Spirito delle Leggi, Montesquieu

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Premessa storico-politica alla comprensione dello Spirito delle Leggi

I - II - III

Aristocrazia e Nobiltà di toga

Intorno al 1750 la restaurazione aristocratica ha bruciato ogni sua possibilità. Le dottrine della nobiltà francese si sono ormai rivelate strumenti inefficaci, visioni regressive e utopiche della realtà sociale che non hanno l’effetto di aggregare un ceto sociale e di imporgli comportamenti univoci. Inoltre, sotto la spinta della favorevole congiuntura, un grande fermento sociale si manifesta nel regno e i ceti borghesi si rafforzano; la grande stagione dei Lumi è quasi al suo culmine e un nuovo sistema di valori fronteggia sia le dottrine della reazione monarchica, sia il tradizionale assolutismo monarchico.

Dopo l’esperimento della Reggenza il potere monarchico ha ripreso tutto il suo spazio e lo Stato burocratico di commessi prevale in modo netto sullo Stato di uffici e sugli ideali di una diretta partecipazione al potere dei ceti aristocratici. Insomma il dispotismo, regio o dei ministri che sia, trionfa. La linea di resistenza delle forze conservatrici passa dalle mani della nobiltà di corte e di spada a quelle del Parlamento e della sua vasta clientela. La discussione sul ruolo politico del parlamento nella Francia di antico regime è stata riaperta da J. Egret che ha rivendicato alla nobiltà di toga un positivo ruolo moderatore a difesa delle libertà costituzionali contro le prevaricazioni dell’autocrazia monarchica.

Questa tesi, che ha un valido fondamento, è però sospinta sino a conclusioni estreme e non del tutto condivisibili. In effetti il ruolo del Parlamento (sono in numero di 12 nei secoli che ci interessano) e dei parlamentari (all’incirca 2000 famiglie) è sicuramente un ruolo storico di mediazione tra l’istituto monarchico e le varie forze sociali che si agitano nella Francia di Antico regime, ma l’istituto parlamentare è a sua volta frutto della storia, e di un periodo particolare della storia di Francia (secoli XVI - XVII).

Natura e funzioni del Parlamento

Una prima definizione può essere la seguente: i Parlamenti sono Corti sovrane (autonome) di giustizia istituite per rendere giustizia in ultima istanza a nome del Re. Ma va subito avvertito che questa definizione ha il torto di escludere una parte considerevole dei poteri (o delle pretese) parlamentari, in particolare i poteri politici e amministrativi, e di dare un’idea insufficiente dell’enorme importanza che l’ordine parlamentare aveva assunto nella Francia di Antico regime. I dodici parlamenti del Regno costituiscono infatti la spina dorsale del sistema istituzionale della monarchia nei secoli XVI - XVIII e la loro autorità diviene sempre più universale e illimitata a mano a mano che si avvicina la Rivoluzione. L’origine dell’istituto è tanto antica (XIII secolo) che permette agli appartenenti al corpo di ritenersi addirittura autentici eredi delle più antiche assemblee feudali e rappresentanti di una mitica sovranità popolare precedente all’esistenza stessa dell’istituto monarchico.

Di fatto le origini dei Parlamenti coincidono con la creazione di un corpo di magistrati delegato dal monarca a rendere giustizia (civile, penale e amministrativa); ma con l’accrescersi delle funzioni dello stato, con l’ingigantirsi delle competenze della Monarchia, con l’espansione territoriale stessa del Regno, il complesso di funzioni che questo ceto di Magistrati assume e si conquista diviene imponente. Inoltre con il sistema della venalità degli uffici (XVI secolo) il Parlamento diviene il luogo privilegiato di accesso delle borghesie al prestigio sociale e al potere politico. Gli incarichi acquistati in seno al Parlamento danno titolo di nobiltà, possono essere gelosamente custoditi e trasmessi per via ereditaria in seno a una stessa famiglia. Si crea così, nel corpo sociale francese, tra il XVI e il XVII secolo, una nobiltà di secondo rango, una nobiltà di ufficio, direttamente collegata al potere della monarchia assoluta da un lato e ai ceti borghesi, al terzo stato, dall’altro: la nobiltà di toga.

Originari del Terzo stato i parlamentari non perdono i contatti con i ceti borghesi, vivono a fianco della nobiltà, ma il loro diritto di pieno accesso al Primo ordine dello Stato è sempre discusso e respinto formalmente dalla grande aristocrazia di corte e di spada, che non riconosce un suo pari nell’ordine della nobiltà di toga. Il ruolo di questo gruppo è dunque intermedio e lo spazio politico che esso occupa è quello del naturale mediatore tra Monarca, aristocrazia e Terzo stato. Ne consegue una mentalità, una ideologia e una vocazione politica del tutto particolare. Infine i Magistrati dei Parlamenti si arrogano formalmente il diritto di sindacare l’autorità del Monarca, possono resisterle opponendo alle decisioni regie il diritto di rimostranza e cioè il diritto di sindacare nei contenuti la legittimità delle ordinanze del Consiglio regio sino a sospendere l’applicazione delle leggi e dei decreti chiedendone la revisione o la cassazione.

Giuristi sottili e ostinati, educati all’arte del cavillo e allo spirito di fronda, consapevoli di tutto il potere che la magistratura può esercitare in un sistema giuridico in cui non esiste diritto scritto, i parlamentari occupano un luogo privilegiato nel dibattito politico. Tutori delle tradizioni e delle consuetudini nazionali e del sistema di patti stipulati nel tempo tra la monarchia e i corpi della nazione (popoli, etnie, città, corporazioni, regioni) essi rivendicano un reale potere che deriverebbe loro dal popolo contro il Monarca e dal Monarca contro il popolo, si ritengono infine i tutori della costituzione e delle leggi fondamentali (non scritte) dell’istituzione monarchica, i garanti del patto tra i vari gruppi sociali, intendono infine assorbire le competenze e le funzioni del Consiglio regio e si definiscono i naturali consiglieri del trono.

Il ruolo politico

Numericamente il ceto parlamentare è esiguo (poche migliaia di unità), ma la sua cultura, la sua centralità nel tessuto sociale e istituzionale del regni gli garantisce un’ampia rete di alleanze (tutto il ceto forense e le professioni liberali, le borghesie cittadine, l’insieme delle corporazioni di arti e mestieri, talune fasce della popolazione contadina) e, in forza della sua abile strategia, nel corso del Sei e Settecento, occupa spazi di competenze e di manovra sempre crescenti.

Polizia, legislazione, finanze, assistenza pubblica, istruzione, organizzazione delle reggenze, cassazione dei testamenti regi, disciplina ecclesiastica, problemi religiosi, rientrano progressivamente nella sfera di competenza del Parlamento. Si giunge persino ad affermare che i Parlamenti sono gli strumenti della divinità per rendere le leggi giuste e utili allo Stato; che essi rappresentano lo stato, parlano in nome del popolo, ne sono gli angeli tutelari, gli economi e gli amministratori dei loro beni! Quanto si tratti di qualche cosa per la quale il popolo ha interesse scrivono i magistrati non è nel consiglio del Re che lo si può affrontare. Il Re non può contrattare con i suoi popoli se non in seno al Parlamento il quale, antico quanto la corona e sorto insieme allo Stato, è la rappresentanza dell’intero corpo della Monarchia.

Cosicché, estremizzando, si giunge a proclamare che il Consiglio del Re, sorta di giurisdizione istituita in spregio alle leggi fondamentali del Regno, non ha alcun carattere costituzionale e compie un’usurpazione manifesta quando cassa o inficia le decisioni assunte dal Parlamento. Vi è quanto basta per aver intuito l’orizzonte e il pensiero politico di questo gruppo sociale che alla monarchia assoluta deve tutto e che può sopravvivere solo resistendole.

La nobiltà di toga in Francia si regge su una ideologia intrisa del tradizionale contrattualismo medievale, sull’equilibrio di forze proprio di una società pluralistica organizzata gerarchicamente in ordini e corporazioni. Solo Luigi XIV, con la sua violenta autocrazia, riuscì a spezzare e ridurre al silenzio la casta parlamentare che tanta parte aveva avuto nello sconvolgimento frondista. Privati del diritto di rimostranza e umiliati nelle loro pretese e nelle loro funzioni i Parlamenti tacquero per più di un trentennio (1680-1715); ma alla morte di Re Sole la loro violenza politica riprese. Riprese insomma quella battaglia di retroguardia (che si concluderà con la rivolta del 1787-1789) condotta senza tregue per mantenere immutato l’assetto sociale di Antico regime in un tempo in cui esso era condannato al mutamento.

Montesquieu affida alle Corti sovrane (i 12 Parlamenti del Regno) e alla magistratura il deposito sacro delle leggi fondamentali, il potere esclusivo di interpretarle e quindi di applicarle, al monarca affida il potere condizionato di legiferare, al governo quello di eseguire, affida alla nobiltà il primo rango sociale che nella monarchia le spetta e la fa tutrice del patrimonio morale dell’intero sistema (che è il senso dell’onore), dà infine all’intero corpo sociale un ordine e una gerarchia che tutto e tutti devono garantire.
Montesquieu riconquista a favore della Nobiltà posizioni di notevole vantaggio perdute nel corso di un lento ripiegamento storico, l’ordine sociale infatti non può essere garantito che dal permanere stesso della Nobiltà quale contrappeso al popolo da un lato e al monarca dall’altro.
Con ciò egli fornisce un’arma potente alla resistenza conservatrice dei parlamenti, conferisce un ruolo, seppure ridotto, alla nobiltà, demolisce la concentrazione dei poteri della monarchia assoluta, soddisfa l’aspirazione alla crescita sociale del Terzo stato per il quale la mobilità sociale si realizza attraverso lo snodo della venalità degli uffici e il passaggio obbligato attraverso i ranghi della magistrature.

Lo Spirito delle Leggi

Lo spirito delle leggi, pubblicato anonimo a Ginevra nel 1748, viene scritto in uno stile chiarissimo, secco e mordente, volutamente epigrammatico. Si tratta di due volumi, trentuno libri, un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico, tant'è ch'egli viene considerato il fondatore della scienza della politica borghese. E' una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento. Montesquieu vi raffronta le leggi e le istituzioni di molti popoli del mondo, dimostrandone la relatività e la dipendenza dalle condizioni economiche, dal clima e dalla posizione geografica. La vita dei popoli non deve perciò modellarsi sulle leggi, ma le leggi devono plasmarsi su di essa.

La grande novità è costituita dal metodo: il sociale, meglio forse sarebbe dire il politico, è indagabile e conoscibile scientificamente perché retto da leggi proprie che, come quelle della natura, regolano i sistemi.

Una filosofia della storia. Montesquieu cercò di dimostrare come, sotto la diversità apparentemente arbitraria degli eventi, la storia abbia un ordine e manifesti l'azione di leggi costanti. Le istituzioni e le leggi dei vari popoli non costituiscono qualcosa di casuale o accidentale, ma sono strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, ecc. Al pari di ogni essere vivente anche gli uomini, e quindi le società, sono sottoposte a regole fondamentali che scaturiscono dall'intreccio stesso delle cose.

Queste regole non debbono considerarsi assolute, cioè indipendenti dallo spazio e dal tempo; esse al contrario, variano al variare delle situazioni; come i vari tipi di governo e delle diverse specie di società. Ma, posta una società di un determinato tipo, sono con ciò stesso dati i principi ai quali essa non può derogare pena la sua rovina.

Conciliare le leggi del tempo con il moto delle passioni è il compito vero del legislatore, perché proprio queste passioni, dice Montesquieu, si raccolgono, si sedimentano, assumono forza trainante, invadono il collettivo e ne determinano l'azione, ne sono l'esprit. "In tutte le società che non sono che un'unità dello spirito si forma un carattere comune. Quest'anima universale assume un modo di pensare che è l'effetto di una catena di cause infinite che si moltiplicano e si combinano di secolo in secolo. quando questo carattere si è dato ed è stato ricevuto, è lui solo che governa e tutto ciò che i sovrani, i magistrati, i popoli possono fare e immaginare, per quanto paia urtare questo carattere, o adeguarvisi, vi si relazionano sempre ed esso domina fino alla totale distruzione".

Forme di governo. Montesquieu nel lungo capitolo XXVIII, l'ultimo del libro diciannovesimo, analizza i generi di poteri, e traccia la costituzione fondamentale di un governo. I tipi di governo degli uomini sono sostanzialmente tre: la repubblica, la monarchia e il dispotismo.

Ciascuno di questi tre tipi ha propri principi e proprie regole da non confondersi tra loro. Il principio che deve informare di sé la repubblica è la virtù, cioè l'amor di patria e dell'uguaglianza; il principio della monarchia è l'onore; il principio del dispotismo, il terrore. "Tali sono i principi dei tre governi; ciò non significa che in una certa repubblica si sia virtuosi, ma che si deve esserlo. Ciò non prova neppure che in una certa monarchia si tenga in conto l'onore e che in uno stato dispotico particolare domini il timore, ma solo che bisognerebbe che così fosse, senza di che il governo sarà imperfetto".

La forma di governo non può prescindere dalle condizioni variabili da cui dipende lo spirito del popolo. E' infatti necessaria la massima integrazione tra l'identità atavica del popolo e la sua qualità caratteristica da una parte, e dall'altra la forma di governo e le leggi che da essa derivano. Ciò in quanto non è possibile, secondo Montesquieu, cancellare o correggere questo spirito che il popolo ha acquisito nel corso di vicissitudini secolari: tale forma mentis collettiva arriverà a condizionare la condotta dei magistrati così come quella dei cittadini. Se uno Stato vuole conservarsi, occorre che tenga conto dello spirito del popolo che lo abita e ad esso si adegui. Montesquieu vede lo Stato come un organismo che tende alla propria autoconservazione, nel quale le leggi riescono a mediare tra le diverse tendenze individuali in vista del perseguimento di un obiettivo comune.

Come non esistono leggi universalmente valide al di là degli specifici contesti applicativi, così non esistono fini ai quali uno Stato debba mirare, sia in riferimento alla cittadinanza, sia per quanto riguarda obiettivi per i quali uno Stato entri in conflitto con altri: unico oggetto degli sforzi della macchina statale deve essere l'autoconservazione, mentre altri fini possono esistere complementarmente a questo (la conquista di un impero, il commercio, la libertà individuale, ecc.), ma non necessariamente sono presenti né restano invariati nel corso dei secoli.

Se le leggi e le forme di governo hanno valore solamente relativo, lo Stato, inteso come aggregazione politica in generale, astraendo cioè dalla sua forma specifica, possiede una sua utilità intrinseca nella misura in cui l'uomo, essere limitato e portato per natura ad errare, trova in esso un senso per la propria esistenza e attività. Mentre l'individuo isolato non persegue alcun fine significativo, lo Stato, aggregazione di molteplici individui, dà forma e contenuto alle aspirazioni dell'uomo.

Il governo repubblicano è quello in cui il popolo, nel suo complesso o soltanto parte di esso, detiene il potere sovrano; il monarchico quello in cui uno solo governa, ma attraverso leggi fisse e stabilite; mentre nel governo dispotico un solo individuo, senza leggi né regole, trascina tutto secondo la sua volontà o i suoi capricci. Quest'ultimo governo non retto dalle leggi ma dalla forza e dall'arbitrio illimitato di un singolo, è considerato da Montesquieu un ordinamento minato da una permanente contraddizione: esso dovrebbe garantire la sicurezza e la pace dei sudditi a prezzo della loro libertà, ma la tranquillità e la sicurezza sono incompatibili con il terrore, che è il principio su cui si fonda il suo potere.

La repubblica (democratica o aristocratica) è la forma di governo in cui il popolo è al tempo stesso monarca e suddito. L'essenza di questo governo è che il popolo fa le leggi e elegge i magistrati, detenendo sia la sovranità legislativa che quella esecutiva. (qui Montesquieu guarda alle repubbliche del mondo antico, entità politiche di limitate dimensioni territoriali, che consentivano a ogni cittadino di essere informato di tutte le questioni che vi si dibattevano. Ma presuppongono altresì la totale devozione del singolo agli interessi della comunità. Mancando queste due fondamentali condizioni le repubbliche decadono e si trasformano in tirannie.

La forma che sta in mezzo è la monarchia regolata o costituzionale, in cui egli vede contemperate le caratteristiche positive sia del regime monarchico assoluto che di quello repubblicano. L'esempio di questa forma di governo a "costituzione mista" è rappresentato dall'Inghilterra, il cui ordinamento Montesquieu considera come la più alta espressione di libertà.

"Può dirsi libera -dice Montesquieu- solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui confidato. L'unica garanzia contro tale abuso è che "il potere arresti il potere", cioè la divisione dei poteri: il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario (i tre poteri fondamentali) debbono essere affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all'altro di esorbitare dai suoi limiti convertendosi in abuso dispotico. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché annullerebbe quella "bilancia dei poteri" che costituisce l'unica salvaguardia o "garanzia" costituzionale in cui risiede la libertà effettiva. Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica".

Proprio in Inghilterra era già stata formulata, da Locke nei suoi Trattati sul governo, una teoria della divisione dei poteri, limitatamente ai primi due poteri (per Locke il terzo potere non era quello giudiziario, ma quello federativo, che dipende dal potere esecutivo): teoria, questa, che verrà perfezionata successivamente da Henry Saint-John Bolingbroke (1678-1751), con il quale Montesquieu venne in contatto nel suo viaggio in Inghilterra.

Una sottolineatura. Per Montesquieu il dispotismo non è una pura e semplice degenerazione del tradizionale potere monarchico dei re di Francia; è una forma (meglio dire un sistema) di governo a sé, storicamente esistita ed esistente in particolari assetti storico-ambientali là ove vi siano le leggi che ne permettono l’esistenza.

Per quanto riguarda la Francia, l’unica forma di governo possibile e reale è, secondo Montesquieu, la monarchia. Dimensione del territorio, clima, strutture sociali, leggi morali dominanti e cultura nel suo significato più vasto, forma e principio, tutto insomma fa sì che la Francia sia per natura delle sue leggi una monarchia. Questa monarchia, proprio perché è un sistema perfetto e scientificamente conoscibile, deve rispettare le sue leggi pena l’inesistenza stessa, non già la semplice degenerazione.
Deve essere dunque una monarchia temperata da una complessa architettura istituzionale la quale fornisce, più che un freno all’autorità del monarca, una intermediazione di autorità.

Teoria della separazione dei poteri. Viene trattata nel libro XI. Partendo dalla considerazione che "il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente", Montesquieu analizza i tre generi di poteri che vi sono in ogni Stato: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere giudiziario di quelle che dipendono dal diritto civile. Da notare che la divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu, non è pura, in quanto in essa non c'è una netta distinzione tra esecutivo, giudiziario e legislativo, essendo ammessa la possibilità di fondere la carica giudiziaria con quella legislativa.

"Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, poiché si può temere che lo stesso monarca, o lo stesso senato, facciano leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e dall'esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati".

La democrazia delegata. Premessa fondamentale della teoria della separazione dei poteri è la democrazia delegata. "Poiché, in uno Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve governarsi da se medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo. Ma siccome ciò è impossibile nei grandi Stati, e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto quello che non può fare da sé. Si conoscono molto meglio i bisogni della propria città che quelli delle altre città, e si giudica meglio la capacità dei propri vicini che quella degli altri compatrioti. Non bisogna dunque, che i membri del corpo legislativo siano tratti in generale dal corpo della nazione, ma conviene che in ogni luogo principale gli abitanti si scelgano un rappresentante. Il grande vantaggio dei rappresentanti è che sono capaci di discutere gli affari. Il popolo non vi è per nulla adatto, il che costituisce uno dei grandi inconvenienti della democrazia".

Il potere legislativo. In forza del potere legislativo, il principe, o il magistrato, fa le leggi per un certo tempo o per sempre, e corregge o abroga quelle che sono già state fatte.

"Il potere legislativo verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo, ciascuno dei quali avrà le proprie assemblee e le proprie deliberazioni a parte, e vedute e interessi distinti. Dei tre poteri, quello giudiziario è in qualche senso nullo. Non ne restano che due; e siccome hanno bisogno di un potere regolatore per temperarli, la parte del corpo legislativo composta di nobili è adattissima a produrre questo effetto". Montesquieu dimostra di preferire il ceto aristocratico, che è considerato come depositario del principio della moderazione, che garantisce lo stato liberale. Questo principio distingue l'aristocrazia dalla democrazia, caratterizzata invece dal principio dall'uguaglianza, sebbene entrambe - aristocrazia e democrazia - siano forme di governo legittimo e repubblicano.

"Se il corpo legislativo fosse riunito in permanenza, potrebbe capitare che non si facesse che sostituire nuovi deputati a quelli che muoiono; e in questo caso, una volta che il corpo legislativo fosse corrotto, il male sarebbe senza rimedio. Quando diversi corpi legislativi si susseguono gli uni agli altri, il popolo, che ha cattiva opinione del corpo legislativo attuale, trasferisce, con ragione, le proprie speranze su quello che succederà. Ma se si trattasse sempre dello stesso corpo, il popolo, una volta vistolo corrotto, non spererebbe più niente dalle sue leggi, s'infurierebbe o cadrebbe nell'apatia".

Il potere esecutivo. In forza del potere esecutivo, il sovrano fa la pace o la guerra, invia o riceve ambasciate, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. "Il potere esecutivo deve essere nelle mani d'un monarca perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d'una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi; mentre ciò che dipende dal potere legislativo è spesso ordinato meglio da parecchi anziché da uno solo".

"Il potere esecutivo deve prender parte alla legislazione con la sua facoltà d'impedire di spogliarsi delle sue prerogative. Ma se il potere legislativo prende parte all'esecuzione, il potere esecutivo sarà ugualmente perduto. Se il monarca prendesse parte alla legislazione con la facoltà di statuire, non vi sarebbe più libertà. Ma siccome è necessario che abbia parte nella legislazione per difendersi, bisogna che vi partecipi con la sua facoltà d'impedire. Il corpo legislativo essendo composto di due parti, l'una terrà legata l'altra con la mutua facoltà d'impedire. Tutte e due saranno vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello legislativo".

Il potere giudiziario. In forza del potere giudiziario, il magistrato punisce i delitti o giudica le controversie dei privati. "Il potere giudiziario non dev'essere affidato a un senato permanente, ma dev'essere esercitato da persone tratte dal grosso del popolo, in dati tempi dell'anno, nella maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto quanto lo richiede la necessità. In tal modo il potere giudiziario, così terribile fra gli uomini, non essendo legato né a un certo stato né a una certa professione, diventa, per così dire, invisibile e nullo. Non si hanno continuamente dei giudici davanti agli occhi, e si teme la magistratura e non i magistrati. Bisogna inoltre che, nelle accuse gravi, il colpevole, d'accordo con le leggi, si scelga i giudici; o per lo meno che possa rifiutarne un numero tale che quelli che rimangono siano reputati essere di sua scelta. Gli altri due poteri potrebbero esser conferiti piuttosto a magistrati o ad organismi permanenti, poiché non vengono esercitati nei riguardi di alcun privato: non essendo, l'uno, che la volontà generale dello Stato, e l'altro che l'esecuzione di questa volontà. Ma se i tribunali non devono essere fissi, i giudizi devono esserlo a un punto tale da costituire sempre un preciso testo di legge. Se fossero una opinione particolare del giudice, si vivrebbe nella società senza conoscere esattamente gli impegni che vi si contraggono".

Libertà politica. In una società dove ci sono delle leggi, la libertà può consistere soltanto nel poter fare ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere. "La libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono.... La democrazia e l'aristocrazia non sono Stati liberi per loro natura. La libertà politica non si trova che nei governi moderati. Tuttavia non sempre è negli Stati moderati; vi è soltanto quando non si abusa del potere; ma è una esperienza eterna che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad abusarne... Perfino la virtù ha bisogno di limiti. Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere".

Montesquieu sostiene che solamente il governo moderato garantisce la libertà politica, cioè la possibilità di fare tutto ciò che non è proibito dalla legge. In questo senso Montesquieu ha una concezione negativa della libertà; infatti, quando sostiene che la libertà è la possibilità di fare tutto ciò che non lede i diritti altrui e che non si oppone alle leggi, pone l'accento su ciò che essa non deve ostacolare. Da questa definizione derivano tutti gli stati liberali.

La libertà è garantita delle leggi civili e da quelle che istituiscono il passaggio dallo stato di natura a quello civile. Questo passaggio avviene per garantire i diritti fondamentali di proprietà, posseduti dall'uomo in quanto tale; il modello di libertà politica di Montesquieu presuppone dunque quello di proprietà. Secondo Montesquieu, il vantaggio di un popolo libero è la sicurezza di non vedere i propri beni e la propria vita in mano ad un singolo. Per lui le leggi sono un "male" inevitabile, dovuto alla necessità di regolare il comportamento degli individui; gli individui però non devono essere prigionieri dello Stato.

"Siccome tutte le cose umane hanno una fine, lo Stato di cui parliamo perderà la sua libertà, perirà. Roma, Sparta e Cartagine sono pur perite. Perirà quando il potere legislativo sarà più corrotto di quello esecutivo".

Il fatto che la libertà stia nell'armonia e nell'ordine delle cose che si autoconservano porta ovviamente a credere che lo Spirito delle Leggi sia stato scritto per migliorare le forme dello status quo conservandolo nella sostanza. La stessa divisione dei poteri non è che un servizio reso all'unità del potere costituito, l'antidoto a un mutamento radicale che evidentemente Montesquieu sentiva come inevitabile. La moderazione del potere, di cui egli si faceva paladino, è la missione dell'assolutismo di perpetuare se stesso attraverso la procedura di scambio tra concessione del privilegio e raccolta del consenso. "Per formare un governo moderato -dice Montesquieu- bisogna combinare i poteri, regolarli, farli agire, dare, per così dire, un contrappeso a uno per metterlo in grado di resistere a un altro". Più che di poteri però si tratta di "forze", poiché il concetto di "potere" (quello p.es. del Terzo Stato) è proprio dei rivoluzionari, e più che di "separazione dei poteri" bisognerebbe parlare della loro "interdipendenza necessaria" per vincere le trasformazioni alle quali fatalmente conducono la socializzazione della sovranità, la rinuncia al divino e la centralità del sociale.

Diritto di voto. "Tutti i cittadini, nei vari distretti, devono avere il diritto di dare il loro voto per scegliere il rappresentante, eccetto quelli che sono in uno stato di inferiorità tale da esser reputati privi di volontà propria. La maggior parte delle antiche repubbliche aveva un grave difetto: il popolo, cioè, deteneva il diritto di prendervi delle risoluzioni attive, che comportano una certa esecuzione, cosa di cui è completamente incapace. Esso non deve entrare nel governo che per scegliere i propri rappresentanti, il che è pienamente alla sua portata. Infatti, se poche sono le persone che conoscono l'esatto grado di capacità degli uomini, ciascuno tuttavia è in grado di sapere, in generale, se colui che sceglie è più illuminato della maggior parte degli altri". Montesquieu però negava il diritto di voto a chi non fosse proprietario o in una situazione non assimilabile a quella di proprietario, dotato di averi.

L'Assemblea Nazionale Costituente, il 29 ottobre 1789, quando fissò le norme per i cittadini che intendevano farsi eleggere a cariche politiche, si ispirò alle dottrine del Montesquieu. Il diritto di voto fu riservato ai soli cittadini attivi, cioè solo i più ricchi potevano accedere alle cariche pubbliche e quindi dirigere la vita politica ed economica del Paese. Su 25 milioni di abitanti che aveva la Francia, risultarono potenzialmente eleggibili solo 50.000.

Concezione della legge. Montesquieu definisce la legge come "il rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose", e ritiene che ogni essere ha la sua legge, quindi anche l'uomo. Ma le leggi alle quali l'uomo obbedisce nella sua storia non hanno nulla di necessitante. L'ordine della storia non è mai un fatto, né mai un semplice ideale superiore ed estraneo ai fatti storici: è la legge di tali fatti, la loro normatività, il dover essere a cui essi possono più o meno avvicinarsi e adeguarsi.

Gli uomini producono le loro leggi, vivono in rapporto con altre che a loro preesistono: queste regole sono "tra loro in relazione e con la loro origine, con lo scopo che si prefigge il legislatore, con l'ordine naturale delle cose per le quali sono state istituite. Accade allora che quell'impasto di relazioni di potere tra gli uomini (o tra gli uomini e il potere) che il tempo lavora e che sfuggono alla volontà individuale anche se la muovono, e che chiamiamo costumi, tradizioni, comportamenti collettivi, credenze e miti di una certa società, sono le leggi delle leggi, lo "spirito" che occorre penetrare per coniugare i mutevoli rapporti tra tempo e potere.

E poiché le leggi sono rapporti costanti, accade anche nel sociale che "ogni diversità è uniformità, ogni mutamento è continuità. L'uomo, "questo essere flessibile che si piega nella società ai pensieri e alle impressioni degli altri», è dunque il prodotto mutevole dei costumi e dello "spirito" delle leggi che lo formano e lo modificano". "Molte cose governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime di governo, gli esempi dell'antichità, i costumi, le usanze; da ciò consegue uno spirito generale che ne è il risultato. A misura che in ogni nazione una di queste cause agisce con maggiore forza, le altre la cedono in proporzione".

Il compito del sapere è dunque ricercare le condizioni di equilibrio tra i molteplici campi magnetici che le relazioni tra gli uomini istituiscono e produrre leggi che, rispettando lo "spirito generale", e cioè il comune sentire, assicurino il durare degli Stati evitando ogni collisione con l'ordine del tempo.

La ricerca di Montesquieu è diretta a mostrare come ogni tipo di governo si realizzi e si articoli in un insieme di leggi specifiche riguardanti i più diversi aspetti dell'attività umana e costituenti la struttura del governo stesso. Queste leggi riguardano l'educazione, l'amministrazione della giustizia, il lusso, il matrimonio e insomma l'intero costume civile. Dall'altro lato ogni tipo di governo si corrompe quando viene meno al suo principio, ed una volta corrotto, le migliori leggi divengono cattive e si rivoltano contro lo Stato stesso. Così gli eventi della storia, il sorgere e il decadere delle nazioni, non sono frutti del caso o dell'arbitrio, ma possono essere intesi nelle loro cause, che sono le leggi o i principi della storia stessa; e dall'altro canto non hanno alcuna necessità fatale e conservano quel carattere problematico in cui si riflette la libertà del comportamento umano.

Non può esistere su queste premesse alcun criterio pratico di valutazione della legislazione di uno Stato al di fuori della semplice constatazione della sua prosperità o del suo declino. Il valore delle leggi non è dunque assoluto: una legge è buona o cattiva a seconda del suo grado di adeguatezza ai cittadini per i quali essa è vincolante (o ha la pretesa di esserlo). Lo spirito umano è per Montesquieu incapace di definire quei valori assoluti ai quali, in teoria, il diritto positivo si dovrebbe uniformare.

L'unico modo in cui è possibile accostarsi con imparzialità alle leggi per giudicarne l'operato è quello di considerarle sempre all'interno del copro legislativo a cui appartengono, studiare la loro organicità e la loro efficacia nel raggiungimento di fini non in contraddizione gli uni con gli altri. L'unica disarmonia ammessa tra le leggi è quella che si costituisce in vista di un obiettivo particolarmente importante, come la coesione sociale , la quale può essere ottenuta talora solo promulgando leggi diverse a seconda dei soggetti cui fanno riferimento. Secondo Montesquieu "le leggi umane statuiscono sul bene, non sul meglio: di beni ne esistono molti, ma il meglio è uno solo". E il meglio non è conoscibile, né può essere tradotto in leggi applicabili nella concretezza storica.

Teoria del clima. Nelle Considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei romani, Montesquieu afferma che il clima ha un ruolo importante nella storia di una società, perché esso è sia un fattore fisico sia un fattore politico. Egli però non crede che il clima influenzi in modo determinante le leggi e i costumi dello stato. Il buon legislatore deve infatti saper contrastare il clima solamente in determinate società: esso infatti governa solo i popoli selvatici, mentre, grazie allo sviluppo civile, sono i fattori morali ad aver acquistato maggior importanza, riducendo l'azione del clima.

Critiche a Montesquieu

  • Rousseau si opporrà alla democrazia delegata proponendo la democrazia diretta.
  • Secondo Montesquieu la vita della collettività è determinata dalla forza superiore e impersonale della legge. Tutti si devono piegare ad essa, persino il re. E le leggi sono un prodotto della storia: le può proporre un legislatore, talora un popolo, oppure nascono per imitazione dello Stato con cui si confina.
  • La Rivoluzione francese rifiuta di considerare le leggi prodotto dell'iniziativa di un singolo o di un gruppo, data l'arbitrarietà che questa operazione comporterebbe, sia come condizione preliminare alla formulazione della legge stessa, sia come conseguenza dell'assolutezza di cui sarebbe dotato il legislatore rispetto alla sua creatura.
  • Alla natura impersonale della legge non può che corrispondere la non personalità di chi l'ha promulgata: è la volontà generale a avere il diritto di statuire sulla comunità che la esprime, proprio perché solo così chi è tenuto all'osservanza della legge coincide con chi tale legge ha promulgato. In definitiva, la soluzione della sovranità popolare è l'unica a consentire che il legislatore non coincida con un soggetto personale in senso stretto.
  • Nel suo Stato sono le leggi a doversi armonizzare con lo spirito del popolo e le sue tradizioni, invece la Rivoluzione Francese vede l'anima dello Stato come soggetto della legge, detentore legittimo del potere legislativo e quindi della sovranità.
  • Montesquieu sostituiva uno Stato di fatto a quello di diritto. Non basta badare a ciò che è, occorre anche progettare ciò che dovrebbe essere. Così i rivoluzionari dell'89.
  • Occorre definire una giustizia ideale cui uniformare la vita dello Stato: solo così si possono migliorare e correggere le leggi considerate inique.
  • Per Montesquieu la libertà è uno dei tanti fini perseguibili dallo Stato accanto a quello fondamentale dell'autoconservazione. Al contrario, la Rivoluzione vede lo Stato legittimo basarsi sul diritto e orientare i propri sforzi verso il godimento universale di ciò che quel diritto sancisce: se la libertà è un diritto fondamentale dell'individuo, essa non è uno dei tanti obiettivi, ma deve essere annoverata tra gli scopi istituzionali della comunità politica.
  • Per Montesquieu la libertà è finalizzata alla conservazione della proprietà privata.

Biografia - Brani tratti dallo Spirito delle Leggi


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 07-12-2015