Voltaire e la storiografia

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VOLTAIRE E LA STORIOGRAFIA

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Biografia

Nato a Parigi nel 1694, esponente di quell'agiata borghesia francese che si avviava ad assumere un ruolo di primo piano nella vita economica e culturale del paese, ultimo figlio di un ricco notaio del Châtelet, crebbe in un ambiente borghese colto, compiendo gli studi presso i gesuiti del collegio Louis-le-Grand.

La sua vita si aprì all'insegna della mondanità nella società elegante e libertina del salotto di Ninon de Lanclos, dove Voltaire si fece notare per la finezza dell'ingegno.

Rientrato a Parigi dopo un breve soggiorno in Olanda al seguito dell'ambasciatore di Châteauneuf, suo padrino, compose poesie satiriche che gli crearono qualche guaio e lo costrinsero a un prudente esilio presso Fontainebleau, poi a Sully-sur-Loire. Una satira politica sul regno di Luigi XIV gli costò undici mesi di prigione alla Bastiglia (1717-18).

Il successo della rappresentazione della sua prima tragedia, Edipo (1718), gli aprì l'accesso all'alta società e la pubblicazione del poema epico "La lega o Enrico il Grande" (1723), ripubblicato nel 1728 col titolo di "Enriade", gli procurò l'assegnazione di una pensione da parte del re.

Ormai celebre, mutò il nome borghese nell'anagramma (tratto da Arouet le Jeune: arouetlj = uoltajre = voltaire) di Voltaire; contemporaneamente l'eredità paterna e alcune felici speculazioni lo posero definitivamente al riparo da preoccupazioni economiche.

Grande estimatore del governo britannico e il più grande propagandista dei lumi, Voltaire, dopo un triennale soggiorno in Inghilterra (1726-28), dove aveva scelto di rifugiarsi dopo il noto episodio della bastonatura inflittagli dai bravi del duca di Rohan, scrisse le Lettere filosofiche o Lettere inglesi (1733-34) le quali rappresentano uno straordinario spaccato della cultura, le istituzioni, la civiltà dell’isola, e al contempo il vero manifesto dell’Illuminismo continentale, destinato a immensa fortuna, nonostante l’immediata condanna del Parlamento di Parigi.

Solo in Inghilterra vige il regno della libertà, fondato su “un governo saggio dove il Principe, onnipotente per fare il bene, ha le mani legate per fare il male, dove i signori sono nobili senza insolenza e senza vassalli, e dove il popolo partecipa al governo senza confusione”.

L’intero pamphlet è percorso da un continuo contrappunto tra le istituzioni e i costumi inglesi e quelli imposti in Francia da un’aristocrazia corrotta e parassitaria, preda di un insano orgoglio delle proprie origini feudali.

La civiltà inglese è, invece, frutto del lavoro, del commercio, della pacifica concorrenza tra individui non divisi dalla barriera del privilegio giuridico. E lungo questa falsariga si articola la disamina degli aspetti civili e culturali del paese, dalla tradizione empirista baconiana e lockiana alla nuova scienza di Newton, contrapposta all’ormai superato cartesianesimo continentale; dallo statuto del teatro alla funzione delle accademie, al successo della variolizzazione (l’inoculazione di materiale estratto dalle pustole vacciniche a scopo d’immunizzazione).

Ma la nota forse più alta delle Lettere risuona nell’elogio della tolleranza e nell’immagine dell’operosa convivenza di fedi diverse entro un contesto finanziario e mercantile.

Si è spesso parlato, a proposito delle Lettere filosofiche, di ideologia borghese, identificando in Voltaire il simbolo e addirittura il capo politico della borghesia in ascesa. Alla luce dell’effettiva solidarietà della borghesia dell’epoca con le istituzioni d’antico regime, rilevata dalle indagini dell’ultimo trentennio, appare più opportuno vedere in lui l’emblema del nuovo potere della letteratura, rivolta anche in Inghilterra a élites socioculturali formate da nobili e notabili provenienti dai ranghi superiori del Terzo Stato.

Le Lettere filosofiche sono, comunque, percorse da un ottimismo costruttivo, fiducioso nelle capacità dell’uomo quale essere socievole e raziocinante. Nasce da qui la polemica antipascaliana di Voltaire (lett. 25), che di fronte a Pascal, acutamente consapevole della miseria della condizione terrena, intese assumere “le difese dell’umanità”. Era questa la via, mediana tra l’ottimismo metafisico di Leibniz e l’amaro pessimismo pascaliano, che avrebbe indotto il protagonista del Candido (1759) a rinunciare agli interrogativi supremi per coltivare, più modestamente, “il proprio giardino”.

Genio straordinario e versatile, drammaturgo e poeta, divulgatore competente di Newton, temibile quanto arguto polemista (si pensi al Dizionario filosofico, 1764) e agguerrito innovatore della storiografia, Voltaire rappresenta il fondatore della storiografia illuminista, il “patriarca” del partito filosofico francese ed europeo.

A Voltaire risale, soprattutto, la genesi dell’intellettuale moderno, portatore di ideali etici e civili, testimone e giudice del proprio tempo. In decenni d’indefessa attività Voltaire cambiò lo statuto della letteratura, non solo allontanandola dall’erudizione (secondo il modello accolto nell’Enciclopedia e già teorizzato da Dumarsais nel saggio Il filosofo del 1730: ma investendola di un significato politico e trasformandola in strumento di lotta contro l’antico regime.

Tutto ciò avvenne attraverso la ridefinizione delle funzioni dell’autore, che non è più figura subalterna al servizio della corte e della nobiltà ma costituisce la guida delle coscienze e l’interprete delle esigenze più profonde della società.

Costruita sull’immensa fama letteraria accumulata sin dalla gioventù, 1’auctoritas di Voltaire (e in genere dei philosophes) si rivolge in primo luogo ai potenti e agli stessi sovrani - si ricordi il soggiorno a Potsdam, presso Federico II, 1750-53, pur terminato con una rottura -, ma presuppone anche un pubblico di lettori e ascoltatori, frutto delle nuove forme della socialità e delle potenzialità del mercato editoriale, pronto a ergersi a giudice dell’attualità politica.

Non a caso, quando nel 1784 Kant risponderà al celebre quesito “Che cos’è l’Illuminismo?”, posto dalla Berliner Monatschrift, egli individuerà nella comunità dei lettori (die lesende Welt) l’organo essenziale dell’opinione pubblica.

L’immagine dell’intellettuale voltairiano, amante dei piaceri e del lusso, votato alla politesse e alla sua vocazione antimetafisica (L’uomo di mondo, 1736) appare inscindibile dall’impegno nel dibattito politico e civile. Ne è testimonianza la martellante campagna contro l’infâme (la superstizione e il fanatismo teologico, identificati in particolare con il cattolicesimo) condotta da Voltaire negli anni sessanta, che non mira tanto alla distruzione della religione (obiettivo, semmai, dell’ala materialista e radicale dei lumi), quanto alla correzione degli abusi nati dall’intreccio tra religione e istituzioni.

Quanto all’anticristianesimo di Voltaire, esso rappresenta un solo aspetto della battaglia in favore della tolleranza, intesa come valore supremo dell’incivilimento. Il caso del mercante ugonotto Jean Calas, giustiziato a Tolosa nel 1762 con la falsa accusa di aver assassinato il figlio, reo di volersi convertire al cattolicesimo, spinse Voltaire a scrivere il Trattato sulla tolleranza (1763) e a condurre una vigorosa campagna pubblicistica che porterà alla riabilitazione della vittima.

La denuncia del fanatismo, l’orrore per il sangue innocente versato nella storia si traducono qui in pagine memorabili, che costituiscono un vibrante atto d’accusa contro la crudeltà umana in ogni tempo e paese.

L’interesse di Voltaire per i problemi della giustizia non verrà mai meno, come mostrano il Commento sul trattato “Dei delitti e delle pene” (1765) e, ancora nel 1777, il saggio Premio della giustizia e dell’umanità.

Quanto alla riflessione religiosa, essa registra negli anni sessanta e settanta un sostanziale arretramento rispetto al deismo della maturità, motivato da un lato dalle crescenti preoccupazioni per l’ordine sociale, dall’altro dall’esigenza, profondamente avvertita da Voltaire, di contrastare la campagna per il materialismo e l’ateismo di d’Holbach. In risposta al Sistema della natura (1770) e a Il buon senso (1772) di quest’ultimo nascerà, così, la Storia di Jenni, ovvero l’ateo e il savio (1775), in cui Voltaire non solo riconosceva la necessità della religione, ma indicava nell’ateismo la fonte prima del male morale.

La storia in Voltaire

L'espressione “filosofia della storia” risale a Voltaire, che così intitolò, alla metà del sec. XVII, l'introduzione alla sua grande opera Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni.

Voltaire, nelle sue Nouvelles considérations sur l'histoire (1744), aveva preteso una “storia economica, demografica, storia delle tecniche e dei costumi e non solo storia politica, militare, diplomatica. Storia degli uomini, e non solo storia dei re e dei grandi. Storia delle strutture e non solo degli avvenimenti. Storia in movimento, storia delle evoluzioni e delle trasformazioni, e non storia statica, storia-quadro. Storia esplicativa, e non puramente storia narrativa, descrittiva - o dogmatica. Storia globale infine... “ [Le Goff 1978, trad. it. p. 24].

Affrontare la storia significava per Voltaire assumere un atteggiamento razionalistico di critica delle fonti, per liberare il passato dalle tradizioni mitologiche e dalle invenzioni favolistiche. Il rinnovamento della storiografia (1) però corrisponde ad un rinnovamento della società: il confronto con l’esperienza passata e con l’estero serve a comprovare le sue teorie e i suoi piani di riforma sociale.

È infatti Voltaire che lancia l’idea di una storia laica, affidata all’agire degli uomini, nel Secolo di Luigi XIV (1751), che, pur offrendo un resoconto attento e dotto delle vicende militari e politiche del ‘gran re’, pone soprattutto l’accento sul tema dell’incivilimento grazie alle lettere.

Voltaire si chiede infatti perché, invece che di falsi sensazionalismi, il lettore non dovrebbe essere edotto della situazione economica e finanziaria interna dello Stato, della chiesa, e della cultura.

L’opera il Secolo di Luigi XIV, abbandonando il criterio strettamente cronologico, per la prima volta mostra la situazione complessiva di uno Stato, mostra che una amministrazione razionale del governo porta non solo al benessere materiale, ma anche a quello delle arti e della scienza, senza il quale non vi è progresso della società tutta.

L’esaltazione del ‘dispotismo illuminato’ di Luigi XIV serve a colpire le manovre del governo del suo successore Luigi XV contro l’arte e la scienza. Questa è la prima opera storica moderna che spezza la tradizione annalistica, o della storiografia galante che allo stesso Voltaire giovane autore della Storia di Carlo XII, sembrò insufficiente. La storia diventa anche mezzo per affermare idee e non solo raccolta erudita senza visione d’insieme, anche se parziale nella ricostruzione legata già alle tendenze illuministiche.

Di lì a poco (1756), nel Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, Voltaire si sarebbe incaricato di relativizzare la storia sacra ebraica e cristiana, non più erigendola a centro privilegiato dell’indagine, ma riducendola a variante della storia profana, in una prospettiva universalistica e cosmopolita che riduce il senso egemonico dell’esperienza europea.

Inoltre egli andava oltre le tradizionali “storie universali”, sia nel senso cronologico, risalendo a tempi assai più remoti di quello assegnato dalla Bibbia alla creazione, sia nel senso geografico, includendo nel suo quadro le grandi civiltà orientali, estranee al racconto biblico.

In realtà con la sua celebrazione dell'altezza raggiunta da siffatte civiltà, e in particolare da quella cinese, Voltaire rifiutava la concezione unilineare dello sviluppo dell'umanità, basata sostanzialmente sulle tradizioni ebraica e classica.

Infine, in contrapposizione alla storiografia tradizionale, essenzialmente politica, tutta incentrata sulle vicende dei sovrani e delle guerre, Voltaire spostava l'attenzione sulla storia della società, presso i vari popoli e nelle diverse epoche, con particolare attenzione per i fenomeni della mentalità collettiva.

Da questo punto di vista riacquistavano valore di testimonianza indiretta le stesse credenze mitiche e tradizioni leggendarie, in rapporto ai loro tempi .

Quanto al “progresso”, Voltaire lo considerava dovuto essenzialmente all'iniziativa di grandi uomini, e particolarmente di sovrani illuminati: infatti non condivide la fiducia dell’Umanesimo, che aveva insistito sulla libertà dell’uomo e sulla sua centralità nell’universo.

Preda di dispute ridicole o insensate e del flagello orrendo della guerra sono gli uomini ritratti da Voltaire in Micromega (1752), stupefacente racconto filosofico che narra le avventure, e l’estraniamento, di un abitante di Sirio sulla Terra.

Nel Poema sul disastro di Lisbona, composto all’indomani del sisma che nel 1755 rase al suolo la città; o nelle indimenticabili pagine del Candido (1759), parodia della teodicea leibniziana; Voltaire propone un crudo spaccato della condizione umana attraverso una serie di amare e sarcastiche considerazioni.

Egli individuava soprattutto nello sviluppo della razionalità, nella diffusione di sentimenti umanitari quali la tolleranza religiosa, il fiorire delle arti e nell'incremento della tecnica lo sbocco per il progresso umano. Ma il raggiungimento di tutto ciò non aveva per Voltaire alcuna garanzia superiore alla volontà e all'intelligenza degli uomini.

Riguardo la tolleranza famoso il motto "Ecrasez l'infame!", schiacciate l'infame. Schiacciare l'infame significa opporsi con tutte le forze della propria ragione e della propria morale contro il fanatismo intollerante tipico della religione confessionale, non importa se cattolica, protestante o altro: è la religione di stato che schiaccia la libertà individuale.

Ogni uomo è chiamato a lottare per la tolleranza e la giustizia della religione naturale, una religione governata da un dio aconfessionale, senza dogmi, che rende inutili le cerimonialità e che punisce i malvagi e remunera i buoni, come un giudice giusto.

Il dio di Voltaire sovrintende alla macchina meravigliosa che ha creato come un orologiaio, che ne cura il meccanismo. Documentatosi in particolare sulla vicenda di Calas padre, Voltaire si convince della sua innocenza e organizza una campagna pubblica per la sua riabilitazione, che ottiene nel 1765.

Il caso Calas è uno dei primi in cui l'opinione pubblica viene usata come una poderosa leva di cambiamento e pressione sull'autorità. L'argomentazione di Voltaire a favore del pastore ugonotto trova sede proprio nel Trattato sulla Tolleranza.

Il filosofo argomenta finemente che un padre potrebbe uccidere il figlio che voglia convertirsi ad una religione diversa dalla sua, solo se fosse preda del fanatismo religioso, ma è riconosciuto ed attestato da tutti i testimoni che Jean Calas non era un fanatico. Dunque non può essersi macchiato del crimine che gli è stato attribuito e per i motivi che gli sono stati dati come movente. Le prove su cui i giudici hanno lavorato, invece, sono esse stesse opere di fanatismo, poiché presentate dalle autorità religiose concorrenti e preconcette, che hanno dato prova della loro intolleranza violenta.

Voltaire arriva dunque a sostenere che il giovane Calas si sia suicidato e che suo padre è stato trucidato da innocente. La società si definisce civile, ma uccide sulla spinta del fanatismo religioso, sostenendo di voler fare cosa grata a dio e di voler sradicare con la forza il male.

Tuttavia, continua il filosofo, "se si considerano le guerre di religione, i quaranta scismi dei papi che sono stati quasi tutti sanguinosi, le menzogne, che sono state quasi tutte funeste, gli odi inconciliabili accesi dalle differenze di opinione; se si considerano tutti i mali prodotti dal falso zelo, gli uomini… da molto tempo hanno avuto il loro inferno su questa terra".

Voltaire predica, al posto di tanta inutile violenza, la carità poiché "là dove manca la carità, la legge è sempre crudele” mentre "la debolezza ha diritto all'indulgenza". "La tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all'errore. Non resta, dunque, che perdonarci vicendevolmente le nostre follie. E' questa la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti umani". "Il diritto all'intolleranza è assurdo e barbaro: è il diritto delle tigri; è anzi ben più orrido, perché le tigri non si fanno a pezzi che per mangiare, e noi ci siamo sterminati per dei paragrafi".

Lo stesso pluralismo religioso diventa strumento diffusore di libertà in quanto: "più sette ci sono meno ciascuna è dannosa; la molteplicità le indebolisce; tutte sono regolate da giuste leggi, che impediscono le assemblee tumultuose, le ingiurie, le rivolte, e che vengono fatte rispettare con la forza".

La libertà di credo è la via per una società che non affondi le proprie radici nel sangue e la propria giustizia nella ragione del (in quel momento) più forte. Merita ricordare che, come nel Candido argomenterà la bontà morale degli Anabattisti, nel Trattato paragona l'obbrobrio dell'intolleranza religiosa con la pace costruita in Pennsylvania dai Quaccheri: “Che cosa dire dei primitivi che sono chiamati ‘Quaccheri’ per derisione, e che, con usi forse ridicoli, sono stati comunque così virtuosi e hanno insegnato inutilmente la pace agli altri uomini? Vivono in Pennsylvania in centomila; la discordia, la disputa teologica sono ignorate nella felice patria che essi si sono costruita; già il solo nome della loro città Philadelphia, che ricorda loro in ogni istante che gli uomini sono tutti fratelli, è di esempio e di vergogna per i popoli che non conoscono ancora la tolleranza”.

Famosissima è la conclusione del Trattato in cui Voltaire scrive: "Amico mio, penso che le tue idee siano sciocchezze, ma sono pronto a morire perché tu le possa manifestare liberamente".

A M

it.wikipedia.org/wiki/Voltaire#Voltaire_e_la_Storiografia_umana

Testi di Voltaire


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015