MARX: IL CAPITALE - LA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


LA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO

(K. Marx, Il Capitale, Ed. Newton Compton, Roma 1976)

Premessa

La III sezione del III libro del Capitale è interamente dedicata a un problema già individuato dagli economisti classici borghesi, cui però - secondo Marx - non era stata data una soluzione soddisfacente: la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Per quanto gli economisti odierni facciano ancora di tutto per censurare le opere di Marx (basta p. es. vedere con quanta supponenza egli venga liquidato in un qualunque manuale scolastico di economia politica), resta il fatto che Marx non può essere considerato alla stregua di un socialista utopista o di un filosofo che si dilettava di economia. La stragrande maggioranza delle sue opere sono il frutto di un lavoro molto faticoso di lettura e di interpretazione di testi classici dell'economia politica.

Poiché purtroppo (per la borghesia) le sue dottrine economiche sono strettamente legate alla prassi rivoluzionaria e alla realizzazione di un'alternativa globale al capitalismo, non si è voluto tener conto che molte delle teorie economiche di Marx non sono che la ricerca di nuove soluzioni a vecchi problemi, di fronte ai quali la stessa borghesia s'è trovata come impotente.

Questo per dire che si dovrebbero quanto meno prendere in esame le sue proposte risolutive in sé e per sé, prescindendo dagli sviluppi politico-rivoluzionari che potrebbero avere e che in effetti nella storia hanno avuto, p.es. con i tentativi, poi falliti, del "socialismo reale".

Una teoria dovrebbe essere dimostrata fallace per una sua intrinseca debolezza, messa in rapporto a teorie analoghe elaborate su un medesimo argomento, e non tanto (o non solo) per come essa è stata successivamente applicata, anche perché la responsabilità di chi elabora determinate teorie non può essere considerata uguale a quella di chi ha poi cercato di metterle in pratica.

La sezione è divisa nei seguenti capitoli:

  1. descrizione del fenomeno e spiegazione della legge che lo determina;
  2. tentativi degli imprenditori borghesi di porvi rimedio;
  3. i motivi per cui il fenomeno non può essere risolto con metodi capitalistici.

L'analisi svolta in tale sezione è molto importante, poiché colpisce al cuore, in una delle sue contraddizioni più radicali, il sistema capitalistico. Questa legge viene considerata da Marx come la più importante della moderna economia politica, mai compresa da nessuno. Essa infatti dimostra che lo sviluppo delle forze produttive, provocato dal capitale, oltre un certo punto sopprime l'autovalorizzazione del capitale stesso.

Marx, che sostanzialmente aveva già elaborato la legge nel manoscritto del 1857-58 (Gründrisse), avrebbe dovuto metterla nel I libro, ma non poté farlo perché le sue analisi sul commercio estero e sul capitale azionario (con cui l'impresa cerca di porre rimedio alla caduta del saggio di profitto) non erano ancora sufficientemente sviluppate.

In questa sezione Marx era comunque riuscito a impostare i termini della questione in maniera metodologica, dimostrando dove gli economisti classici avevano sbagliato e come si sarebbe potuto superare in via di principio i loro limiti.

Prima di parlare di questa legge è però necessario fare una piccola introduzione su come si forma il saggio del profitto. Dopodiché bisognerà parlare dei rapporti tra Marx e Ricardo, poiché l'elaborazione di quella legge dipese proprio da quel confronto teorico.

Il saggio del profitto

Che cos'è il tasso o saggio di profitto di un'impresa capitalistica? E' il rapporto (in percentuale) tra il plusvalore e tutto il capitale anticipato: quello variabile (i salari) e quello fisso o costante (macchinari, materie prime, trasporti ecc.).

Questa però non è una definizione "borghese" ma "marxista" del profitto, in quanto la borghesia si rifiuta di riconoscere l'esistenza del "plusvalore", che secondo il marxismo è una parte di lavoro non pagata.

Secondo Marx, il plusvalore viene determinato dal fatto che la forza-lavoro (la classe operaia) immette nella merce prodotta un valore superiore al valore della propria stessa forza, un valore che può anche essere del 100% e oltre.

Come si fa a calcolare il plusvalore? Guardando il salario medio che occorre per riprodurre la stessa forza-lavoro. Il salario viene stabilito in maniera anticipata, in rapporto a un certo quantitativo di ore di lavoro (o, nel caso del salario a cottimo, in rapporto a un certo quantitativo di merci prodotte in un determinato tempo). Questo significa che se per il capitalista sono sufficienti 4 ore di lavoro per riprodurre la forza lavorativa impiegata, le altre 4 ore costituiscono plusvalore, cioè pluslavoro non pagato, che in questo caso è del 100%. Nella vendita di merci ad alto valore aggiunto, il plusvalore può arrivare anche al 200% o 300% e oltre. Ma a questi tassi ci si può arrivare anche nei paesi dove il costo del lavoro, delle materie prime, della vita in generale è molto basso.

Come noto la classe borghese vuol invece far credere che la forza-lavoro sia pagata al giusto prezzo e che il profitto si realizzi unicamente nel momento in cui la merce viene venduta sul mercato. Quindi esteriormente nella società borghese il "plusvalore" appare come "profitto", cioè come risultato finale di tutto il capitale anticipato. Alla borghesia conviene considerare il capitale variabile (salari, contributi sociali) come parte di quello costante, cioè non come fonte di "entrata", ma come fonte di "spesa", poiché in questo modo può occultare la dinamica dello sfruttamento. Le entrate, per la borghesia, sono soltanto quelle derivate dal capitale circolante, dalla vendita delle merci.

Secondo Marx il saggio del plusvalore è dato dal rapporto tra il plusvalore (PV) estratto dallo sfruttamento della forza-lavoro e il capitale variabile anticipato (V), espresso nella formula: PV / V. Di conseguenza il saggio del profitto non è che il rapporto tra la massa del plusvalore e tutto il capitale anticipato: costante (C) e variabile (V). Donde la formula: PV / C+V, ovviamente moltiplicata per 100.

Tutta la lotta del capitale contro il lavoro è, secondo Marx, finalizzata ad aumentare il più possibile il saggio del plusvalore: di qui il prolungamento della giornata lavorativa, la riduzione del costo del lavoro (che può essere ottenuta minacciando licenziamenti o chiusura dell'impresa, oggi diciamo: delocalizzandola), l'aumento dell'intensità o della produttività del lavoro (p.es. tenendo aperta l'azienda 24 ore al giorno, oppure automatizzando taluni processi). Oggi si assiste anche a tentativi di far acquistare azioni dell'impresa quotata in borsa agli stessi operai che vi ci lavorano.

In tal modo è evidente che quanto maggiore è la quota di capitale variabile investita (anticipata), tanto superiore (a parità delle altre condizioni) è il saggio del profitto. Detto altrimenti: può ottenere più profitti, in percentuale, un'impresa che investe meno nel capitale costante e di più nel capitale variabile.

Il saggio del profitto non dipende solo dallo sfruttamento della manodopera, ma anche dalla velocità di rotazione sul mercato: senza un mercato non esisterebbe neppure il capitalismo.

E dipende anche dalla capacità dell'imprenditore di economizzare sul capitale costante e di far funzionare al meglio le macchine: non esisterebbe il capitalismo senza rivoluzione tecnico-scientifica. D'altra parte è questa stessa tecnologia che permette un maggior sfruttamento della manodopera quanto a intensità e produttività: basta guardare oggi l'impiego dell'elettronica nella produzione.

Tuttavia l'imprenditore non opera in un'isola deserta: sul mercato non ci sono soltanto gli acquirenti delle sue merci. Ci sono anche imprenditori concorrenti, che producono merci identiche o analoghe, che possono risultare competitive sia nei prezzi che nella qualità. Ogni imprenditore cerca di acquisire il più presto possibile posizioni monopolistiche.

Gli economisti classici

Già Smith s'era accorto della caduta tendenziale del saggio del profitto, ma l'aveva attribuita unicamente al fattore della concorrenza, nel senso che con il procedere del processo di accumulazione del capitale si sarebbero esauriti i campi di investimento profittevoli e l’accresciuta concorrenza tra i capitali avrebbe fatto diminuire progressivamente il saggio di profitto

Ricardo gli aveva obiettato che la concorrenza poteva al massimo ridurre i profitti ad un livello medio nelle diverse branche d'industria, livellandone il saggio, ma non poteva abbassarlo in maniera tendenziale, altrimenti la capacità produttiva ad un certo punto si sarebbe ridotta a zero, visto che la concorrenza era inevitabile. E poi con l’aumento dei redditi aumenta la domanda (sia di beni di consumo che di mezzi di produzione), per cui anche i profitti devono per forza tornare a salire. Se non ci riescono è perché il problema va cercato altrove.

Ricardo pensò d'averlo trovato nel fatto che, secondo lui, con l'aumento della produzione aumenta anche la popolazione, la quale per essere sfamata necessita di maggiori investimenti nell'agricoltura, ma siccome l'agricoltura rende meno dell'industria (in quanto vi è scarsità di terreni fertili da poter mettere a coltivazione), anche gli investimenti sono minori, sicché i prezzi agricoli (in primis quelli del grano) vengono tenuti alti dai proprietari fondiari. Questo ha un'incidenza sui salari, che non possono scendere al di sotto delle capacità riproduttive della manodopera industriale.

La soluzione secondo Ricardo stava nel penalizzare le rendite fondiarie relative al grano, favorendo di quest'ultimo l'importazione dall'estero, a prezzi molto più contenuti, e quindi abolendo i dazi che proteggevano la produzione nazionale.

Marx interviene in questo dibattito virtuale precisando che la concorrenza non potrebbe abbassare il saggio medio del profitto in tutte le branche d'industria, se questa legge non fosse anteriore alla stessa concorrenza.

La validità della legge

La caduta tendenziale del saggio di profitto può essere considerata una legge obiettiva, in grado di spiegare, ancora oggi, la teoria del crollo inevitabile del capitalismo?

Qui anzitutto va detto che è quanto meno assurdo pensare che il capitalismo possa crollare semplicemente perché le sue leggi economiche lo portano inevitabilmente al crollo.

Marx si limitò a dimostrare che un sistema economico basato sulla proprietà privata prima o poi è destinato a crollare (com'erano crollati tutti i sistemi antagonistici precedenti al capitalismo), dunque per motivi oggettivi, intrinseci allo stesso sistema, ma non ha mai preteso di dire che tale crollo sarebbe avvenuto spontaneamente, né che i capitalisti non avrebbero fatto di tutto per evitarlo, per procrastinarlo ad libitum, facendone pagare tutte le conseguenze alle classi più deboli.

Nel Capitale viene anzi prospettata la soluzione della socializzazione della proprietà dei mezzi produttivi, proprio per evitare il crollo del capitalismo.

Una trasformazione pacifica del capitalismo in socialismo avrebbe fatto risparmiare - nella visione di Marx - lacrime e sangue a milioni di lavoratori.

Ma egli non s'era mai illuso sulla possibilità che una tale transizione avvenisse in maniera pacifica. La poneva come pura ipotesi, ben sapendo che i lavoratori devono prepararsi alla rivoluzione se i capitalisti oppongono resistenza alle necessità della transizione.

Il funzionamento della legge

Marx riuscì a dimostrare che il profitto di un'impresa che investe di più nel capitale costante e sfrutta meno lavoratori, è più piccolo in percentuale dell'impresa che investe di meno e sfrutta di più (ovviamente, in entrambi i casi, in rapporto al capitale complessivo impiegato).

Vediamo alcuni esempi tratti dal Manuale di economia politica di A. Pesenti (Editori Riuniti, Roma 1972, vol. I, p. 275). La legenda è semplice: c=capitale costante, v=capitale variabile, pl=plusvalore fissato al 100%, c/v= rapporto tra capitale costante e capitale variabile; l'ultimo dato è il saggio del profitto, espresso in percentuale. La formula del saggio di profitto è dunque la seguente: p=pl/(c+v). Il saggio del plusvalore è pl/v.

c=500 v=1.000 c/v=0,5 66,6%
c=1.000 v=1.200 c/v=0,8 54,5%
c=2.000 v=1.400 c/v=1,4 41,1%

La legge è tale perché si verifica continuamente un aumento più significativo della parte di capitale investita in mezzi di lavoro e di produzione, rispetto a quella spesa per la forza lavorativa (capitale variabile). Questo perché ogni singolo capitalista, essendo interessato ad appropriarsi di profitti sempre superiori alla media, tende ad apportare migliorie tecniche alla produzione, affinché aumenti la produttività in una medesima unità oraria o con meno operai a disposizione.

Questa attività ha come conseguenza l'innalzamento della composizione organica del capitale sociale e l'abbassamento del saggio generale del profitto. Come dimostra ad es. questa tabella presa dal testo di E. Mandel, Trattato marxista di economia, ed. ErreEmme, Roma 1997, vol. I, p. 277 (in riferimento alla situazione dell'industria statunitense):

anno

capitale
fisso
capitale
circolante
salari
stipendi
profitti tasso
profitto %

1889
1899
1909
1919

350
512
997
2.990
5.162
6.386
11.783
36.229
1.891
2.259
4.106
12.374
1.869
1.876
3.056
8.371
26,6
20,5
18,1
16,2

Va detto che il motivo di questa tendenza al ribasso del saggio di profitto dipende anche dal fatto che tra capitale e lavoro vi è un rapporto conflittuale, antagonistico, tale per cui quanto più è forte la resistenza del lavoratore allo sfruttamento, tanto più l'imprenditore è costretto a investire nei macchinari, aumentandone l'automazione, la produttività. L'imprenditore vuole sfruttare al meglio i propri macchinari, inducendo gli operai a produrre di più in meno tempo.

Non è quindi solo un problema di come affrontare la concorrenza intersettoriale, anche se indubbiamente questa concorrenza produce un problema non meno grave di quello della resistenza operaia allo sfruttamento. Infatti un aumento della produttività, ottenuto migliorando l'efficienza dei macchinari, non aumenta di per sé il saggio del profitto, proprio perché il prezzo delle merci, in un mercato concorrenziale, privo di monopoli, cala in ragione inversa alla loro quantità, nel senso che ogni singola merce contiene in sé meno lavoro umano. In assoluto il profitto lordo aumenta, in quanto si vendono più merci, ma in percentuale diminuisce.

Di qui le tendenze del capitale ad affluire verso i settori che producono sovraprofitti e quindi a defluire da quelli i cui profitti sono inferiori a una media astratta annuale, attorno a cui oscillano i tassi di profitto reali dei diversi settori industriali. Questa tendenza è molto evidente quando improvvisamente si vedono chiudere aziende di determinati settori che pur avevano bilanci in attivo.

L'ideale per un imprenditore sarebbe quello di esercitare un monopolio in un mercato aperto, dove non si ha bisogno di mettere il protezionismo per tutelare le proprie merci, ma dove non esiste neppure una valida concorrenza.

In una situazione del genere si investirebbe pochissimo nella ricerca e nella sperimentazione, cioè nel capitale costante, per cui i profitti sarebbero altissimi. I fatti però dimostrano che nel capitalismo le conquiste tecnico-scientifiche tendono a divulgarsi e, prima o poi, altri imprenditori le acquisiscono.

Gli imprenditori che, sotto il capitalismo, hanno bisogno di espandere la loro produzione, hanno vita facile finché non esistono validi concorrenti, ma appena questi si formano, non è più possibile gestire la produzione in mercati protetti dai prezzi delle merci rivali; si devono per forza fare ulteriori investimenti sui macchinari, posto che non si sia in grado d'intervenire sul costo del lavoro, avendo a che fare con una forte resistenza operaia (i tentativi padronali sono p.es. quelli d'impedire ai salari di crescere in maniera proporzionale all'aumento dei prezzi delle merci, oppure di diminuire gli oneri sociali).

In caso contrario gli imprenditori hanno di fronte a loro poche alternative: o vendono tutto, centralizzando i capitali in mano a poche banche o imprese finanziarie; o si associano ad altri capitalisti, concentrando quindi i capitali nelle mani di pochi grandi imprenditori (questi due fenomeni erano già visibili all'epoca di Marx); oppure, diremmo oggi, delocalizzando in regioni dove il costo del lavoro è molto basso; oppure trasformandosi in società finanziarie per praticare l'usura.

Nel periodo in cui Marx scriveva il Capitale le potenze europee risolsero il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto avviando una spaventosa ricerca di territori da colonizzare e in cui praticare l'esportazione dei capitali: praticamente dagli anni '70 del XIX secolo sino alla II guerra mondiale non si fece altro che suddividere il globo in zone di influenza, scatenando guerre catastrofiche.

Le colonie non sono state solo un mercato di sbocco per le merci capitalistiche o un luogo ove reperire materie prime a buon mercato o manodopera sottocosto, ma anche l'unica area in cui fosse possibile ampliare il capitale senza dover affrontare la concorrenza intrasettoriale.

Marx poté vedere questo fenomeno solo nella sua fase iniziale, ma lo vide bene Lenin, che lo analizzò nel suo testo sull'Imperialismo.

Le forme di difesa adottate dei capitalisti

Per frenare la caduta tendenziale del saggio di profitto gli imprenditori hanno adottato alcune misure, che si sono ripetute nel tempo:

  1. svalutazione del corso della moneta, quindi svalorizzazione di una parte del capitale investito;
  2. trasformazione di una parte del capitale in capitale fisso che non funge da agente diretto della produzione;
  3. sperpero improduttivo di una parte del capitale;
  4. creazione di nuovi rami produttivi in cui occorre più lavoro immediato o poco sviluppato rispetto al capitale;
  5. creazione di monopoli;
  6. defiscalizzazioni del profitto;
  7. riduzione della rendita fondiaria;
  8. distruzione del capitale tramite conflitti bellici, su scala sempre maggiore;
  9. accettazione di un minor tasso di sviluppo a fronte di un maggior volume del profitto lordo, in ragione della grandezza del capitale (Marx parla di "motivo di consolazione");
  10. ai danni dei lavoratori vi sono varie strategie: riduzione del salario o degli oneri sociali; intensificazione dello sfruttamento (p.es. utilizzo del lavoro nero); maggiore intensità dei ritmi di lavoro; allungamento della giornata lavorativa; totale flessibilità della manodopera; crescita della disoccupazione per tenere bassi i salari, ecc.

Alcuni imprenditori (p.es. quelli della Toyota) hanno cercato di automatizzare al massimo la produzione, riducendo al minimo la presenza degli operai. All'inizio hanno ovviamente ottenuto profitti altissimi, in quanto si è potuto risparmiare sui salari ed essere competitivi sul piano dei prezzi, ma in seguito, quando gli stessi processi sono stati acquisiti da altre aziende, anche meno sviluppate, il saggio del profitto è tendenzialmente diminuito, proprio perché è aumentata l’offerta dei beni e diminuito il loro prezzo.

D’altra parte, una volta che l’utilizzazione della nuova tecnica si è generalizzata e il saggio di profitto è diminuito, nessun singolo capitalista ha convenienza a ritornare alla vecchia tecnica produttiva ai prezzi prevalenti, perché essa comporterebbe costi più alti ed un profitto minore di quello medio. L’aspetto più significativo della legge di Marx è quindi quello di mostrare che l’interesse dei singoli capitalisti non coincide con quello collettivo di classe, cosicché il risultato di comportamenti razionali individuali finisce per essere dannoso per i capitalisti nel loro insieme.

Anche se non bisogna mai dimenticare che lo sfruttamento capitalistico è in realtà lo sfruttamento della classe operaia da parte dell'intera classe dei capitalisti, poiché ogni singolo capitalista si appropria di una parte del plusvalore complessivo, creato da tutta la classe degli operai salariati. Questo perché sotto il capitalismo si ha la trasformazione del valore nel prezzo di produzione.

Verifica storica della legge

In Italia il tasso di sviluppo più significativo del reddito nazionale, in termini reali e non monetari, s'è verificato negli anni 1958-62, che non a caso vengono definiti col termine di "boom economico".

Infatti, in tutti i paesi industrializzati, durante i 25 anni successivi alla fine della II guerra mondiale si è avuto un periodo di espansione economica generalizzata e costante.

Ma nel corso degli anni '70 questa crescita è stata frenata dalla crisi del dollaro (e del sistema monetario internazionale, che porterà alle decisioni di Bretton Woods, in cui dollaro e oro non saranno più interscambiabili) e dalla crisi petrolifera iniziata nel 1973 con la quadruplicazione del prezzo del barile.

Il massimo storico del prezzo del barile venne raggiunto nel 1980 (più di 40 $), poi è cominciato a calare. Ma nel 1987 è ripreso a salire e oggi è quasi il doppio del 1980.

La spiegazione borghese attuale

La caduta tendenziale del saggio di profitto viene vista dagli odierni economisti borghesi come un elemento oggettivo del sistema capitalistico, connesso a una certa dinamica ciclica, che è la seguente:

  1. nei periodi caratterizzati da disoccupazione i salari sono bassi e i profitti crescono. Le basse retribuzioni favoriscono gli investimenti, ma questa crescita dell'economia determina col tempo un aumento dell'occupazione;
  2. quando aumenta l'occupazione, aumentano anche i salari e questo fa contrarre i profitti, che cominciano a calare, sicché diminuiscono gli investimenti, crolla l'attività produttiva, si entra in recessione, aumenta la disoccupazione;
  3. di nuovo si torna al punto a.

Conclusioni

  1. Il capitalismo trae il meglio di sé dallo sfruttamento della manodopera nella sua fase iniziale, quando la concorrenza non è tanto quella tra capitalisti dello stesso ramo, ma quella tra capitalista e produttore diretto (contadino o artigiano che sia).
  2. Il capitalismo non può sussistere senza ampliare continuamente la sfera dei mercati o, in mancanza di questi, senza aumentare il tasso di sfruttamento della manodopera.
  3. In un mercato mondiale un capitalista con macchinari avanzati può essere battuto dalla concorrenza di un altro capitalista avente macchinari meno avanzati ma con possibilità di risparmiare sul costo del lavoro.
  4. Contro la tendenza al calo del saggio di profitto il capitalista coi macchinari più avanzati può affidarsi a qualunque soluzione, anche a quella bellica, in cui le distruzioni delle infrastrutture del proprio paese e/o del paese nemico possono servire, nel momento della ricostruzione, a far salire il saggio di profitto.
  5. Se si vuole restare in un mercato globale, i capitalisti tecnologicamente più avanzati sono costretti a soccombere nel confronto con quelli che dispongono di un minor costo del lavoro e di un apparato tecnologico quasi equivalente (si pensi, al momento, cosa significa questo nel rapporto tra Cina e India da una parte e Occidente dall'altra).
  6. Non ci si può difendere col protezionismo quando nello stesso tempo si pratica la delocalizzazione o si invoca la liberalizzazione dei mercati per collocare le proprie merci.
  7. Non si può pretendere che negli scambi monetari la valuta del paese più competitivo abbia un corso maggiore di quello effettivo.

Soluzioni politiche ed economiche

Come ci si difende da questa legge dal punto di vista del socialismo democratico? Supponiamo per un momento che gli operai di un'azienda ne diventino i padroni effettivi e che non esistano condizioni esterne che impediscono di continuare a far funzionare l'impresa.

Essi continuano a lavorare come prima, ma ora possono dividere i profitti in parte equa. Possono liberamente decidere di lavorare più di quanto sarebbe loro necessario per riprodursi e, se lo fanno, decidono altresì di ripartirsi equamente il plusvalore ottenuto.

Essi sanno di dover piazzare le loro merci nel solito mercato, dove sicuramente incontreranno delle imprese concorrenziali gestite da privati capitalisti. Inoltre essi sanno che per l'acquisto della materia prima non potranno più comportarsi come il precedente imprenditore, che sfruttava non solo i propri lavoratori ma anche quelli che non gli appartenevano direttamente. Ora questi operai dovranno adottare uno scambio equo, pagando per le materie prime un giusto prezzo.

A questo punto cosa succede? Se tutto viene pagato a un giusto prezzo (materie prime, salari, stipendi, trasporti...), come si potrà reggere la concorrenza di quelle imprese che ancora si basano sullo sfruttamento? Non riescono a farlo neppure le imprese private quando si confrontano con quelle gestite dalla mafia. Un'impresa gestita da operai dovrebbe essere protetta dallo Stato, il che è assurdo, poiché lo Stato è uno strumento della classe borghese.

E' dunque evidente che non basta appropriarsi dei mezzi produttivi. Le aziende capitalistiche infatti sono state create per realizzare profitti sui mercati e non per soddisfare esigenze vitali. E' la loro stessa struttura ad essere irrimediabilmente viziata.

Occorre quindi riconvertire le aziende verso la produzione di beni di prima necessità, in modo tale che il valore d'uso torni ad avere il suo antico primato sul valore di scambio, e che l'autoconsumo delle unità produttive su territori locali, geograficamente limitati, prevalga sul mercato, riducendo al massimo la dipendenza da quest'ultimo. Si può pensare di reimpostare persino il baratto negli scambi locali, conservando la moneta solo per gli scambi internazionali.

Se non si procede in questa direzione, le alternative al momento sono due, di cui una, la prima, già fallita:

  1. il socialismo burocratico di stato, dove le aziende appartengono allo Stato e tutti i lavoratori sono dipendenti statali, dove il plusvalore viene estorto dallo Stato, riconvertito parzialmente in servizi, dove i prezzi e le tariffe sono tenuti bassi, così come i salari e gli stipendi, dove non esiste un mercato col gioco della domanda e dell'offerta, dove tutto è pianificato dai ministeri statali e dove nei confronti del lavoro si ha un rapporto prevalentemente burocratico, per cui anche chi produce male o poco non subisce conseguenze significative, ecc.;
  2. il socialismo di mercato cinese, dove le imprese possono anche essere gestite privatamente, sfruttando la manodopera con criteri capitalistici. Lo Stato permette che si sviluppi il capitalismo entro determinati limiti, in quanto si riserva di requisire in qualunque momento ogni tipo di azienda. La dittatura politica del partito al governo è il prezzo che la società paga allo sviluppo del capitalismo, e questo sviluppo è il prezzo che la dittatura paga alla mancata democratizzazione dello Stato.

In attesa di trovare una soluzione convincente alla caduta tendenziale del saggio di profitto, è bene rendersi conto che un qualunque ragionamento di sinistra che parli di aumentare la ricerca e l'innovazione, o di aumentare il PIL, senza parlare contestualmente di socializzazione della proprietà, alla lunga nuoce agli interessi degli operai e di tutti i lavoratori.

I sindacati, i partiti di sinistra non devono fare discorsi per incentivare la competitività delle imprese, ma per dimostrare che nonostante questa competitività il sistema resta invivibile per i lavoratori.

E in ogni caso i sindacati dovrebbero mettere all'ordine del giorno l'idea che le ritenute fiscali devono essere calcolate non sull'intero imponibile, ma solo sull'eccedenza che supera il minimo per riprodursi. Questo soprattutto in considerazione del fatto che gli operai, col plusvalore estorto, già contribuiscono al benessere economico.

Bisogna insomma rimettere in discussione il modello di sviluppo. Di per sé il concetto di "sviluppo" non indica un miglioramento delle condizioni di vita. Non possono più essere dei parametri "quantitativi" (pil nazionale, pil pro-capite ecc.) a indicare il tasso di eguaglianza sociale e di democraticità di un paese.

cfr www.homolaicus.com/economia/pagineconomia/

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015