MARX: IL CAPITALE - Macchinario e grande industria 1

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


MACCHINARIO E GRANDE INDUSTRIA (cap. XIII)

I - II - III

Leggendo il cap. XIII del I libro del Capitale, intitolato "Macchinario e grande industria", salta subito agli occhi la grande differenza che separa Marx da Lenin.

Dopo la sconfitta del proletariato industriale nella rivoluzione del 1848, Marx smise di credere nella possibilità di una vittoriosa rivoluzione comunista a breve termine, anzi arrivò a teorizzare che prima di tutto occorreva attendere l'esaurirsi della spinta propulsiva del capitalismo. Di qui il suo dedicarsi agli studi approfonditi di economia politica. La Comune di Parigi infatti lo coglierà del tutto impreparato.

Sotto questo aspetto ci si chiede quale valore possa avere un testo come il Capitale. Sul piano scientifico, quello appunto dell'economia politica, ne ha indubbiamente uno grandissimo, ma su quello politico? Potrà mai nascere una rivoluzione proletaria dalla lettura del Capitale?

Sino al confronto col populismo il Marx maturo restò fermo nella convinzione che la transizione al socialismo sarebbe potuta avvenire solo sulla base dell'acuirsi delle contraddizioni del capitalismo. Quale discepolo di Hegel, egli era convinto che il motore della storia fosse la "contraddizione", che deve svilupparsi al massimo livello, al fine di poter generare una nuova formazione sociale.

Come tale formazione concretamente si generi Marx lo lascia spesso al caso, al moto spontaneo delle circostanze. Saranno gli uomini a trovare, al momento opportuno, in forza di nuove condizioni storiche, i mezzi e i metodi migliori per superare le loro contraddizioni.

Marx ha fiducia piena nella storia, ritenuta una sorta di deus ex-machina, in grado di agire motu proprio, al punto che gli operai del Capitale sembrano doversi limitare a una mera lotta sindacale, riformistica, contro gli imprenditori privati.

Viceversa, Lenin si chiedeva se avesse ancora senso aspettare l'acuirsi delle contraddizioni capitalistiche quando quelle già esistenti erano più che sufficienti per capire che la battaglia andava condotta immediatamente contro il "sistema" del capitalismo e non tanto contro le sue storture più evidenti.

Non era infatti possibile accettare, in Russia, il passaggio dalla crisi strutturale del feudalesimo alla nascita del capitalismo, senza rendersi conto che il capitalismo produceva, nelle città ma anche nelle campagne, dei guasti superiori allo stesso servaggio.

Lenin ebbe subito chiaro, e con lui migliaia di bolscevichi, che più tempo si dava al capitalismo di mettere radici e più tempo ci sarebbe voluto per estirparle.

Più in generale si può dire che la superiorità di Lenin rispetto a Marx è pari a quella che separa un politico da un teorico. Lo stesso Capitale, che pur vede il capitalismo quasi esclusivamente nella sua fase concorrenziale, è stato scritto quando ormai il capitalismo era entrato nella fase monopolistica. Viceversa l'Imperialismo è stato scritto da Lenin quando i monopoli avevano dato vita al loro impetuoso sviluppo.

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Marx afferma che "l'estensione universale della legislazione sulle fabbriche" (§ 9 di "Macchinario e grande industria", ed. Newton Compton del Capitale, p. 657) servì "per proteggere fisicamente e intellettualmente la classe operaia", tuttavia essa favorì pure "la concentrazione e il dominio esclusivo del regime di fabbrica".

Tale contraddizione, dal punto di vista del leninismo, sarebbe dovuta bastare per convincere la classe operaia sul fatto che qualunque rivendicazione sindacale, se non sostenuta da una forte esigenza rivoluzionaria, finisce col sortire l'effetto contrario a quello voluto.

Viceversa, Marx è convinto che quanto più si favorisce il "dominio esclusivo" del capitale, tanto più si "universalizza" la lotta contro tale dominio.

In altre parole, la lotta anticapitalistica, nella fase della manifattura o del capitalismo commerciale, non approdò al socialismo semplicemente perché il capitalismo non era ancora sufficientemente "concentrato" e quindi non lo era nelle fabbriche il proletariato.

L'unità organizzativa utile alla rivoluzione di sistema Marx la riteneva possibile solo come conseguenza della concentrazione dei capitali nelle imprese maggiori. Gli operai si sarebbero sentiti tanto più uniti politicamente quanto più lo sarebbero stati "fisicamente".

Questa logica deterministica è ben visibile anche a p. 639, laddove Marx ribadisce, con un'affermazione lapidaria, che "lo sviluppo delle contraddizioni di una forma storica della produzione è l'unico mezzo che offre la storia per la sua dissoluzione e trasformazione". L'istanza e quindi la prassi di liberazione vengono subordinate all'evolversi storico delle contraddizioni antagonistiche.

Essendo per sua natura "anarchico", il capitalismo, secondo Marx, era destinato all'autodistruzione o comunque al superamento da parte di quella classe che in ultima istanza non avrebbe accettato di lasciarsi coinvolgere in quella inevitabile rovina.

Lenin, pur partendo da premesse marxiste, perverrà a conclusioni praticamente opposte: il proletariato, anche se tutto concentrato nelle imprese capitalistiche, al massimo può giungere a una consapevolezza sindacale, in quanto non ha sufficienti possibilità (scientifiche, organizzative) per comprendere (agendo di conseguenza) che il sistema è in sé irriformabile. Sicché la coscienza che porta l'operaio a lottare in maniera irriducibile per il superamento del sistema, può essere sollecitata solo dall'esterno dei rapporti di lavoro.

Detto altrimenti: senza rivoluzione politica il capitalismo sarebbe stato in grado di superare le proprie crisi all'infinito, anche perché ne avrebbe sempre fatto portare il peso ai lavoratori.

Lenin capì chiaramente questo, ma non arrivò ad accettare, con pari risolutezza, il passaggio successivo, e cioè che gli uomini (non solo i militanti del partito ma l'intero popolo di una nazione), pur avendo coscienza della necessità della rivoluzione, vanno lasciati liberi di usare tale coscienza anche contro gli interessi della stessa rivoluzione.

* * *

Nel cap. XIII Marx ribadisce a chiare lettere che l'introduzione del macchinismo è servita unicamente ad aumentare il plusvalore del capitale (e non tanto -come voleva l'economia politica borghese- ad alleviare le fatiche degli operai). Tuttavia, egli non ha spiegato il motivo culturale del passaggio dalla manifattura alla grande industria, cioè delle cause di fondo che portarono alla rivoluzione tecnico-scientifica, che poi servì da volano alla rivoluzione industriale vera e propria.

La manifattura esprimeva certamente un rapporto mutato tra uomo e uomo, ma l'industrializzazione esprime anche un rapporto profondamente mutato tra uomo e natura. La grande industria infatti ha la pretesa di superare tutti quei limiti naturali che in qualche modo ostacolavano lo sviluppo su grande scala della produzione manifatturiera. Il capitale presume di trionfare non solo sul lavoro ma anche sull'ambiente in cui esso si manifesta.

Marx lo dice nella nota 89 (ed è singolare che sia solo una nota): "La tecnologia mette in luce la condotta dell'uomo nei confronti della natura...". E tuttavia egli non compie alcuna analisi critica nei confronti della tecnologia in sé. Anzi, qualunque tecnologia che assoggetti la natura alle esigenze dell'uomo viene giustificata, con l'ovvia eccezione ch'essa non venga utilizzata per sfruttare il lavoro altrui.

Con lo sviluppo della macchina-utensile, che determinerà tecnicamente la nascita della rivoluzione industriale, s'inverte il rapporto di dipendenza del macchinario dal lavoratore. Questo non può essere considerato un processo naturale, anche se indubbiamente le scelte operate in determinate direzioni possono portare a conseguenze inevitabili.

I limiti "culturali" di Marx sono ben visibili laddove afferma, a proposito della fine della famiglia contadina o patriarcale, che "pur apparendo orrenda e disgustosa l'oppressione della vecchia famiglia operata dal sistema capitalistico, ciononostante la grande industria, con la parte grandissima che è attribuita alle donne, agli adolescenti e ai bambini d'entrambi i sessi nei processi produttivi che vengono svolti socialmente al di fuori della cerchia familiare, crea la nuova base economica per una forma più evoluta della famiglia e del rapporto tra i due sessi"(p. 641).

Cioè a dire, mentre prima le donne e i figli erano nettamente subordinati agli uomini e tutti al patriarca della famiglia allargata, ora, essendo tutta la famiglia ugualmente sottomossa al capitale, è di conseguenza aumentata la possibilità di costruire dei rapporti più democratici tra i sessi.

E' singolare che Marx non abbia sottolineato come, da un lato, nelle famiglie rurali del feudalesimo il dominio del signore o del patriarca era strettamente legato alla fisicità della sua persona e quindi a rapporti di tipo personale, la cui "forza" era in rapporto alle terre possedute o al ruolo riconosciuto per tradizione e non poteva comunque essere illimitata come sotto il capitalismo, dove il capitale si riproduce a prescindere dalla volontà del capitalista, e come, dall'altro, la nuova subordinazione al giogo del capitale non è sul piano fisico e sociale meno "orrenda" e "disgustosa" di quella feudale, mentre lo è senza dubbio molto di più sul piano morale, essendo mascherata dall'ipocrisia della libertà giuridica. Questo nei paesi del Terzo mondo è ancora oggi piuttosto evidente.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015