non si pone questa domanda non solo perché ai suoi tempi l'ipotesi era ancora inverosimile, ma anche perché l'avrebbe considerata mal posta. In effetti, una produzione automatizzata non rappresenta mai un'autoproduzione: le macchine, solo per il fatto di esistere, dimostrano la loro dipendenza dagli operai, dai tecnici, dagli ingegneri o dai progettisti; inoltre esse vanno periodicamente controllate, revisionate, perfezionate, sostituite... Una macchina non è in grado di migliorare, oltre un certo limite, la qualità della propria produzione. Quindi il plusvalore è inevitabile.

Naturalmente un'impresa del genere -che ai tempi di Marx non esisteva- realizza plusvalore più con gli operai intellettuali che non con quelli manuali (almeno nell'area del capitalismo avanzato), e quindi più nel momento della progettazione e del controllo della macchina, che non nel momento della trasformazione della materia prima, ove la manovalanza è ridotta al minimo essenziale.

Tuttavia, in questo caso il plusvalore può essere realizzato a una condizione ben precisa: che le altre imprese non abbiano acquisito il medesimo livello di automazione, ovvero ch'esse impieghino manodopera salariata, senza la quale sarebbe impossibile acquistare le merci dell'impresa automatizzata. Non a caso quest'ultima, per evitare la sovrapproduzione, per realizzare alti profitti e per non costringere le altre imprese -che rischiano d'essere rovinate dalla concorrenza dei suoi prezzi- ad automatizzarsi nella stessa maniera, deve necessariamente puntare sull'export. Se tutte le imprese di una nazione sono automatizzate e l'export non garantisce uno sbocco sicuro, la crisi è inevitabile, poiché la macchina, di per sé, è nulla senza il lavoro vivo dell'operaio.

Un'impresa automatizzata realizza il massimo risparmio sul costo del lavoro (a parte quello intellettuale) con il massimo di efficienza (per quanto la produzione in serie non garantisca di per sé una maggiore flessibilità), ma realizza anche, indirettamente, il massimo di sfruttamento possibile della manodopera salariata delle altre imprese, divenendo così altamente parassitaria nell'ambito del capitalismo. La sostituzione dell'operaio con la macchina avrebbe senso se l'operaio fosse riciclato in un'altra mansione, meno faticosa, meno rischiosa, più gratificante ecc. Ma questo nel capitalismo sarebbe possibile (peraltro relativamente) solo se nel Terzo mondo lo sfruttamento della manodopera salariata avesse raggiunto livelli particolarmente elevati.

Se invece la proprietà della fabbrica fosse statale, si produrrebbe ugualmente pluvalore? Il plusvalore non è solo relativo allo sfruttamento capitalistico, esso è anche oggettivo, a causa della particolare modalità con cui s'investe il capitale costante, finalizzato alla valorizzazione della tecnologia e all'acquisizione di un profitto che incrementi il capitale investito. Questa modalità può avvenire anche in una società socialista.

Se non ci fosse lo sfruttamento, ci sarebbe ugualmente il plusvalore, ma esso, nel socialismo, non sarebbe una parte di lavoro non pagata. In questo senso il cosiddetto “socialismo reale” è fallito anche perché ha preteso di gestire in modo democratico il plusvalore attraverso gli organi statali. Proprio la presenza dello Stato, che deteneva un ruolo egemonico sulla società civile, impediva di garantire un'equa ridistribuzione del plusvalore a livello nazionale.

Se invece la proprietà fosse sociale non ci sarebbe alcun plusvalore “forzato”, poiché l'operaio sarebbe pagato per quello che effettivamente produce. Il plusvalore potrebbe esserci solo in forma “liberamente accettata”. Ovviamente l'operaio dovrebbe contribuire con le proprie tasse a che la comunità locale disponga di tutte le strutture e i servizi necessari.

Proprietari della fabbrica sono coloro che vi lavorano: essi sono i responsabili ultimi della sua gestione, benché il collettivo dell'impresa, in una società veramente democratica, non possa decidere per suo conto né il tipo delle merci, né la loro quantità e, anche per quanto riguarda la qualità, esso dovrebbe tener conto degli interessi e delle esigenze di tutti i consumatori.

In una società socialista occorrerebbe che tutti avessero consapevolezza che la macchina non può trasmettere al prodotto un valore superiore al proprio, per cui non è indispensabile produrre macchine sempre più sofisticate, costose, capaci di “grandi prestazioni”: quanto più s'impiegano macchine di questo tipo, tanto più velocemente esse cedono il proprio valore d'uso al prodotto e quindi tanto prima diventano “cadaveri di macchine”. Il capitalismo, che induce, a causa della concorrenza, a perfezionare sempre più la propria tecnologia, finisce col cadere in un circolo vizioso, poiché per integrare i costi coi profitti è costretto ad acuire al massimo le proprie contraddizioni.

Ciò che conta, in definitiva, è solo il “capitale umano”, cioè il lavoro vivo dell'operaio, che, se vissuto in un contesto sociale significativo (ontologico), sa conservare l'uso delle macchine in modo conforme alle necessità dell'uomo.

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Il capitolo dedicato al saggio del plusvalore è la parte più tecnica di tutta la III sezione, e quindi è anche la meno interessante. Tuttavia, essa era indispensabile nell'impostazione metodologica di Marx, il quale, nel Capitale, ha voluto dimostrare l'oggettività dello sfruttamento partendo non dalle conseguenze sociali del lavoro salariato (come ha fatto, p.es., nel Manifesto), ma dalle contraddizioni matematiche intrinseche allo stesso processo produttivo (di lavoro e di valorizzazione del capitale).

Marx in sostanza ha svolto questo ragionamento: 1) nel capitalismo -come in altre società basate sullo sfruttamento del lavoro- si produce plusvalore; 2) fine ultimo del capitalismo -a differenza delle altre società antagonistiche- è la mera produzione di plusvalore: “la misura del grado della ricchezza -dice Marx- non è dato dalla grandezza assoluta del prodotto, bensì dalla grandezza relativa del plusprodotto”(p.278), che rappresenta il plusvalore. Solo nel capitalismo il plusprodotto -che pur si trova in ogni tipo di società- diventa portatore materiale di plusvalore. Ciò è reso possibile dal fatto che qui diventa merce anche la forza-lavoro dell'individuo; 3) il plusvalore è dunque fonte di sfruttamento perché non pagato a chi lo produce; 4) superare il capitalismo vuol dire socializzare il plusvalore.

Marx non mette mai in discussione il plusvalore come tale, ma solo la sua destinazione privata. Egli non ha mai espresso alcun interesse circa la possibilità di creare un socialismo democratico che si limitasse alla pura e semplice riproduzione del valore.

La parte più difficile da accettare, nel modo di quantificare il saggio del plusvalore, è l'attribuzione di una valore = 0 al capitale costante (“c”). Come noto, per “capitale costante” Marx intende “il valore dei mezzi di produzione consumati” nella produzione (p.256), cioè intende quella quota-parte del capitale complessivo investito che, logorandosi, si trasferisce nella merce.

Ora, Marx sostiene che se “c” fosse = 0 (e ciò è possibile se il capitalista utilizza solo materiali esistenti in natura, come ad es. le risorse rinnovabili, e forza-lavoro), il plusvalore (“p”) ottenuto “resterebbe della medesima grandezza che se “c” stesse a indicare la somma massima di valore”(p.257). Questo perché il plusvalore non è prodotto dalla macchina ma dalla forza-lavoro. (Da notare che a Marx non interessa minimamente l'ipotesi di un c = 0, senza formazione di plusvalore).

Se invece il plusvalore fosse = 0, cioè se la forza-lavoro avesse prodotto un valore equivalente al suo prezzo, il capitale anticipato non si sarebbe valorizzato (e -si può aggiungere- il capitalismo non sarebbe mai nato).

Ciò che a Marx interessa mostrare è che, per comprendere l'entità esatta del plusvalore, l'economista deve considerare solo le trasformazioni di valore che avvengono in una porzione del capitale variabile (trasformato in forza-lavoro), e deve fare astrazione dal valore del capitale costante. Il plusvalore infatti non si forma col trasferimento di valore del capitale costante al prodotto, neppure aggiungendo tale valore a quello che crea la forza-lavoro.

Ecco perché è necessario che “c” sia posto = 0, altrimenti si avrà che, a causa dell'aumento del capitale variabile (“v”), alla fine sarà aumentato anche il capitale complessivo anticipato. Il che -secondo Marx- è un modo sbagliato di vedere le cose, essendo il plusvalore un'eccedenza estorta con l'inganno del contratto, per il quale non si paga il “lavoro” bensì la sola “forza-lavoro”. Se nel calcolo del plusvalore si conteggia anche il capitale costante, sarà poi impossibile individuare il momento esatto dello sfruttamento; si tenderà infatti a pensare che il plusvalore sia ottenuto in proporzione al capitale anticipato o ch'esso serva a coprire le spese.

Marx non nega l'importanza del capitale costante; qui si limita semplicemente a dire -rimandando al III libro un'esposizione più dettagliata- che se delle “proporzioni” esistono, queste non sono tra capitale costante e plusvalore, ma da un lato tra capitale costante e capitale variabile: “per far che funzioni il capitale variabile, è necessario che venga anticipato capitale costante in corrispondenti proporzioni...”(p.258); dall'altro, tra capitale variabile e plusvalore, nel senso che la grandezza proporzionale del plusvalore, cioè “la proporzione in cui il capitale variabile si è valorizzato, è chiaramente determinata dal rapporto del plusvalore col capitale variabile”(pp.259-60) -il che appunto costituisce il “saggio del plusvalore”.

L'altro rapporto che indica la proporzione tra “p” e “v” è quello tra pluslavoro (col quale l'operaio produce plusvalore nel tempo di valoro superfluo alla riproduzione del valore della sua forza-lavoro) e lavoro necessario (alla riproduzione del suo valore).

Marx insomma ha voluto dimostrare che il saggio del plusvalore è molto più grande di quello che il capitalista vuol fare apparire mettendo nel conto il valore del capitale costante. Nelle equazioni di Marx “il lavoratore impiega più della metà della sua giornata lavorativa per produrre un plusvalore che diverse persone si ripartiscono tra loro con vari pretesti”(pp.265-6). Tali persone sono tutte quelle non direttamente coinvolte nel processo di valorizzazione del capitale (politici, burocrati, militari, insegnanti ecc., inclusi ovviamente gli stessi capitalisti!).

Quindi il plusvalore rappresenta la valorizzazione del solo capitale variabile. Esso naturalmente aumenta coll'aumentare del grado di sfruttamento. Negli odierni paesi capitalisti avanzati il saggio del plusvalore è del 300% e oltre. Il tempo necessario per riprodurre il costo della forza-lavoro si è ridotto, in talune imprese automatizzate, a meno di un'ora.

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E' una contraddizione in termini quella di sostenere che il valore di una merce “è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrla”(p.279). Questa legge non è contraddittoria semplicemente perché sul mercato capitalistico esistono merci che hanno un valore di scambio del tutto sproporzionato al loro effettivo valore d'uso, o perché esistono merci costosissime pur essendo prodotte in tempi assai limitati (fenomeno, questo, che con l'automazione si va sempre più accentuando): la legge del valore non diventa inattendibile solo perché sul mercato si verificano delle assurdità. Essa, nelle intenzioni di Marx, voleva più che altro indicare una linea di tendenza generale, un “dover essere” astratto.

Tuttavia -è ciò è davvero un paradosso- proprio a causa dei particolari e acuti antagonismi che si verificano in ambito capitalistico, quella legge pare essere formulata apposta per essere applicata in una società che certo capitalistica non può essere. Gli economisti borghesi si sono serviti di questa incongruenza per sostenere che va superato non il capitalismo ma la stessa legge del valore e quindi l'idea di una transizione al socialismo. In tal modo essi non sono riusciti a cogliere i limiti veri di quella legge, che vanno aldilà della semplice sfera economica.

In effetti, dire che il “valore” di una merce è determinato dal “tempo” occorso per produrla, è come dire, in pratica, che il “tempo” rappresenta un “valore”. Ora, se c'è una cosa che di per sé non ha valore, questa è proprio il tempo, che può scorrere con una durata più o meno lunga a seconda di chi lo vive. Naturalmente Marx risponderebbe a questa obiezione che il tempo cui occorre riferirsi è quello “socialmente necessario”, non quello “soggettivamente arbitrario”.

Ma cosa significa “socialmente necessario”? Se il tempo cui ci si riferisce, per determinare il valore di una cosa, è un tempo collettivo, socialmente condiviso, allora esso non ha un valore proprio, ma dipendente dalla collettività che lo vive, e quindi dalla cultura di questa collettività e dalla coscienza con cui essa vive la propria cultura. Il tempo quindi ha un valore solo nella misura in cui qualcuno glielo conferisce. E questo qualcuno deve vivere in un determinato “spazio” (categoria, questa, che nel Capitale viene riempita di pochi contenuti, nel senso che la storicità dell'opera appare più “verticale” e meno “orizzontale”).

Stando le cose in questi termini, il valore di un oggetto (di uso comune) non può essere determinato semplicemente dal “suo” tempo, se non in senso “tecnico”, “economicistico”, ma deve essere determinato anche dal contesto semantico in cui esso è collocato, e quindi in ultima istanza dalla cultura significativa di una determinata comunità, la quale, a sua volta, dà senso alla dimensione del tempo (e dello spazio) in cui vive.

Ma se è l'uomo, come essere sociale, a dare un valore alle cose, il valore di queste cose può anche oltrepassare i limiti della dimensione specifica del tempo (e dello spazio), così come il valore de Il Capitale può crescere o diminuire a seconda della coscienza di quanti, nel corso dei secoli, lo leggono. Marx non riusciva a comprendere perché al suo tempo il Capitale avesse più fortuna fra gli intellettuali progressisti della Russia zarista che non tra le fila del proletariato industriale dell'Europa occidentale. La ragione tuttavia era semplice, anche se, ovviamente, non afferrabile con gli strumenti dell'economia: è la coscienza rivoluzionaria che dà il valore giusto alle cose di valore, che crea cose il cui valore è destinato a rimanere nel tempo, a disposizione di una qualunque altra coscienza in grado di riconoscerlo. Cos'è in fondo la “lotta di classe” se non la testimonianza che di fronte a cose analoghe si possono dare valutazioni opposte?

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015