MARX: IL CAPITALE - Il plusvalore 1

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


IL PLUSVALORE

I - II - III - IV

Soltanto nell'ed. francese del Capitale si trova il § 1 dedicato al “processo lavorativo” ovvero alla “produzione dei valori d'uso”. E' un § strano, che sarebbe stato meglio inserire nel § 2 della I sezione, laddove si parla del “duplice carattere del lavoro”, benché qui l'interesse prevalente di Marx sia già rivolto al lavoro “astratto”.

Messo invece nella III sezione, questo § ha un senso che si fatica alquanto a comprendere. Ormai infatti il lavoro finalizzato al valore d'uso è stato surclassato dal denaro trasformato in capitale, il quale privilegia il lavoro salariato, volto alla produzione per il mercato.

Un § di questo tipo non avrebbe neppure avuto senso se collocato nella sezione dedicata al salario, poiché esso parla del “processo lavorativo indipendentemente da ogni determinata forma sociale”(p. 211).

Dunque la ragione che deve aver spinto Marx a inserirlo in questa sezione non può aver nulla a che vedere con lo schema generale dell'opera, con l'organicità della divisione delle sezioni e dei capitoli. Esso, in effetti, sembra più che altro costituire una sorta di risposta (filosofica, o meglio, antropologica) a una inevitabile obiezione che già la I sezione suscitava relativamente alla poca chiarezza con cui Marx aveva saputo distinguere, nel lavoro umano, la parte “istintiva” da quella “consapevole”.

Marx qui esordisce sforzandosi di precisare ciò che differenzia l'uomo dall'animale. Nelle prime due sezioni, infatti, essendo dominate dal primato del valore di scambio, tale differenza si era persa di vista. L'uomo appariva come succube di un meccanismo oggettivo, indipendente dalla sua volontà, cui doveva adeguarsi anche facendo leva sul proprio istinto. Qui invece Marx punta su concetti di tipo filosofico, come “fine”, “coscienza”, “ideale”...

“Innanzi tutto il lavoro è un processo che avviene tra l'uomo e la natura...”(ib.). E' già un inizio sbagliato. Parlare del lavoro a prescindere “da ogni determinata forma sociale”(ib.) è come parlare del lavoro di un singolo separato da altri singoli: il che è antistorico.

L'uomo che “media, regola e controlla con la sua azione il ricambio organico tra sé e la natura”(ib.), è per Marx una sorta di Robinson che vive in un'isola deserta dopo essersi emancipato dalla sua “rozza” comunità primitiva. “Qui infatti non dobbiamo considerare -dice Marx- le prime forme di lavoro, animalesche e istintive”(p.212).

L'uomo delle comunità primitive viene considerato da Marx alla stregua di un “animale” incapace di trasformare se stesso. Singolare è il fatto che, secondo Marx, quest'uomo ha smesso d'essere primitivo proprio rapportandosi alla natura: “coll'agire tramite questo movimento sulla natura esterna e col trasformarla, egli trasforma allo stesso tempo la sua propria natura”(ib.). Cioè in pratica l'uomo primitivo può trasformare se stesso non tanto rapportandosi alla natura, quanto, nel rapportarsi alla natura, uscendo dalla comunità primitiva, quella stessa comunità che, pur avendo l'identico rapporto con la natura, non riesce a rendere “umano” l'uomo. Infatti, se vi riuscisse, sarebbe impossibile spiegarsi, nell'ideologia marxiana, come, rapportandosi alla natura, l'uomo ad un certo punto smetta d'essere istintivo e diventi consapevole di sé.

Per Marx il lavoro consapevole non è quello che nello stesso tempo si rapporta alla natura e al collettivo, ma quello che supera i limiti di quest'ultimo valorizzando i pregi del singolo, il quale si rapporta in modo individuale alla natura.

Il pregio fondamentale del singolo è il seguente: “al termine del processo lavorativo vien fuori un risultato che, al suo inizio, era già implicito nell'idea del lavoratore, che perciò era già presente idealmente”(ib.). L'uomo collettivo non “pensa”, ma agisce istintivamente, al pari degli animali. Solo separandosi dal collettivo, l'uomo si differenzia dall'animale.

A parte questo, Marx non riesce assolutamente a spiegare come, rapportandosi alla sola natura, e non anche al collettivo, l'uomo giunga ad avere coscienza di sé, visto e considerato che è proprio sulla base di tale autoconsapevolezza che l'uomo “non opera soltanto un mutamento di forma dell'elemento naturale [al pari dell'animale], ma contemporaneamente realizza in questo il proprio fine, di cui ha coscienza, che determina come legge la maniera del suo agire...”(ib.).

Qui non si tratta di risolvere il problema dell'uovo e della gallina. Ciò che è grave è che Marx ha omesso di precisare che il concetto di “fine” trova la sua ragion d'essere, in prima e ultima istanza, nel rapporto sociale tra uomo e uomo, aldilà del quale non è assolutamente possibile non solo distinguere l'aspetto istintivo da quello consapevole, nell'essere umano, ma neppure l'attività umana da quella animale.

Non c'è nessun “ricambio organico” tra uomo e natura che possa sostituire o produrre il rapporto sociale tra uomo e uomo. E' in questo e solo in questo rapporto che si può cogliere la differenza tra uomo e animale. Differenza che -come già più volte si è detto- riposa sul concetto di libertà.

Viceversa, per Marx, come per B. Franklin (che viene citato), l'uomo è “un animale che fabbrica strumenti”(p.215). “L'impiego e la creazione di mezzi di lavoro, sebbene in germe si trovino in alcune specie animali, caratterizzano lo specifico processo lavorativo umano...”(ib.). La differenza, in sostanza, è solo quantitativa, anche se per Marx -sulla scia dell'idealismo hegeliano- le determinazioni quantitative ad un certo punto portano a una nuova “qualità”.

Peraltro, se si afferma che lo specifico dell'attività umana (che si suppone lavorativa) è il lavoro, si cade nella tautologia. E' giusto affermare che “le epoche economiche si distinguono non per quello che viene prodotto, ma per come, con quali mezzi di lavoro, viene prodotto”(ib.). Ma è sbagliato precisare che “i mezzi di lavoro...servono pure ad indicare i rapporti sociali nel cui ambito è effettuato il lavoro”(ib.).

In realtà è vero il contrario: sono i rapporti sociali e il senso del valore in cui essi si manifestano (che non è solo per un uso socio-economico: sussistenza, riproduzione ecc., ma per un uso vitale più globale) a farci capire il “come” generale della vita lavorativa e il “perché” la scelta sia caduta su determinati mezzi e strumenti lavorativi.

Questo naturalmente significa che quando una formazione sociale o un'epoca economica viene tragicamente distrutta, nei suoi rapporti sociali, da un'altra epoca o formazione, diventa molto difficile risalire al contenuto di valore ch'essa viveva partendo dagli strumenti produttivi che si sono conservati e che successivamente sono stati raccolti e depositati in qualche museo. Il passato può essere capito solo se il presente, pur mutando i mezzi di lavoro ereditati, ha conservato, in qualche modo, lo “spirito” di cui essi erano espressione.

In caso contrario è utopico pensare che un processo lavorativo possa conservare i valori d'uso prodotti da “precedenti processi lavorativi”(p.217). Non è per nulla vero che “l'unico mezzo per conservare questi prodotti di lavoro passato e per realizzarli come valori d'uso...” sia quello di metterli a contatto “con il vivo lavoro”(p.219). La memoria del valore d'uso non dipende semplicemente dal lavoro, ma dalle scelte che l'uomo compie in riferimento al senso generale della sua vita e soprattutto al modo particolare di vivere il valore della libertà.

Per distinguere l'uomo dall'animale non è neppure sufficiente puntare sul fatto che il prodotto del processo lavorativo “è un valore d'uso, materiale naturale reso conforme a bisogni umani per mezzo del mutamento di forma”(p.216). Forse che gli animali non hanno dei “bisogni”? Forse che essi, sulla base di questi bisogni, non si costruiscono dei “valori d'uso”? Si può forse affermare che il loro lavoro è un semplice “mutamento di forma” e che quando incontrano dei problemi su questa strada non riescono con la loro intelligenza a trovare nuove soluzioni?

Marx, pur rendendosi conto che per recuperare la differenza tra uomo e animale doveva sottolineare l'importanza della produzione di valori d'uso, poiché essa presuppone un “fine consapevole”, ha fallito il suo tentativo, anche perché, essendo partito, nella I sezione del Capitale, dal riconoscimento del primato del valore di scambio, egli non poteva più ritrovare la memoria del valore d'uso, che è sempre legata a una formazione sociale determinata, storicamente situata e certamente di tipo pre-capitalistico.

Non a caso Marx tenta di recuperare il valore d'uso solo in maniera astratta, cioè nel rapporto generico che l'uomo ha con la natura, e tralascia completamente la possibilità di reperire dei valori d'uso nella comunità di autosussistenza. Per Marx la produzione di valori d'uso sganciata da quella per il mercato, appartiene all'epoca “animalesca” dell'uomo.

Naturalmente Marx è consapevole che l'individuo non coincide sic et simpliciter con il lavoro che svolge. Ad un certo punto egli non può fare a meno di accennare alla differenza tra “consumo produttivo” (il quale “consuma i prodotti come mezzi di sussistenza del lavoro, vale a dire della forza lavorativa in atto dello stesso individuo”), e “consumo individuale” (il quale “consuma i prodotti come mezzi di sussistenza dell'individuo vivente”)(p.219).

Con ciò in pratica Marx ribadiva la differenza tra individuo biologico e sociale, ovvero che il concetto di esistenza non può essere inteso solo in quell'aspetto che accomuna l'uomo all'animale. Ciononostante egli non riesce a spiegare, se non dandolo per scontato, il motivo per cui “il risultato del consumo individuale è il consumatore stesso”(pp.219-20). Di fatto, se c'è una cosa che non fa l'interesse del consumatore è proprio il consumo “individuale”, separato da quello “sociale”, separato soprattutto dal significato collettivo del consumo sociale.

A forza di analizzare il processo lavorativo “nei suoi semplici ed astratti movimenti”(p.220), Marx è finito col cadere, contro le sue stesse intenzioni, in una serie di ingenuità davvero singolari: 1) il lavoro -egli afferma- “è l'attività che ha per fine la produzione di valori d'uso”(ib.), mentre nel capitalismo la produzione principale è quella di valori di scambio; 2) il lavoro è “adattamento degli elementi della natura ai bisogni dell'uomo”(ib.), mentre nel capitalismo tanto la natura quanto i bisogni sono finalizzati unicamente al profitto, per cui non solo si alimentano “falsi bisogni”, ma si trasforma anche la natura in un mero “oggetto di consumo”; 3) il lavoro è “condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura”(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è così alienato dalla natura che il ricambio organico dell'uomo avviene solo attraverso il “macchinismo”, cioè tramite tutti quegli strumenti artificiali che mediano il suo rapporto con l'ambiente; 4) il lavoro è “perenne condizione naturale dell'umano esistere”(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è vissuto nelle condizioni più “innaturali”, poiché per taluni è “dolce far niente”, per molti è “duro sfruttamento”, per altri è “tragica emarginazione”, infine per non pochi è dovere di conservare con la “forza” questo stato di cose.

E' stato un errore non aver considerato “il lavoratore in rapporto ad altri lavoratori”(ib.), poiché se è vero che “non ci si accorge dal sapore del grano chi l'ha coltivato”(ib.), è anche vero che chi conosce, come Marx, le leggi dello sfruttamento, non si mette a tavola prima d'aver saputo da dove proviene il grano che mangia.

* * *

Ormai la teoria del plusvalore, elaborata da Marx, è diventata la cosa meno importante del marxismo, e non perché -come direbbe un popperiano- essa non è suscettibile di confutazione, ma proprio perché, nell'ambito del capitalismo, la sua confutazione è impossibile. E' come se in campo astronomico si avesse la pretesa di rimettere in discussione la teoria copernicana.

La teoria del plusvalore, che mette in luce l'oggettività scientifica dello sfruttamento capitalistico, era già stata elaborata in Per la critica dell'economia politica; la stessa redazione delle Teorie sul plusvalore, considerata come il IV volume del Capitale, precede quella del I volume.

Durante la stesura del Capitale, Marx era così padrone di questa teoria che già alla fine della II sezione l'anticipa completamente nelle sue linee essenziali, mentre nella III sezione la espone in modo dettagliato. Con una precisione sconosciuta all'economia classica, Marx afferma che il plusvalore è prodotto dall'operaio perché il costo della sua forza-lavoro (la capacità lavorativa) non corrisponde al suo valore d'uso.

Come ogni altra merce infatti, la forza-lavoro ha un costo stabilito “in base alla quantità di lavoro incorporato nel suo valore, al tempo di tempo socialmente necessario alla sua produzione”(pp.223-4). Quindi il capitalista, sul mercato, al momento della contrattazione, paga il prezzo che occorre solo alla riproduzione della forza-lavoro, ovvero paga unicamente “il valore giornaliero della forza lavorativa”(p.222), riservandosi nello stesso tempo la facoltà di usarla in fabbrica oltre il prezzo pattuito. Egli sa bene infatti che “lo specifico valore d'uso di questa merce è quello di essere sorgente di valore e di un valore più grande di quanto ne possieda essa stessa”(p.232).

“Il fatto che occorre una mezza giornata lavorativa per farlo vivere ventiquattro ore, non impedisce per niente all'operaio -dice Marx- di lavorare per un'intera giornata. Perciò il valore della forza lavorativa e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze diverse”(ib.). E' la stessa differenza che passa tra il suo valore di scambio (sul mercato) e il suo valore d'uso (in fabbrica).

Il plusvalore quindi è un furto legalizzato sul valore d'uso della forza-lavoro: “il fatto che il valore creato in una giornata dall'uso [della forza-lavoro] superi del doppio il suo stesso valore giornaliero, questa è una fortuna particolare per l'acquirente, ma non è per niente una ingiustizia nei confronti del venditore”(p.233).

Ora, il problema fondamentale che questa teoria suscita non sta tanto nella fondatezza dello sfruttamento economico che si verifica in fabbrica, e che si verificherebbe anche se a livello sociale (previdenza, assistenza, sanità ecc.) l'operaio fruisse di particolari servizi, quanto piuttosto sta nel fatto che Marx dà per scontato che il capitalista, sul mercato del lavoro, paghi effettivamente la spesa per produrre la forza-lavoro: cosa che se non avvenisse -lascia intendere Marx- si ritorcerebbe contro gli interessi dello stesso capitalista.

Non avendo messo in discussione il primato del mercato, del valore di scambio, della merce ecc., ora Marx non può che limitarsi a considerare giusta la contrattazione e ingiusto il lavoro salariato, nel quale si genera un plusvalore non pagato. Lo sfruttamento della forza-lavoro avviene, per Marx, nel momento in cui l'operaio entra “nell'opificio del capitalista”(p.222). Il lavoro salariato viene rifiutato solo dal punto di vista del plusvalore, o meglio: solo perché esiste un'appropriazione privata del plusvalore che non è quella del lavoratore.

Per Marx “la trasformazione del modo di produzione tramite la subordinazione del lavoro al capitale...”(p.221), non è un presupposto ma una conseguenza del lavoro salariato. Naturalmente Marx non ha mai sostenuto che la contrattazione sul mercato del lavoro potrebbe anche avvenire senza lavoro salariato, però il suo ragionamento porta a questa conclusione. Che poi è stata, in un certo senso, la conclusione del “socialismo reale”, il quale, statalizzando l'intera proprietà, aveva impedito la formazione di un mercato del lavoro capitalistico, anche se, nei fatti, non aveva potuto eliminare la necessità di tenere bassi i salari. La contrattazione stava nel fatto che in cambio di questi salari lo Stato garantiva la gratuità di certi servizi o il blocco di molti prezzi. L'esperimento è fallito anche per questa ragione economica: il plusvalore realizzato nella proprietà statale non tornava al lavoratore che in misura ridotta.

Qui Marx si limita ad affermare che “in un primo momento il capitalista deve prendere la forza lavorativa come la trova sul mercato, e così deve prendere anche il lavoro che essa ha portato a termine, come s'era sviluppato in un periodo in cui non esistevano ancora capitalisti”(ib.).

Il che in pratica vuol dire: anzitutto, che il costo della forza-lavoro, cioè il tempo di lavoro “socialmente necessario” per riprodurla, è determinato dalla consuetudine, ovvero dalla tradizione lavorativa di una determinata società: cosa di cui il capitalista deve prendere atto; in secondo luogo, anche le modalità operative dell'operaio non possono essere, nell'immediato, completamente modificate dal capitalista: “la natura generale del processo lavorativo non muta certo perché l'operaio l'effettua per conto del capitalista invece che per conto proprio”(ib.).

Marx, tuttavia, non si rende conto di fare delle considerazioni alquanto astratte. Parlare di “tempo di lavoro socialmente necessario alla riproduzione della forza lavoro” potrebbe andare bene in una società basata sull'autoconsumo, dove l'elemento “sociale” o “socializzante” è deciso da tutta la collettività. Viceversa nel capitalismo il tempo di lavoro è “sociale” solo nella misura in cui coincide con gli interessi del capitale. Non è un tempo deciso dalla collettività. Al massimo è un tempo deciso dal mercato, ma qui -come noto- sono gli interessi privati del proprietario dei mezzi produttivi che dettano legge. Ciò che Marx con qualche difficoltà ammetterebbe, poiché nella sua ideologia il mercato è superiore all'autoconsumo. Se vogliamo, al capitalista la riproduzione della forza-lavoro ai livelli della sussistenza indispensabile non interessa più della mera esistenza della stessa forza-lavoro: gli è infatti sufficiente questa per rimpiazzare la forza-lavoro incapace di riprodursi o quella la cui riproduzione non è così indispensabile.

Se il capitalista fosse preoccupato di garantire la minima riproduttività alla forza-lavoro, considerata in senso lato, non sarebbe un capitalista, ma, ai propri occhi, un “benefattore dell'umanità”. Di fatto, la riproduzione è un diritto che il lavoratore, soprattutto in regime di monopolio, deve rivendicare ogni giorno, altrimenti il capitalista tenderà a ridurre il costo della manodopera salariata anche al di sotto del minimo vitale di sussistenza. E tanto più lo farà quanto più il mercato del lavoro offrirà la possibilità di sostituirla (vedi del cap.XXIII la parte relativa al cosiddetto “esercito industriale di riserva”).

Sotto tale aspetto va detto che il capitalista è unicamente interessato alla riproduzione della forza-lavoro di livello superiore, che esercita un lavoro più complesso, di una maggiore importanza specifica. Tesi, questa, che Marrx rifiuta categoricamente, poiché, a suo giudizio, la “superiorità” di una forza-lavoro del genere non comporta un aumento assoluto del plusvalore ma solo un aumento proporzionato al costo della manodopera.

In realtà il valore di questa manodopera, in una società a capitalismo avanzato, è altissimo, e almeno per tre ragioni: 1) è difficilmente sostituibile, poiché il sistema scolastico-formativo dello Stato non è in grado di produrre operai o intellettuali qualificati: sia perché l'istruzione nazionale è separata dalla produzione industriale, sia perché l'istruzione di massa serve anche per contenere la disoccupazione; 2) è la stessa concorrenza intercapitalistica che impone un tasso elevato di know-how: la concorrenza avviene a livelli sempre più elevati e i primi monopoli ad impiegare le scoperte nel settore “sviluppo e ricerca” sono quelli che realizzano maggiori profitti; 3) i costi di una manodopera specializzata vengono facilmente ammortizzati in un regime di monopolio. Naturalmente qui si dà per scontato che la richiesta di manodopera qualificata parta da imprese le cui merci siano per un vasto mercato, altrimenti avrebbe ragione Marx allorché afferma che nell'Inghilterra del suo tempo il lavoro di un muratore occupava “un posto molto più alto di quello di un tessitore di damaschi”(p.239 in nota).

Lo sfruttamento quindi non avviene solo dentro la fabbrica, ma anche sul mercato, al momento della contrattazione salariale. Infatti, nel contratto (oggi sindacale) l'imprenditore, essendo l'unico a disporre di proprietà, esercita un ruolo predominante, a livello economico, rispetto a quello di ogni operaio che non si oppone politicamente al proprio stato di soggezione. Il valore di scambio della forza-lavoro non è mai effettivamente corrispondente al costo dei mezzi di sussistenza che le occorrono per riprodursi. Tant'è che il “proletariato”, per sopravvivere, è continuamente costretto ad abbassare il proprio tenore di vita, a lottare contro l'aumento dei prezzi, a cercare forme di sfruttamento clandestine, parallele a quelle contrattate ufficialmente, ad accettare modalità integrative del salario che spesso sconfinano nell'illecito, nell'illegale, nell'immorale ecc.

Che tutto ciò poi si verifichi di più tra le fila del proletariato “occidentale” o tra quelle del proletariato o sottoproletariato “terzomondista”, soggetto a sfruttamento coloniale e neocoloniale, la sostanza non cambia. Quanto più il proletariato occidentale rivendica un maggior valore di scambio della propria forza-lavoro, tanto più il capitalismo sfrutterà il valore d'uso della forza-lavoro terzomondista. E quanto più sfrutterà il valore d'uso di questa forza-lavoro, tanto più rischierà la disoccupazione quella forza-lavoro di livello medio e medio-basso che in occidente rivendicherà maggiore potere contrattuale.

L'impostazione metodologica di Marx è dunque così astratta che con essa si rischia di dimostrare il contrario di quanto s'era prefisso, e cioè che il plusvalore non è intenzionale ma casuale, in quanto solo in fabbrica il capitalista, ad un certo punto, si accorgerebbe di poterlo realizzare. “Fino a che gli affari vanno bene -dice Marx-, il capitalista è troppo preso a fare plusvalore per accorgersi di questa gratuita proprietà del lavoro”(p.249), cioè di “conservare valore aggiungendo valore”(ib.). In realtà il capitalista sa sin dall'inizio che lo sfruttamento di un lavoratore giuridicamente libero (nei cui confronti egli non abbia alcun obbligo, né legale né morale) è in grado di produrre plusvalore. Ciò che non sa è -almeno fino a Marx- come esattamente avvenga questo processo.

Allo stesso modo, il processo lavorativo tradizionale, allorché la forza-lavoro appare come merce sul mercato, è già stato ampiamente modificato. Proprio la trasformazione del lavoratore in operaio salariato, sta ad indicare l'avvenuto trionfo del capitalismo sull'autoconsumo. Un capitalista non acquisterebbe mai sul mercato una forza-lavoro se non sapesse in anticipo di poterle estorcere arbitrariamente ma legalmente un plusvalore. Se così non fosse non sarebbero mai nati né il capitalismo né l'industrializzazione, e il capitale si sarebbe fermato sulla soglia delle due forme tradizionali: commerciale e usuraia.

Ciò significa che se l'imprenditore ritiene che per produrre migliori o maggiori filati, occorre adoperare dei fusi d'oro invece che di ferro, col tempo questi saranno inevitabilmente sostituiti da quelli, e in tutte le fabbriche, nella ovvia consapevolezza di poter così aumentare il saggio del plusvalore. Il taylorismo rappresenta la dimostrazione più convincente che per il capitalista non esiste “il grado medio di abilità, di rifinitura e di celerità”, ovvero “l'usuale misura di sforzo” in cui viene impiegata la forza-lavoro di una determinata società (p.236). L'obiettivo del capitalista è proprio quello di modificare costantemente tale “grado d'intensità” (oggi diremmo di “flessibilità”, poiché l'automazione ha un ruolo prevalente) a vantaggio del plusvalore.

Paradossalmente, tuttavia, rivalutando il valore d'uso della forza-lavoro, Marx, senza volerlo, ha riaperto la strada alla valorizzazione dell'autoconsumo. Infatti, è solo passando attraverso il valore d'uso che si scopre la presenza (in sé necessaria) di una proprietà personale generalizzata. Nel capitalismo tale proprietà è monopolio di pochi; la maggioranza possiede soltanto la proprietà della propria forza-lavoro (fisica o intellettuale), di cui però non può disporre liberamente, non possedendo l'oggetto su cui e con cui applicarla. L'operaio ha una proprietà che è costretto a vendere quotidianamente alle condizioni del capitalista, finché non reagisce politicamente. Il plusvalore infatti non può essere eliminato né lottando per la riduzione dell'orario lavorativo, né esigendo un maggiore salario. La dimostrazione dell'oggettività del plusvalore è diventata, nel Capitale, la dimostrazione dell'impossibilità di superare tale oggettività restando sul terreno della rivendicazione contrattuale.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015