Rousseau: l'educazione chimerica dell'Emilio

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Rousseau: l’educazione chimerica dell’Emilio

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Giuseppe Bailone

“Un padre, quando genera ed alimenta dei figli, non fa che un terzo del suo compito. Egli deve dare degli uomini alla propria specie, deve dare alla società degli esseri socievoli, deve dare dei cittadini allo Stato. Ogni uomo che, potendo pagare questo triplice debito, non lo fa, è colpevole, e forse è più colpevole ancora quando lo fa a mezzo. Colui che non può compiere i doveri di padre non ha neppure il diritto di diventarlo. Non c’è né povertà, né lavoro, né rispetto umano, che lo dispensino dal nutrire i suoi bambini e dall’educarli lui stesso. O lettori, voi potete prestarmi fede! Io predico a chiunque abbia viscere e trascuri così santi doveri, che verserà a lungo lacrime amare sulla sua colpa e mai riuscirà a consolarsene”.1

Rousseau sa bene quel che sta predicendo: lui ha abbandonato i suoi figli all’ospizio dei trovatelli e ne ha scritto con sofferenza nelle Confessioni.

“Mentre filosofavo sui doveri dell’uomo, un avvenimento sopraggiunse a farmi riflettere più a fondo sui miei. Thérèse rimase incinta per la terza volta. Troppo sincero con me stesso, troppo intimamente fiero per smentire i miei principi con le mie azioni, presi a esaminare il destino dei miei figli, e i miei vincoli con la loro madre, sulla base delle leggi naturali, della giustizia e della ragione, e su quelle della religione pura, santa eterna come il suo autore, che gli uomini hanno insozzato fingendo di volerla purificare […]. Mai un solo istante nella sua vita Jean-Jacques poté essere un uomo insensibile, spietato, un padre snaturato. Se esponessi le mie ragioni, ne direi troppe. E, poiché esse hanno avuto il potere di sedurmi, potrebbero sedurre tanti altri: non voglio esporre i giovani, che potrebbero leggermi, a lasciarsi sedurre dal medesimo errore. Mi contenterò di dire che esso fu tale, che, affidando i miei figli alla pubblica educazione, non potendoli allevare io stesso, destinandoli a un destino di operai e di contadini, piuttosto che di avventurieri e di cacciatori di doti, ritenni di compiere un atto di cittadino e di padre, e mi considerai un membro della repubblica di Platone. Più di una volta, da quel tempo, i rimpianti del mio cuore m’insegnarono che mi ero sbagliato. Ma siccome la ragione non è mai stata dello stesso parere, spesso ho benedetto il cielo di avere, in quel modo, scongiurato a essi la sorte del loro padre, e quella che li minacciava quando sarei stato costretto ad abbandonarli. Se li avessi affidati alla signora d’Épinay o alla signora di Luxembourg che, per amicizia, generosità o altri motivi, cercarono in seguito di prenderne cura, sarebbero forse stati più felici o, almeno, sarebbero stati allevati come persone oneste? Non so; ma sono sicuro che li avrebbero costretti ad odiare, forse a tradire, i loro genitori. È cento volte meglio che non li abbiano conosciuti.

Il mio terzo figlio seguì, dunque, ai Trovatelli la sorte dei primi due, e così i due seguenti. Ne ebbi, infatti, cinque in tutto. Quella soluzione mi parve così buona, sensata e legittima, che, dal vantarmene apertamente, mi frenò solo un riguardo alla madre; ma ne parlai a tutti coloro cui avevo dichiarato i nostri rapporti. […] Tutto sommato, scelsi per i miei figli il meglio, o quel che credetti tale. Avrei voluto, vorrei ancora essere stato allevato e nutrito io stesso come lo furono loro”.2

Con il ragionamento, Rousseau cerca di mettere a tacere la coscienza, ma il cuore sembra non darsene pace ed egli torna a scriverne con tormento, anche verso la fine delle sue lunghe Confessioni.

“La decisione da me presa nei riguardi dei miei figli, per meditata che mi fosse parsa, non sempre mi aveva lasciato tranquillo il cuore. Meditando il mio Trattato sull’educazione, mi resi conto d’aver trascurato doveri da cui nulla mi poteva dispensare. Il rimorso divenne finalmente così vivo, che mi strappò quasi la pubblica confessione della mia colpa, all’inizio dell’Emilio, e, anzi, l’allusione è così chiara che, dopo un tal passo, è stupefacente che si sia avuto il coraggio di rimproverarmela”.3

A parziale attenuante c’è da tener presente che l’abbandono dei figli alla carità pubblica era allora una pratica molto diffusa, soprattutto a Parigi. E che quest’uso abbia influito realmente su Rousseau, almeno per i primi due figli, risulta da un’altra pagina delle Confessioni. In essa, infatti, ricorda che, negli ambienti che egli frequentava abitualmente, “chi meglio popolava l’ospizio dei trovatelli era sempre il più applaudito”; e aggiunge: “Modellai la mia maniera di pensare su quella che vedevo in auge fra persone estremamente attraenti e, in fondo, onestissime; e mi dissi: «Dacché questo è l’uso del paese, quando vi si vive, ci si può conformare». Ecco l’espediente che cercavo. Vi ricorsi deciso senza il minimo scrupolo, e il solo che dovetti vincere fu quello di Thérèse: ebbi tutte le pene del mondo per farle accettare quell’unico mezzo di salvare il suo onore. Essendo venuta in mio aiuto sua madre, che temeva per di più un nuovo imbarazzo di marmaglia, ella si lasciò convincere. […] L’anno successivo, stesso inconveniente e stesso espediente. Nessuna riflessione in più da parte mia, nessuna approvazione in più da parte della madre: ella obbedì piangendo”.4

Per completare il quadro occorre, però, anche tener presente che una delle ragioni più importanti che spinsero Rousseau a scrivere le Confessioni, a “dire tutto”, a scrivere un’opera “senza esempi e senza imitatori”, è il violentissimo attacco di Voltaire, che, tra le tante accuse infamanti, gli rinfaccia, nel dicembre del 1764, l’abbandono dei figli: “Riconosciamo con dolore e rossore che v’è un uomo che porta ancora su di sé il marchio funesto delle sue gozzoviglie e che, travestito da saltimbanco, trascina con sé di villaggio in villaggio e di montagna in montagna l’infelice donna di cui ha fatto morire la madre e di cui ha esposto i figli alla porta di un ospizio”.

L’attacco ferisce profondamente Rousseau che ne parla più volte e, in particolare, nella lettera a Saint Germain del 1770, scrive: “Quale partito hanno ricavato i barbari dalla mia colpa! Con quale arte l’hanno messa nella luce più odiosa! Come si sono compiaciuti di dipingermi come un padre snaturato! Come hanno cercato di far risalire al mio carattere una colpa che è stata la causa della mia infelicità!… Essa fu grave, senza dubbio fu imperdonabile, ma fu la sola mia colpa e l’ho ben espiata!”5

In conclusione, si può pensare che Rousseau abbia iniziato ad abbandonare i figli per superficiale e comodo conformismo (la prima volta, nell’inverno del 1746, è appena agli inizi della riflessione critica su società, etica e politica); e che, poi (Il terzo figlio nasce nella primavera del 1751), abbia avvertito sempre di più la gravità dei suoi atti. Gravità, che diventa insostenibile dopo l’attacco di Voltaire. L’uso corrente e il pensiero dominante hanno prima alleggerito la sua coscienza, mentre l’attacco pubblico dopo l’ha esasperata.

La coscienza di Rousseau in balia dell’opinione pubblica!

Anche come precettore Rousseau non ha fatto una buona prova.

“Tempo fa [nel 1740 a Lione] ho già fatto un esperimento sufficiente di questo mestiere per essere ben certo che non ci sono adatto. […] Non essendo in grado di adempiere al compito più utile, oserò almeno tentare quello più facile: a somiglianza di tanti altri, non metterò mano all’opera, ma alla penna; e invece di fare quello che occorre, mi sforzerò di dirlo. […] Ho preso quindi la decisione di crearmi un allievo immaginario”.6

Fallito come padre e come precettore, Rousseau si ritira nel paese delle chimere a progettare l’educazione ideale.

Nello “stato di effervescenza” in cui immagina le creature sentimentali e il mondo ideale di Giulia o la nuova Eloisa, in cui elabora il progetto politico di democrazia egualitaria e perfetta del Contratto sociale, Rousseau compie l’esperimento mentale di un’educazione perfetta dell’uomo come soggetto morale autonomo e cittadino del suo Stato ideale.

È un esperimento che, neutralizzati gli effetti devastanti dei condizionamenti della società corrotta e corruttrice, saggia la possibilità di agire in profondità sulla natura umana, sviluppandone alla perfezione le potenzialità affettive, intellettuali, morali e sociali, navigando tra Scilla e Cariddi, tra la corruzione della società attuale e la forzatura deformante del modello spartano.

Il riferimento ideale è la Repubblica di Platone, nella quale l’animo umano sarebbe stato affinato dall’educazione di Stato, non snaturato come nella Sparta di Licurgo.

“L’uomo civile nasce, vive e muore nella schiavitù: alla nascita lo si imprigiona nelle fasce; alla morte lo si inchioda in una bara; e fino a che serba un’effigie umana, è incatenato dalle nostre istituzioni. Si dice che parecchie levatrici pretendano, acconciando la testa dei neonati, di darle una forma più conveniente: e lo si tollera! Le nostre teste starebbero male nella forma loro data dall’Autore del nostro essere: bisogna che esse siano foggiate dal di fuori dalle levatrici, e dal di dentro dai filosofi.”7

L’esperimento educativo punta all’autonomia di Emilio.

La natura umana è modificabile e l’educazione la deve plasmare per una vita sociale libera e solidale, per formare un soggetto morale autonomo e un cittadino fedele alla sua patria, capace di conciliare la sua volontà particolare con la volontà generale tesa al bene della sua comunità.

Per affinare la natura umana senza devastarla, l’educazione deve tenere conto del suo naturale sviluppo e di quanto essa sia diversa nei diversi momenti di questo sviluppo: il bambino non è un adulto in piccolo, ha esigenze e caratteristiche del tutto peculiari.

Rousseau prende di mira la tendenza dominante nella società aristocratica di affidare i bambini, considerati un intralcio alla vita sociale degli adulti, alle cure di estranei almeno per primi 4-5 anni, che egli considera decisivi.

L’educazione ideale deve mettere al centro della sua attenzione il presente del bambino e non sacrificarlo al suo futuro, peraltro incerto, perché un bambino infelice non può diventare un adulto felice.

L’educazione deve liberare, sviluppare potenzialità, rendere felice Emilio, non imporgli costrizioni e sacrifici che non siano richiesti dalla natura delle cose.

Emilio non deve diventare né un servo né un tiranno. Non deve abituarsi a dipendere dagli uomini, a obbedire ai comandi imposti con la forza o l’autorità; così come non deve prendere gusto a farsi servire e divenire capriccioso: tutti i suoi desideri sono legittimi, eccetto quello di farsi obbedire per il piacere di essere servito. Deve, invece, adeguarsi alle necessità imposte dalla realtà delle cose e all’ordine della ragione e della coscienza. La sua educazione consisterà pertanto nel predisporre le cose intorno a lui in modo tale ch’egli ne accetti le regole che esse impongono.

“Mantenete il fanciullo nella sola dipendenza dalle cose ed avrete seguito l’ordine della natura nel progresso della sua educazione. Non offrite alle sue volontà indiscrete che ostacoli fisici o punizioni che nascano dalle azioni stesse e di cui egli si ricordi al bisogno: senza proibirgli di far male, basta impedirglielo. L’esperienza o l’impotenza devono solo tener per lui luogo di legge. Non concedete niente ai suoi desideri, perché lo domanda, ma perché ne ha bisogno. Ch’egli non sappia quello che è l’obbedienza quando agisce, né quello che è il comando quando si agisce per lui. Ch’egli senta ugualmente la sua libertà nelle sue azioni e nelle vostre. Supplite alla forza che gli manca, precisamente per quel tanto di cui ha bisogno per essere libero e non arrogante: e che ricevendo i vostri servizi con una specie di umiliazione, egli aspiri al momento in cui potrà farne a meno, e in cui avrà l’onore di servirsi da se stesso”.8

A Emilio si eviteranno, pertanto, il più possibile, le esperienze sociali: l’uomo si è corrotto entrando in rapporto con gli altri e la sua corruzione è cresciuta col crescere della complessità sociale. Egli, pertanto vivrà in campagna.

“Gli uomini non sono fatti per ammucchiarsi come formicai, ma sparsi sulla terra che devono coltivare. Quanto più si riuniscono tanto più si corrompono. Le infermità del corpo, come i vizi dell’anima, sono l’infallibile effetto di quest’affluenza troppo numerosa. L’uomo, fra tutti gli animali, è quegli che meno può vivere in branchi. Uomini ammassati come montoni perirebbero tutti in pochissimo tempo. L’alito dell’uomo è mortale per il suo simile: ciò non è men vero in senso proprio che in senso figurato.

Le città sono l’abisso della specie umana. In capo ad alcune generazioni le razze periscono o degenerano; bisogna rinnovarle, ed è sempre la campagna che contribuisce a tale rinnovamento”.9

L’intervento educativo deve difendere il bambino dall’azione corruttrice delle istituzioni educative sociali. L’autodidatta e solitario Rousseau diffida dei collegi, in particolare di quelli dei gesuiti, in cui si sono formati molti dei suoi colleghi enciclopedisti. L’autore dei Discorsi, il critico radicale dell’ordine sociale esistente, vuole formare l’uomo nuovo, per completare la rivoluzione iniziata con Giulia o la nuova Eloisa e con il Contratto sociale. La sua rivoluzione, infatti, punta sul cambiamento radicale delle istituzioni sociali e politiche, ma anche, e forse soprattutto, alla formazione dell’uomo nuovo, attraverso l’educazione individuale. L’Emilio è, infatti, l’opera che sta più a cuore a Rousseau e della quale, nelle Confessioni, ha scritto: “mi costò vent’anni di meditazione e tre di lavoro”.10

L’esperimento mentale dell’Emilio si svolge, quindi, fuori della società e per una società radicalmente nuova. Tuttavia, quando Emilio andrà a imparare il mestiere del falegname, egli passerà con la famiglia del maestro artigiano tutta la giornata e vi consumerà anche i pasti: immersione totale nella piccola comunità artigiana e totale isolamento dalla società cittadina.

Incoerenza? Solo in parte, perché Rousseau ha sempre rivolto le sue critiche radicali alla vita sociale complessa e ipocrita delle grandi città e ha molto idealizzato il mondo semplice delle piccole comunità.

L’ultimo libro, il quinto, è dedicato all’educazione di Sofia.

“Non è bene che l’uomo sia solo. Emilio è un uomo; gli abbiamo promesso una compagna, bisogna dargliela. Questa compagna è Sofia.”

Come nel racconto biblico, la donna esiste perché l’uomo ne ha bisogno.

Sofia riceve l’educazione necessaria alla sua funzione di cura dei figli e della casa, per una vita ritirata, a fianco, se non proprio all’ombra, del suo uomo.

“Nell’unione dei sessi ciascuno concorre ugualmente all’oggetto comune, ma non nella medesima maniera. Da codesta diversità nasce la prima differenza determinabile fra i rapporti morali dell’uno e dell’altro. L’uno deve essere attivo e forte, l’altro passivo e debole: bisogna necessariamente che l’uno voglia e possa, basta che l’altro resista poco.

Stabilito questo principio, ne segue che la donna è fatta specialmente per piacere all’uomo. Se l’uomo deve piacere a sua volta, ciò è di una necessità meno diretta: il merito è nella sua potenza; egli piace per il solo fatto di essere forte. Non sta in ciò la legge dell’amore, ne convengo; ma c’è quella della natura, anteriore all’amore medesimo”.11

Sofia si educa giocando con la bambola, “il divertimento speciale di questo sesso”. Impara a cucire: “Quasi tutte le bambine imparano con ripugnanza a leggere e scrivere; ma, quanto a tenere l’ago, questo è quello che imparano volentieri. Esse si immaginano in anticipo di essere grandi, e pensano con piacere che queste abitudini potranno servir loro un giorno ad acconciarsi”.12

Nell’educazione di Emilio questa anticipazione del futuro è, invece, esclusa.

La posizione subalterna della donna è evidente anche per la religione, che deve essere prima quella di sua madre e poi quella di suo marito.

Prima di sposarsi Emilio e Sofia devono superare la prova della lontananza.

Il quinto libro, contiene pagine importanti sull’utilità dei viaggi, seguite da un’esposizione sintetica del Contratto sociale.

Il romanzo si chiude con un festoso annuncio di Emilio al suo precettore.

“Maestro mio, rallegrativi col vostro figliolo; egli spera di avere ben presto l’onore di essere padre. O quali cure stanno per essere imposte al nostro zelo, e come noi avremo bisogno di voi! Dio non voglia ch’io vi lasci ancora allevare il figlio, dopo aver allevato il padre! Dio non voglia che un dovere così santo e così dolce sia mai compiuto da altri che da me, dovessi pure scegliere così bene per lui come è stato scelto per me stesso!”.

Nel “paese delle chimere” Emilio si propone di essere il buon padre che Jean-Jacques non è stato nel paese reale.

Tutto bene, alla fine?

Non proprio. Perché, dopo aver messo la parola “Fine” all’Emilio, Rousseau riprende a scriverne, senza concludere, un’appendice, poi pubblicata dopo la sua morte, col titolo Emilio e Sofia, o i solitari. In questa, Emilio porta Sofia a Parigi, dove, travolto dal suo vortice mondano, trascura i suoi doveri e subisce il tradimento di Sofia. Il matrimonio fallisce ed Emilio si mette in viaggio. Sembra che Rousseau avesse in mente un loro nuovo e finale incontro in un’isola misteriosa, ma non portò mai a termine il racconto.

Il fatto che Rousseau sia ritornato sul suo romanzo, senza riuscire a chiuderlo con un finale felice, secondo Gino Capponi, proverebbe che, avendo egli raffigurato “un impossibil fanciullo ed un’educazione impossibile”, quasi temeva che li si scambiasse con la realtà, o con indicazioni direttamente applicabili.13

Chi ha vissuto nel “paese delle chimere” sa bene quanto sia difficile, e pericoloso, tornare a vivere nel mondo reale.

Torino 15 dicembre 2014

NOTE

1 Rousseau, Emilio, in Opere, Sansoni editore 1972, p. 361.

2 Jean-Jacques Rousseau, Le confessioni, libro VIII, Einaudi editore 1955, pp. 392-3.

3 Ib., libro XII, p. 651.

4 Ib., libro VII, pp. 377-8.

5 Cito questo passo e quello di Voltaire dalla “Nota sui testi e sulla biografia” di Paolo Rossi, in Opere di Rousseau, Sansoni editore 1972, p. LXV.

6 Rousseau, Emilio, in Opere, Sansoni editore 1972, p. 362.

7 Ib. p. 355.

8 Ib. p. 389.

9 Ib. p. 369.

10 Jean-Jacques Rousseau, Le confessioni, libro VIII, Einaudi editore 1955, p. 424.

Nel libro terzo, pp. 124-6, sul suo modo di produrre le sue opere, scrive: “Due cose quasi incompatibili si uniscono in me senza che io possa precisare come: un temperamento ardentissimo, passioni vive, impetuose, e idee lente a nascere, impacciate, e che non si presentano mai che a cose fatte. Si direbbe che il mio cuore e il mio ingegno non appartengano allo steso individuo. Il sentimento, più rapido della folgore, inonda la mia anima; ma anziché illuminarla, mi brucia e mi abbaglia. Io sento tutto e non vedo nulla. […] Di qui deriva anche l’estrema difficoltà cui mi scontro nello scrivere. I miei manoscritti raschiati, imbrattati, disordinati, indecifrabili, attestano la pena che mi sono costati. Non ce n’è uno che non abbia dovuto trascrivere quattro o cinque volte prima di darlo alle stampe. Non ho mai saputo far niente con la penna in mano stando a tavolino dinanzi a un foglio bianco: io scrivo nel mio cervello mentre passeggio, fra le rocce e gli alberi, oppure la notte, a letto, durante le mie insonnie. Si può giudicare con quale lentezza, soprattutto per un uomo assolutamente sprovvisto di memoria verbale, e che in tutta la sua vita non ha potuto tenere a mente sei versi. Qualcuno dei miei periodi l’ho girato e rigirato nella mia testa per cinque o sei notti prima che esso fosse in condizioni di essere messo sulla carta. Di qui deriva anche che riesco meglio nelle opere che esigono elaborazione che non in quelle che vanno fatte con una certa leggerezza, come le lettere, genere del quale non ho mai saputo prendere il tono, occupazione che rappresenta per me un supplizio”.

11 Rousseau, Emilio, libro V, in Opere, Sansoni editore 1972, p. 612.

12 Ib. p. 620.

13 Ho trovato la tesi di Capponi in Emilio, a cura di Aldo Visalberghi, Laterza 2010, p. 223.


Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

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Aggiornamento: 16-06-2015