Rousseau: il terremoto di Lisbona e l'ottimismo

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Rousseau: LA VITA, LE OPERE E LA FORMAZIONE CULTURALE

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Diego Fusaro - www.filosofico.net

Jean Jacques Rousseau nacque a Ginevra nel 1712 ed ebbe un’infanzia difficile: la madre morì di parto e il padre dovette ben presto lasciare la città. Il giovane Rousseau ricevette l’appoggio di Madame de Warens, una dama svizzera al servizio del re di Sardegna, che gli fece da matrigna e da amante. Durante questo periodo – in cui soggiornò ad Annecy (nella Savoia), Torino, varie località della Svizzera, Chambery – esercitò diversi mestieri e completò la sua formazione intellettuale con numerose letture.

Separatosi da Madame de Warens, arrivò a Parigi ed entrò in contatto con gli Enciclopedisti. Scrisse parecchi articoli per la famosa Enciclopedia, tra cui alcuni di carattere musicale: si dilettava infatti anche di composizione, e un suo melodramma fu persino rappresentato a Versailles, alla presenza del re.

Nel 1757 interruppe i suoi rapporti con gli Enciclopedisti e si ritirò a Montmorency, dove scrisse La nuova Eloisa (1761), il Contratto sociale (1762), l’Emilio (1762). Poiché queste opere furono condannate sia dalle autorità parigine che ginevrine, si rifugiò a Neuchâtel, in un territorio svizzero ma soggetto al re di Prussia.

Si trasferì per un po’ anche in Inghilterra, a Londra, su invito di Hume, ma poco dopo i rapporti fra i due pensatori di guastarono e Rousseau se ne tornò in Francia. Si ritirò, a causa delle cattive condizioni di salute, ad Ermenonville, dove morì nel 1778, dopo aver scritto un’autobiografia, che intitolò Confessioni.

Il saggio che darà una certa notorietà a Rousseau fu il Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), che egli aveva scritto in seguito ad un concorso indetto dall’Accademia di Digione sul tema: “La rinascita della scienza e delle arti ha contribuito a corrompere o a purificare i costumi?”. Il breve scritto di Rousseau, che otterrà il primo premio, rivelò una personalità originale, con una forte determinazione ad andare al cuore dei problemi e desiderosa di rinnovamento e di rigenerazione radicale della società.

In apparenza, l’assunto del giovane Rousseau sembrava sostenere che le scienze e le arti non hanno contribuito al progresso bensì al regresso della civiltà, fiaccando gli animi e distogliendoli dal perseguimento delle più autentiche virtù civili e sociali. In realtà, il Discorso non criticava né la cultura né il sapere in sé. Li criticava solo nella misura in cui, tradendo la loro più vera missione, essi non operavano per il miglioramento dell’umanità, rendendosi talora persino complici del rammollimento dei costumi. Non dimentichiamo le responsabilità politiche che scienze ed arti hanno avuto (ed hanno) nello sviluppo del dispotismo repressivo degli Stati moderni.

Rousseau vagheggia invece la polis dell’antichità, cioè è convinto che la mirabile armonia tra individuo e comunità, tra cultura e politica che fu un tempo di Atene e Sparta, dovrebbe essere il traguardo ambìto anche delle nazioni moderne.

Molto più controllato, anche se altrettanto radicale, è il Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (1754), che Rousseau scrisse per un altro concorso, sempre bandito dall’Accademia di Digione. Egli esordisce dicendo che l’uomo di natura non è tanto un essere buono quanto un essere dotato di tendenze e istinti positivi. Per natura l’uomo è solo aperto al rapporto intersoggettivo ed è solo sollecitato, dall’istinto di perfettibilità, al proprio perfezionamento.

Rousseau non confonde lo stato di natura con la mitica Età dell’Oro o col Paradiso Perduto; non crede ch'esso fosse il luogo o lo stato o la sorgente di tutti i beni e di tutti i valori. E soprattutto per lui lo stato di natura “non esiste più, forse non è mai esistito e probabilmente non esisterà mai”. Esso è dunque piuttosto un'ipotesi, un paradigma valutativo e non qualcosa di reale.

Riguardo poi all’origine della vita sociale, Rousseau non la identifica tanto con l’istituzione di un patto o di un contratto, quanto con una rete assai più complessa di inclinazioni, bisogni, sentimenti. L’essenza della socialità è dunque cosa positiva: ciò che non è certo è che il suo sviluppo sia altrettanto positivo. Anzi fin dall’inizio l’egoismo, la brama di potere, il complicarsi delle relazioni generano il male e il conflitto sociale, che è anche conflitto umano.

Ma Rousseau vuole fare un discorso politico e individuare una causa cui concretamente imputare l’origine del male di cui sopra. Questa causa viene identificata con l’istituzione della proprietà privata. La proprietà privata produce infatti una disuguaglianza economica che tende rapidamente a coincidere con una disuguaglianza sociale e politica. Chi possiede, ha anche il potere. Il potere, in una spirale perversa, genera altro potere. L’élite dei proprietari è quella stessa che costituirà il sistema giuridico: un sistema iniquo perché finalizzato alla autoconservazione della forza e dell’autorità e alla perpetuazione della disuguaglianza.

Nel 1762 Rousseau pubblica il Contratto sociale. In quest’opera si respira un’ansia di emancipazione per cui egli vorrebbe trasformare la realtà: creare una società libera ed egualitaria per rigenerare l’umanità. Il problema più arduo è mediare tra due realtà che Rousseau ritiene assolutamente certe e oggettive: da un lato che l’uomo è e deve restare libero; dall’altro che la società implica un ordine e quindi delle rinunce.

Rousseau ritiene che sia possibile trovare una soluzione ripensando alla genesi della società. Il filosofo inglese Hobbes aveva affermato che solo una cessione generale di tutti i poteri da parte di tutti gli individui garantiva la tutela dell’uguaglianza tra i membri della società. Anche Rousseau parla di una alienazione totale, di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, alla comunità. Egli pone però l’accento sul momento della comunità.

In altre parole, per Rousseau l’uomo è persona e la società è un corpo vivente; la salute della società dipende dall’essere dei singoli cittadini; si deve perciò puntare a un'integrazione cooperante tra uomini e società (da ciò deriva anche la strettissima connessione, nell’opera di Rousseau, tra la riflessione sociopolitica e quella psicologico-antropologico-pedagogica, come vedremo tra breve nell’Emilio). Infatti solo individui opportunamente rigenerati permetteranno una radicale trasformazione della società.

Secondo Rousseau, i cittadini, pur alienando tutti i loro diritti alla comunità, che ne ricava un massimo di autorità, restano liberi. E restano liberi non solo in quanto acquistano uno stato di assoluta uguaglianza reciproca, tutelata dalla legge, ma anche in quanto partecipano attivamente alla vita comunitaria, in quanto gestiscono direttamente il potere politico.

Rousseau ha compreso, con grande acume, che una delle possibili matrici della illibertà risiede proprio nella delega del potere da parte del complesso dei cittadini a un gruppo di essi. Tale delega appare a Rousseau comunque dannosa. La sovranità andrebbe attribuita invece al solo "io comune" del popolo. Solo il popolo è il legittimo titolare del potere. In più, il popolo può bensì affidare per motivi di convenienza pratica la gestione degli affari pubblici ad appositi deputati, ma costoro non devono essere considerati in alcun modo i depositari di una sorta di potere separato.

L’ideale politico delineato da Rousseau s'incarna in una comunità di non grandi dimensioni, in cui il cittadino sia, insieme, governato e governante (dietro tutto ciò c’era forse il modello di Ginevra). Ma un modello politico del genere è concretamente realizzabile? Rousseau risponde che l’uomo non è solo istinto, mera volizione egoistica e cieca; egli è anche ragione, coscienza, riflessione. Perciò può riuscire a guardare al di là del proprio perimetro soggettivo, a cogliere valori più ampi, a partecipare ad istanze che lo trascendono, pur restando anche sue proprie istanze. Questa capacità gli consente di ascoltare una volontà che non è la sua semplice volontà individuale, ma è la cosiddetta volontà generale. Essa è la voce della collettività, l’espressione degli interessi socialmente costituiti, la prospettiva rivolta costantemente all’utilità generale. essa è un’espressione di noi stessi, del nostro essere uomini. Obbedendo alla volontà generale, l’uomo obbedisce pertanto a se stesso, anzi, alla parte più razionale e morale di se stesso; per questo una tale obbedienza pone in essere la sola libertà degna di questo nome. In breve, l’uomo è propriamente tale solo in quanto è cittadino che coglie ed accetta le esigenze profonde e razionali della società.

Nello stesso anno in cui è pubblicato il Contratto sociale, esce anche l’Emilio, e non a caso. L’opera delinea infatti un modello di uomo senza il quale il modello di società delineato nel Contratto sociale non poteva neppure essere pensato. L’educazione si configura per Rousseau come quell’intervento attraverso cui si può plasmare un’umanità capace di vivere, anzi di convivere, secondo i dettami della giustizia e della ragione. Prima che all’istruzione di un fanciullo e alla preparazione di un adulto o, meglio, di un cittadino, Rousseau punta alla formazione di un uomo: “Vivere è il mestiere che gli voglio insegnare. Uscendo dalle mie mani, egli … sarà prima di tutto un uomo: tutto quello che un uomo dev’essere, egli saprà esserlo, all’occorrenza, al pari di chiunque: e per quanto la fortuna possa fargli cambiare condizione, egli si troverà sempre nella sua” (cfr. Emilio, libro 1°).

Il principio-guida dell’opera di Rousseau è costituito da una libertà ben guidata, non da una libertà capricciosa e disordinata. A tale scopo l’itinerario e l’ideale educativo deve essere graduale e rispettoso dei vari stadi di sviluppo. In primo luogo, il precettore non deve considerare il fanciullo come un adulto in miniatura: “La natura vuole che i fanciulli siano fanciulli prima di essere uomini. L’infanzia ha certi modi di vedere, di pensare, di sentire del tutto speciali; niente è più sciocco che voler sostituire ad essi i nostri”. Rispettando tale sviluppo, dalla nascita ai dodici anni, bisogna badare all’esercizio intelligente dei sensi. Da qui l’esigenza di educare il fanciullo a sviluppare liberamente il bisogno di muoversi, di giocare, di conoscere il proprio corpo. E’ il periodo della cosiddetta educazione negativa, la quale consiste “non già nell’insegnare la virtù e la verità, ma nel garantire il cuore dal vizio e la mente dall’errore”. Tale principio deriva dall’assunto che non vi è perversità nel cuore umano, che la deviazione e il vizio vengono dall’esterno. I vizi presi nell’età della prima formazione, quella che va appunto dalla nascita ai dodici anni, non saranno più sradicati: occorre perciò proteggere in ogni modo Emilio dalle influenze negative dell’ambiente, favorendo invece lo sviluppo delle sue inclinazioni naturali. L’educatore pianificherà ogni cosa affinché Emilio compia da sé le scoperte che costituiscono la sua conoscenza del mondo. Anche l’obbedienza, in questo periodo, sarà ottenuta con la pura autorità, senza discussione: “Adoperate la forza con i fanciulli e la ragione con gli uomini”.

Dai dodici ai quindici anni occorre sviluppare l’educazione intellettuale, orientando l’attenzione del ragazzo verso le scienze, dalla fisica alla geometria all’astronomia, attraverso un contatto diretto con le cose, allo scopo di cogliere le regolarità e le necessità della natura; si collegherà inoltre ogni conoscenza ad un’utilità riconoscibile dal ragazzo, che ricostruirà poi da sé i principi delle scienze. Dai quindici ai ventidue anni è il momento dell’educazione morale, sociale e religiosa. L’educazione alla virtù farà di Emilio un “uomo morale”: e la moralità consisterà nel sapere disciplinare le passioni, seguendo il lume della ragione e la voce della coscienza.

Da ultimo, l’educazione politica preparerà Emilio alla vita sociale: imparerà a distinguere il giusto dall’ingiusto e agirà secondo l’accordo della sua volontà con quella generale della comunità. Potrà così diventare un buon cittadino e un buon marito e padre (conoscerà Sofia, la sua futura sposa).

L’ideale etico-religioso di Rousseau in quest’opera è esposto nel quarto libro, nella famosa Professione di fede del vicario savoiardo. Le verità fondamentali in cui tutti credono sono due: l’esistenza di un essere supremo e l’immortalità dell’anima. Rousseau dice di rifiutare la dottrina del peccato originale e la salvezza soprannaturale e propone invece una “professione di fede puramente civile, di cui spetta al sovrano fissare gli articoli”. Tali articoli sono le due verità dette prima con in più “la santità del contratto sociale e delle leggi”, e l’aggiunta di un dogma negativo, l’intolleranza. “Bisogna tollerare – sostiene Rousseau – tutte quelle religioni che a loro volta tollerano le altre, fintanto che i loro dogmi non contengano niente di contrario ai doveri del cittadino. Ma chiunque osi dire che fuori della Chiesa non c’è salvezza, dev’essere espulso dallo Stato”.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 15-06-2015