PASCOLI E ULISSE - Demitizzare gli eroi e i loro cantori

PASCOLI E ULISSE

Demitizzare gli eroi e i loro cantori

I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX


L'interpretazione che Giovanni Pascoli dà delle vicende di Ulisse, e in particolare quella dell'incontro col pastore nell'isola di Polifemo, rappresenta un unicum in tutta la storia della letteratura italiana.

Un unicumche, forse a motivo della sua originale controtendenza, è stato, si potrebbe quasi dire, pervicacemente taciuto dalla critica letteraria nazionale, tenuto nascosto nei cassetti delle cose che non si possono dire o raccontare, pena il rischio di trovarsi in scomode posizioni, difficilmente giustificabili al cospetto della cosiddetta «cultura dominante».

La suddetta interpretazione (che in Pascoli è esclusivamente poetica) fu in origine prodotta in vari poemi, pubblicati su riviste prestigiose, poi raccolti in un'unica edizione, dal titolo Poemi conviviali, che i critici, se si escludono il grande Gianfranco Contini e Maurizio Perugi, uno dei suoi discepoli, han sempre considerato, a torto, come produzione minore del poeta.

In realtà iPoemi convivialisono uno dei libri più intensi del Pascoli, chiudendo essi definitivamente il filone romantico che aveva attraversato tutto l'Ottocento, e ponendo le basi, modernissime, di una poesia realistica, scevra da qualsivoglia mitologia, lontanissima da illusioni e retoriche d'ogni forma.

È stato detto, in tal senso, che i suddetti Poemi pensano la stessa «classicità» come una «mostruosa, cultuale allucinazione» (cfr la prefazione di A. Colasanti, in Pascoli, Tutte le poesie, Newton, Roma 2003, p. 517, edizione cui qui si fa riferimento).

Ciò che ora si vuole commentare sono soltanto i Canti XVIII (L'isola delle capre), XIX (Il Ciclope), XX (La gloria) e i primi passi del XXI (Le Sirene) del poema in XXIV canti, L'ultimo viaggio, in cui il poeta s'immagina, combinando - come lui stesso dice - Omero, Dante e Tennyson, che Ulisse sarebbe partito, già vecchio, per l'ultimo viaggio, ripercorrendo i luoghi visitati di un tempo.

Un viaggio, questo, che l'indovino Tiresia chiese all'eroe greco di fare per placare definitivamente la collera di Poseidone, il cui figlio Polifemo era stato da lui accecato.

Tiresia era stato abbastanza eloquente nell'Ade, dove incontrò Ulisse profetizzandogli che, dopo aver sterminato i Proci, sarebbe dovuto nuovamente partire per mare, verso una terra così lontana che gli abitanti non conoscevano neppure la funzione del remo, tanto che lo scambiavano per un attrezzo agricolo.

«Quando un altro viandante - dice Tiresia - , incontrandoti, dirà che tu hai un ventilabro [che è lo strumento con cui i contadini ventilavano sull'aia il grano, per separarlo dalla pula, trasportata via dal vento], allora, confitto a terra il maneggevole remo e offerti bei sacrifici a Posidone signore... torna a casa... Per te la morte verrà fuori dal mare... » (Odissea, XI).

Il che in sostanza voleva dire che il mercante-militare Ulisse avrebbe dovuto riconciliarsi con la civiltà pacifica del mondo contadino, e poi morire in pace con la propria coscienza.

Ma qui viene il punto. Se tutta la vicenda dell'Odissea è nata dall'accecamento di Polifemo, mostruoso rappresentante del mondo agreste-pastorale, perché mai Ulisse avrebbe dovuto sentirsi in colpa? Perché mai avrebbe dovuto temere la collera di Posidone, visto che nel racconto di Omero è detto esplicitamente che l'astuzia trionfò giustamente sulla forza, la legge sull'istinto e la religione sull'ateismo?

In realtà l'Odissea non avrebbe potuto raccontare quest'ultimo viaggio senza rischiare di scuotere dall'interno la propria struttura architettonica, basata appunto sulla superiorità oggettiva della civiltà schiavile rispetto a quella rurale del mondo primitivo.

La riconciliazione di Ulisse è prospettata da Tiresia come un'esigenza personale dell'eroe, cui egli dovrebbe attenersi per vivere in serenità almeno la propria vecchiaia, quando non avrà più la forza per esercitare il dominio, e la ragione non avrà più motivo di agire con frode e inganno.

In tal senso, seppur solo soggettivamente, l'Odissea rappresenta un superamento dell'Iliade, proprio perché si comincia a intravvedere una sorta di consapevolezza, in almeno uno dei grandi eroi militari, dei guasti provocati da una civiltà antagonistica.

Ed è qui che entra in scena il Pascoli, poeta proveniente proprio dal mondo contadino.

Pascoli non ha pietà dell'Ulisse omerico e ne ridimensiona alquanto le velleità leggendarie: da eroe mitico lo trasforma in un disadattato sociale, in un poveruomo senza identità.

Quando Odisseo rivede la terra dei Ciclopi «gli sovvenne il vanto / ch'ei riportò con la sua forza e il senno, / del mangiatore d'uomini gigante» (XVIII, 10-12). E si rivolge, con la mente, all'aedo Femio (cantore della reggia di Itaca, qui già morto), per dirgli che, nel passato, aveva vissuto in quest'isola un momento di «gloria» (più avanti si cruccerà di non riavere Femio nella stessa grotta di Polifemo, a cantare per l'ennesima volta la sua gloriosa impresa).

Al vedere quell'isola pare gli sia tornata la voglia di fare spacconate, bravate da pirata intellettuale, avido di rapine e di sberleffi ai danni degli ingenui. Proprio come allora dice ai suoi compagni: «le voglio prendere al pastore, / pecore e capre; ch'è, così, ben meglio» (XVIII, 25 s.).

E si vanta di due cose: d'aver accecato il ciclope e di non aver subito alcuna conseguenza dalla maledizione che Polifemo gli lanciò, cioè di perdere in mare i suoi compagni e di non ritornare ad Itaca. «Or sappia che ho compagni e che ritorno / sopra nave ben mia dal mio ritorno» (XVIII, 32 s.).

Ulisse vorrebbe comportarsi come allora: attraccare per rapinare il pastore. Raccomanda i compagni di nascondere la nave, temendo che quello possa colpirla con un masso, come cercò di fare l'ultima volta; e di restarvi di guardia, mentre lui solo, con «Iro il pitocco», sarebbe andato a far visita al «mostro» (si noti l'astuzia di portare con sé questa volta, temendo il peggio, un personaggio del tutto spregevole e insignificante. Iro fu un mendicante di Itaca ucciso dallo stesso Ulisse, perché portava a Penelope i messaggi dei Proci; qui il Pascoli ne fa il ritratto di un ladro affamato e senza scrupoli).

La descrizione della grotta è troppo realisticamente bella per non essere riportata per esteso: «E i due meravigliando / vedean graticci pieni di formaggi, / e gremiti d'agnelli e di capretti / gli stabbi, e separati erano, ognuni / né loro, i primaticci, i mezzanelli / e i serotini» (XIX, 18-23).

Improvvisamente appare una figura del tutto assente nel poema omerico: una donna, la moglie del pastore, in atto di allattare il figlio più piccolo.

Lei si mostra subito molto ospitale, ma Ulisse, schiavo dei pregiudizi, compie la prima gaffe e le chiede: «dunque l'uomo [riferendosi a Polifemo] a venerare apprese / gli dei beati, ed ora sa la legge, / benché tuttora abiti le spelonche, / come i suoi pari, per lo scabro monte?» (XIX, 33-36).

E quella, gentile ma non ingenua: «Ognuno alla sua casa è legge, / e della moglie e de' suoi nati è re. / Ma noi non deprediamo altri: ben altri, / ch'errano in vano su le nere navi, / come ladroni, a noi pecore o capre / hanno predate. Altrui portando il male / rischiano essi la vita. Ma voi siete vecchi, e cercate un dono qui, non prede» (XIX, 38-45). Insomma, legge, religione, di che parli?

Si noti come l'accenno alla «legge» e alla «religione» abbia fatto scattare nella mente della donna (che qui è lo stesso Pascoli) l'equazione «civiltà = ingiustizia». Ingiustizia che si maschera col diritto formale e con il culto ossequioso degli dèi: la civiltà di pochi truffatori che vorrebbero campare a spese di molti onesti lavoratori.

Ma Pascoli è anche fine psicologo, poiché scrive che Ulisse, al sentire quelle parole, «verso Iro... ammiccò: poi disse: - Ospite donna, ben di lui conosco / quale sia l'ospitale ultimo dono -» (XIX, 46-48).

Ulisse saccente, che presume di sapere... Ulisse ironico, che «ammicca», che sa come raggirare i gonzi e quindi anche quella povera contadina e pastorella.

Ad un certo punto, e siamo alla fine del canto XIX, il pastore torna finalmente dalla campagna, e mentre «Iro in fondo s'appiattò tremando» (XIX, 57), la moglie invece «gli venne incontro, e lo seguiano i figli / molti, e le molte pecore e le capre...» (XX, 2 s.).

In mezzo a tutti quei belati, alte grida, fischi, gemiti (XX, 6 s.), «l'uomo vide il vecchio eroe che in cuore / meravigliava ch'egli fosse un uomo» (XX, 9 s.).

Il «vecchio eroe» dei miti, il «superuomo» acheo distruttore di Troia, che non sapeva riconoscere il comune pastore, il tradizionale agricoltore, l’uomo naturale, il quale ora, generoso, lo invita a mangiare...

Ma Ulisse insiste; era venuto per rubare e se ora non è proprio il caso, che almeno gli sia dato modo di vantarsi della sua prodezza sul ciclope. «Io sapea d'un enorme uomo gigante / che vivea tra infinite greggie bianche, / selvaggiamente, qui su i monti, solo / come un gran picco; con un occhio tondo...» (XX, 17-20).

Il pastore lo ascolta come se parlasse di cose insensate ed è costretto a ridimensionarlo: «Venni di dentro terra, io, da molti anni; / e nulla seppi d'uomini giganti» (XX, 22 s.).

Ulisse insiste nella descrizione dell'occhio e, in particolare, sul fatto che Polifemo era un uomo così grande da poter scagliare delle pietre in mare, dall'alto di una montagna.

Ma il pastore non ha voglia d'ascoltare favole e, rivolgendosi alla moglie, le chiede di fargli mente locale: «Non forse è questo che dicea tuo padre? / Che un savio c'era, uomo assai buono e grande / per qui, Telemo Eurymide [un profeta che viveva tra i ciclopi], che vecchio / dicea che in mare piovea pietre, un tempo, / sì, da quel monte, che tra gli altri monti / era più grande; e che s'udian rimbombi / nell'alta notte, e che appariva un occhio / nella sua cima, un tondo occhio di fuoco...» (XX, 34-41).

Dunque un semplice vulcano in eruzione. Di che parla Ulisse? Vaneggia come un mitomane? O forse si son rivoltate le parti ed è il pastore che lo prende in giro?

Ulisse però non demorde e di nuovo domanda: «E l'occhio a lui chi trivellò notturno?» (XX, 43). «Ed il pastore ad Odisseo rispose: / Al monte? l'occhio? trivellò? Nessuno. / Ma nulla io vidi, e niente udii. Per nave / ci vien talvolta, e non altronde, il male» (XX, 45-47).

Quindi se accecamento ci fu, nessuno più lo ricorda. In tutta semplicità il pastore ha smontato non solo la mitologia classica, ma anche le fantasticherie intellettuali e politiche di quanti con l'inganno vorrebbero dominare il mondo.

Ci piace immaginare che il pastore sia stato talmente furbo da usare la parola «nessuno» nello stesso identico modo in cui la usò Ulisse per ingannare Polifemo. Se «Nessuno» ha fatto qualcosa, perché «Qualcuno» dovrebbe ricordarlo?

Ma non vogliamo forzare i testi: qui piuttosto sembra che il pastore svolga la parte di uno psicanalista che lascia parlare il proprio paziente affinché si liberi delle proprie ossessioni.

Sarebbe comunque interessante immaginare, in chiave surreale, che il pastore sia lo stesso Polifemo, che Ulisse, da vecchio, rivede com'egli era sempre stato: un semplice pastore di pecore, e che solo un interesse di parte aveva voluto trasformare in un mostro orrendo. Il racconto del Pascoli è così moderno che potrebbe essere proseguito in mille modi diversi.

Senza considerare ch'esso si conclude addirittura in maniera comica, allorché, concluso il dialogo tra i due, «dal fondo Iro avanzò, che disse: / - Tu non hai che fanciulli per aiuto. / Prendi me, ben sì vecchio, ma nessuno / veloce ha il piede più di me, se debbo / cercar l'agnello o rintracciare il becco. / Per chi non ebbe un tetto mai, pastore, / quest'antro è buono. Io ti sarò garzone» (XX, 48-54).

Non ci è dato sapere dal Pascoli che fine fece questa curiosa richiesta, ma se questi sono i valori della civiltà mercantile, se questa è la dignità di chi segue le leggi e i culti religiosi, è facile immaginarselo.

Nei primi versi del canto XXI è descritta la mesta partenza di Ulisse dall'isola dei Ciclopi. Le presunte verità dell'eroe sono state duramente mortificate, ed egli ora è solo, chiuso nella sua tristezza. «E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo / squittiva dentro, come cane in sogno: / Il mio sogno non era altro che sogno; / e vento e fumo. Ma sol buono è il vero» (XXI, 13-16).

Omero aveva mentito, ma il cantore Femio gli aveva fatto da eco tante di quelle volte che persino l'attore principale di questa epopea s'era convinto che la finzione fosse realtà, come un attore hollywoodiano che s'immedesima talmente nella parte da non sapere più chi è.

 

Sito ufficiale

Biografia - Il gelsomino notturno - La via ferrata - Poeta e iniziato - Lettore di Manzoni - La cavalla storna - Pascoli politico - Arano

Fonti


Web Homolaicus


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019