MARX: IL CAPITALE - Genesi della rendita fondiaria capitalistica

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


GENESI DELLA RENDITA FONDIARIA CAPITALISTICA

(Marx, Il Capitale, Ed. Newton Compton, Roma 1976, III libro, cap. 47)

Marx delinea estesamente il concetto di rendita feudale (cosa che peraltro aveva già fatto alle pp. 285-296 del I libro del Capitale): è pluslavoro non retribuito; rendita e plusvalore coincidono in quella parte di tempo che il contadino è costretto a impiegare per il proprietario terriero. Cioè fintantoché il contadino lavora per sé, coi mezzi e la terra che possiede, non c'è sfruttamento. L'eccedenza del prodotto ottenuto dal lavoro nel proprio campo, dipende dalla differenza del tempo impiegato per sé e il feudatario.

Ovviamente la rendita è servaggio. Il produttore non è libero, non lo è neppure quando le corvées si trasformano in obbligo tributario. Non lo è semplicemente perché il produttore non è "proprietario" della terra che lavora, ma solo "possessore". La terra gli viene concessa in usufrutto, sub conditione della prestazione gratuita di lavoro o di prodotti, e in tale concessione egli esercita la propria autonomia (sempre relativa), sino alla gestione di una sorta di industria domestica rurale.

Non c'è vera e propria divisione del lavoro nel mondo rurale, che possa portare allo sfruttamento del lavoro nel tempo che il produttore può riservare a se stesso, alla riproduzione di sé e della propria famiglia.

Marx si rende conto che questo modo di produzione è diverso da quello schiavistico di epoca romana o delle piantagioni americane a lui coeve: "lo schiavo lavora in condizioni di produzione che appartengono ad altri e che quindi non sono autonome"(p. 1057).

In Asia -prosegue Marx- il principale schiavista è lo stesso Stato, "il più alto proprietario terriero", per cui "rendita e imposte coincidono": "non vi è proprietà privata della terra, pur essendovi il possesso e l'uso sia privato che comune di essa"(ib.).

Nel feudalesimo la rendita è frutto di una coercizione extraeconomica (il rapporto di dipendenza personale) ed è limitata da vari fattori: "il produttore diretto deve possedere abbastanza forza lavorativa... il terreno che egli coltiva deve essere sufficientemente fertile"(p. 1059), altrimenti non potrebbe lavorare gratis su quello del feudatario.

In una situazione del genere (che prescinde da guerre, carestie e pestilenze), è abbastanza normale che il servo della gleba viva in condizioni di sicurezza economica. Il feudatario, infatti, non ha interesse a sfruttarne il lavoro oltre un certo limite, in quanto la rendita che ottiene gli è di regola sufficiente a condurre un'esistenza agiata.

Un indizio di progressiva emancipazione economica del produttore è dato dalla trasformazione della corvée in rendita in prodotti. Quando si è obbligati a cedere un certo quantitativo di prodotti, stabilito preventivamente, il contadino "svolge il pluslavoro sotto la propria responsabilità"(p. 1061) e non ha più bisogno d'essere sorvegliato.

Ovviamente tale mutamento conserva i caratteri tipici della rendita in lavoro, e cioè: "quasi assoluta autosufficienza acquisita dalla famiglia agricola"(p. 1063), "indipendenza dal mercato e dal movimento produttivo e storico della porzione della società estranea ad essa"(ib.); "condizioni sociali stazionarie"(ib.); "condizioni di stagnazione tanto nel processo di produzione quanto nei rapporti sociali corrispondenti ad esso, tramite la semplice continua riproduzione di se stessi"(p. 1060). Tutto ciò per Marx non costituisce un vantaggio, come a prima vista può sembrare, ma un grande limite.

"Per fortuna" -direbbe Marx- che la stagnazione viene compromessa quando i proprietari pretendono una rendita in prodotti che eccede i limiti naturali, come fanno p.es. i colonizzatori inglesi in India. Quando accade questo nelle colonie, è perché nella madrepatria s'è già verificata un'altra trasformazione della rendita, da quella naturale a quella monetaria.

Il mutamento progressivo della rendita in prodotti (che, dice Marx, non sostituisce mai completamente le corvées) in rendita in denaro è un segnale preciso della presenza invadente del mercato, in cui il denaro può essere speso e guadagnato. Ora non solo il contadino deve andare sul mercato per trasformare i suoi prodotti in merci contro denaro, al fine di pagare il tributo o il prezzo della rendita, ma anche il proprietario terriero, il latifondista, accede al mercato per spendere il denaro ottenuto dal contadino. "Il carattere di tutto il modo di produzione viene più o meno alterato"(p. 1064).

Finisce in sostanza il primato dell'autosufficienza alimentare, dell'autogestione del processo produttivo... e l'eccedenza viene vincolata ai meccanismi del mercato. Il prezzo della rendita è chiaro, ma non altrettanto il modo in cui si riuscirà a pagarlo, in quanto sul mercato le fluttuazioni dei prezzi delle merci dipendono dal gioco della domanda e dell'offerta.

La rendita in denaro dunque presuppone:

  1. "un notevole sviluppo del commercio, dell'industria cittadina, della produzione di merci in genere e quindi della circolazione monetaria"(p. 1065);
  2. "che il prodotto possegga un prezzo di mercato e che venga venduto più o meno al suo valore"(ib.);
  3. una trasformazione del possesso in proprietà di tutte quelle condizioni di lavoro estranee alla terra, come attrezzi agricoli, bestiame, cose mobili ecc.

Marx dice che questa trasformazione della rendita, quando si cercò d'introdurla in epoca romana, finì sempre coll'essere sostituita nuovamente dalla tradizionale rendita in prodotti. Anche in Francia prima della rivoluzione. Infatti, "la rendita monetaria deve provocare nel suo ulteriore sviluppo la trasformazione della terra in libera proprietà del contadino oppure deve generare la forma tipica del modo di produzione capitalistico, la rendita pagata al fittavolo capitalista"(p. 1066).

Il rapporto padrone-servo si trasforma da "personale" a "contrattuale". Dunque il contadino si deve trasformare o in fittavolo o in proprietario: in entrambi i casi egli dovrà servirsi di operai salariati, lavoratori agricoli a giornata. La terra può addirittura essere affittata a capitalisti di città, "fino ad allora rimasti estranei alla campagna"(p. 1067).

"Il fittavolo diventa il vero comandante di questi operai agricoli e il vero sfruttatore del loro pluslavoro, mentre il proprietario terriero non si mantiene in rapporto diretto... monetario e contrattuale che con tale fittavolo capitalista"(p. 1068). Il fittavolo sfrutta come un capitalista i salariati agricoli e quindi ricava dei profitti, dopodiché cede una quota prestabilita di canone al proprietario della terra, che la riceve come rendita, come parte del plusprofitto. "La cifra più o meno grande da lui consegnata è in media determinata, come limite, dal profitto medio che il capitale rende nelle sfere di produzione non agricole e dai prezzi di produzione non agricoli regolati da tale profitto medio"(ib.). Cioè in pratica si tratta di quel profitto medio e di quel prezzo di produzione da esso regolato che "sorgono nella sfera del commercio urbano e della manifattura"(p. 1069).

La rendita in denaro presuppone la divisione tra città e campagna. "Mentre nel Medioevo -dice Marx- la campagna sfrutta politicamente la città, laddove il feudalesimo non ha dovuto cedere il passo a uno straordinario sviluppo delle città, come accadde in Italia, la città dal canto suo, ovunque e universalmente, sfrutta da un punto di vista economico la campagna coi suoi prezzi di monopolio, il suo sistema fiscale, la sua organizzazione corporativa, la sua diretta frode commerciale e la sua usura"(ib.).

Marx non prende in esame le contestuali lotte politiche condotte dai contadini. La sua analisi economica non s'intreccia con quella politica, sociale e culturale, neppure in un caso così drammatico come il passaggio alla rendita in denaro, che indica, incontestabilmente, la metamorfosi di un'economia prevalentemente rurale in una prevalentemente mercantile, che le è in tutto opposta. Sembra che Marx qui voglia limitarsi a una sorta di "fenomenologia dell'economia" che ha più basi filosofiche che storiche. C'è un passo in cui egli afferma che la rendita, per trasformarsi in profitto, ha bisogno non solo del modo di produzione capitalistico, ma anche di "importare idee da paesi capitalistici"(p. 1073): questo aspetto però non lo approfondisce. Beninteso, non gli sfuggiva il fatto che nei paesi cattolici tendesse a predominare la rendita, mentre in quelli protestanti tendesse a predominare il profitto, ma si è sempre rifiutato di collegare, in un'analisi sistematica, gli aspetti economici a quelli religiosi.

La mezzadria viene esaminata come forma intermedia tra la rendita in prodotti naturali e la rendita monetaria; essa comunque fa parte, in generale, di una società votata all'accumulazione di capitali, ed è, nella fattispecie, in relazione alla debolezza del fittavolo, il quale ha bisogno dei capitali del proprietario (anche solo come beni strumentali: mezzi di lavoro, bestiame, sementi ecc.). Il risultato della lavorazione della terra viene ripartito secondo certe proporzioni.

Più interessante sono le pagine dedicate alla proprietà parcellare, in cui il contadino è del tutto autonomo, il capitalismo poco sviluppato, il capitale poco concentrato e con una netta prevalenza della campagna sulla città. Il contadino vende sul mercato solo l'eccedenza, in quanto lo standard produttivo è l'autoconsumo.

Questa forma di proprietà, che indubbiamente è la più significativa risposta ai limiti del servaggio e a tutte le forme di rendita feudale, e che costituisce un efficace muro di sbarramento contro le pretese del mercato, non viene analizzata da Marx in riferimento a contesti storici, politici, culturali; per lui è soltanto una variante delle altre forme di gestione della terra.

Marx sembra apprezzarne il lato autonomo del lavoro, che rende i contadini autosufficienti economicamente, ma poi li vede solo come persone "isolate" e quindi "deboli", incapaci di contrastare la forza del capitale, che avanza inesorabile. Infatti essi -dice Marx- si dissolveranno dopo che la grande industria avrà mandato in rovina l'industria domestica rurale (p. 1077); dopo l'esaurirsi delle capacità produttive dei terreni; dopo l'usurpazione delle terre comuni (boschi, pascoli...) da parte dei latifondisti; dopo l'affermarsi della concorrenza della produzione agricola su ampia scala, condotta con metodi di tipo capitalistico.

Marx si dilunga come non mai nell'elencare gli aspetti negativi di questa gestione autonoma della terra. "La proprietà parcellare esclude per sua stessa natura: lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro, le forme sociali di quest'ultimo, la concentrazione sociale dei capitali, l'allevamento del bestiame su larga scala e un'applicazione progressiva della scienza"(ib.).

Marx non vede una lotta di resistenza da parte di questa categoria di contadini, ma solo un limite economico rispetto alla forza del capitale. Questa proprietà viene rifiutata perché non abbastanza capitalistica. In realtà tutti i motivi addotti come pretesto per giustificarne il superamento, ivi inclusi quelli citati a p. 1078: "usura" e "sistema fiscale", non sono motivi endogeni a questa forma di proprietà ma esogeni. E' una proprietà limitata nel senso che il suo limite è la forza del capitale, che si sviluppa esternamente.

Marx rifiuta la proprietà parcellare attribuendole dei limiti che non le appartengono e che acquistano un senso solo se vengono rapportati alle pretese del capitale borghese. E non s'avvede che la proprietà capitalistica della terra si sviluppa appunto perché quella parcellare non viene difesa politicamente (e militarmente). Marx dà per scontata la dissoluzione della proprietà parcellare nell'ambito della società borghese, quando proprio questa proprietà avrebbe potuto ostacolare enormemente lo sviluppo della proprietà capitalistica.

E' molto strano che Marx non abbia pensato che tale proprietà avrebbe dovuto essere rivendicata politicamente, ovvero espropriata con una riforma agraria che spezzasse il latifondo e la grande proprietà, invece che essere acquistata economicamente, con capitali che ovviamente il contadino non poteva avere e per i quali rischiava di finire nelle mani degli usurai.

E' evidente che una terra parcellare formatasi non in seguito a lotte politiche antifeudali, ma in seguito a una transizione inevitabile verso il capitalismo, non faceva che impoverire i suoi acquirenti, se questi la finalizzavano unicamente all'autoconsumo.

L'opposizione unilaterale di Marx alla proprietà privata gli ha impedito di vedere come potesse essere regolamentata quantitativamente una determinata proprietà agricola rispetto ai bisogni riproduttivi effettivi di una famiglia o di gruppi di famiglie rurali. Marx vuole soltanto una proprietà sociale della terra; tuttavia una proprietà del genere presume il recupero di molte tradizioni del precapitalismo.

In realtà bisogna porre unicamente il principio secondo cui nessuno può sfruttare arbitrariamente il lavoro altrui. Che poi un lavoratore preferisca una gestione sociale della terra e non quella individuale o familiare, non deve essere questo un motivo per impedirgli di avere una proprietà privata.

L'importante è di permettere ai lavoratori di esistere nella sicurezza di una proprietà, sociale o individuale non importa. E' assurdo sostenere che una conduzione "razionale" delle colture agricole sia possibile solo nella proprietà "sociale" della terra. Marx vuole imporre il collettivismo sull'individualità nella gestione della terra.

E' molto sconsolante la conclusione di Marx: "Se la piccola proprietà terriera genera una classe di barbari [sic!] che per metà sono estranei alla società [qui sottintesa quella borghese], in cui sono mischiati tutta la rozzezza delle forme primitive della società [!] e tutti i dolori e la misère dei paesi civili, la grande proprietà terriera corrompe la forza lavorativa nell'ultima sfera in cui essa riversa le proprie forze naturali e in cui si presenta come fondo di riserva per il rinnovamento della linfa vitale delle nazioni, nella stessa campagna"(p. 1085).

Per Marx insomma dalla campagna, sia essa di Scilla o di Cariddi, non può venir nulla di buono, almeno finché non sarà il proletariato industriale a dettarne le nuove regole di gestione.

1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 26/04/2015