PASCOLI LETTORE DI MANZONI

PASCOLI LETTORE DI MANZONI

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Pascoli accademico


Nelle sue lezioni dattiloscritte, che si possono trovare nell'Archivio di Castelvecchio di Barga (Lucca), dedicate al Manzoni, quelle tenute nell'a.a. 1908-1909 presso l'Università di Bologna, di cui si parla nel n. 16/2004 della "Rivista pascoliana", Giovanni Pascoli, che pur certamente mai s'era entusiasmato della religione cattolica, preferendo di gran lunga la classicità latina, ha parole di particolare apprezzamento per il modo in cui il Manzoni parla della fede. E anzi si meraviglia che questo "Virgilio cristiano" - come lui lo chiama - non avesse ottenuto sino a quel momento, da parte della critica, il riconoscimento che gli si doveva, lui che in tutta la sua vita aveva mostrato - osserva giustamente il Pascoli - "la crudezza e la ferocia e il danno e il disonore della servitù straniera, facendone risaltare le ruberie, gli stupri tentati o fatti, la peste, la fame, la guerra recata, i bravi e i mendicanti, i don Abbondio e le monache di Monza".

A noi contemporanei può sembrare paradossale che un testo come i Promessi Sposi, considerato unanimemente un capolavoro nazionale, secondo solo alla Divina Commedia, e praticamente punto di riferimento obbligato in tutte le scuole superiori, al suo sorgere non godesse alcuna simpatia, nonostante il successo editoriale, anche estero, né da parte degli ambienti clericali né da parte di quelli laici politicamente impegnati (liberali o repubblicani che fossero). Gli uni lo giudicavano troppo spregiudicato nel denigrare l'istituzione ecclesiastica (rappresentata da varie figure meschine e di dubbia moralità, come don Abbondio, il padre provinciale e la monaca di Monza); gli altri invece, al contrario, lo ritenevano troppo condiscendente nei confronti della cultura cattolica, coi suoi continui riferimenti alla provvidenza che tutto risolve, alla carità cristiana che tutto perdona, alla non-violenza ipostatizzata, allo spirito di sopportazione che i protagonisti più positivi dimostrano di possedere lungo tutta la storia romanzata. Ci vorranno le lezioni del De Sanctis nel 1877 per convincersi dell'abbaglio ideologico con cui s'era esaminata l'opera, e persino il Croce, poco prima di morire, dovette fare ammenda dei propri errori.

Il Pascoli cerca di assumere una via mediana: plaude, da un lato, alla posizione anticlericale del Manzoni, ma dall'altro valorizza la genuinità del suo sentire religioso, specie là dove si può capire che "cristianesimo" e "cattolicesimo" (sottinteso "romano") sono due cose diverse, come poi dirà espressamente nelle Osservazioni sulla morale cattolica. Quel che di Manzoni il Pascoli dice doversi accettare molto tranquillamente è il regime di separazione tra chiesa e stato, secondo i principi del cattolicesimo liberale, analoghi peraltro, su questo punto, a quelli dei maggiori protagonisti politici e intellettuali dell'unificazione nazionale.

Da buon socialista, un po' libertario un po' anarchico, Pascoli non aveva difficoltà a condividere una concezione - quale la manzoniana - che voleva riportare il cattolicesimo nel suo alveo più originale (in senso teologico e cronologico), privo di ambizioni temporali. La stessa spiritualità del cattolico Manzoni possiede in sé qualcosa di così umano - fa capire il poeta, qui critico letterario - che non avrebbe potuto lasciare indifferente neppure una coscienza atea.

Pascoli insomma, sulla scia del De Sanctis, in controtendenza persino col suo maestro Carducci (che vedeva nell'Italia moderata e conformista molto manzonismo, benché al letterato milanese riconoscesse "un sentimento di cristianesimo democratico e umano"), e lontanissimo dagli ambienti classicisti della sua formazione scolastica (Collegio di Urbino), il cui purismo era così assoluto da indurlo a leggere i Promessi Sposi solo nei momenti liberi e di nascosto - Pascoli insomma aveva capito, prima di molti altri, che il Manzoni non era semplicemente un grande scrittore, che aveva introdotto per primo in Italia "il fascino della realtà descrittiva" (ciò che non pochi suoi denigratori gli riconoscevano, benché pochissimi apprezzassero la commistione di poesia e storia), ma che lo era anche per il suo messaggio etico-religioso, al punto che poteva essere paragonato a Dante Alighieri.

Infatti del Manzoni gli piaceva tutto, in primis i continui agganci della sua poesia, del suo romanzo, delle sue tragedie, alle vicende politiche del suo tempo, magari in forma allusiva indiretta simbolica, ma mai astrusa retorica superficiale. Manzoni - al dire di Pascoli - non vedeva contraddizione tra istanza a una patria libera e indipendente e pratica della fede (ciò che invece fece dire a Carlo Cattaneo che proprio per questa ragione il papato avrebbe voluto mettere il Manzoni al rogo).

Osservazioni critiche in stile gramsciano, che sicuramente anche i classici Marx ed Engels avrebbero potuto fare al Manzoni "cristiano", non lo sfiorano neppure. Il socialismo pascoliano, infatti, benché ateo, resta paternalistico e - diremmo oggi - "buonista", come il cattolicesimo manzoniano, e anzi le spinte colonialistiche della sua Grande Proletaria paiono una prosecuzione ideale del grande romanzo manzoniano, una sorta di grido di dolore per un Risorgimento incompiuto, tradito dalla stessa borghesia che l'aveva voluto.

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Ma ora vediamo, più nel dettaglio, cosa dice del Manzoni il Pascoli accademico. Anzitutto fa una ricostruzione biografica del personaggio sicuramente superiore a tante odierne antologie scolastiche, dove non sempre vengono intrecciati, in maniera così stringente - colpa in questo del purismo crociano - i contenuti delle opere di un autore con le vicende della sua vita personale e del suo ambiente sociale e politico.

Facciamo alcuni esempi. Manzoni si converte al cristianesimo (giansenista) nel 1810 e, per dimostrare questo "risorgimento" della sua anima, due anni dopo scrive l'inno Risurrezione, che Pascoli ritiene, di tutti gli Inni, il migliore in assoluto, proprio perché "fatto di getto" e il più vicino ai Fasti di Ovidio.

Avrebbero dovuto esser dodici, gli Inni, uno per ogni singola solennità, ma quando arriva alla Passione, nel 1814, s'interrompe, perché, finito il regno napoleonico, in seguito alla prima abdicazione dell'imperatore, Milano era rimasta senza governo, essendosi ribellata ai francesi del viceré Eugenio di Beauharnais che avevano concluso col feldmaresciallo austriaco Bellegarde un armistizio, e siccome Manzoni era anche un uomo interessato alla politica, che agognava la libertà e l'indipendenza nazionale, scrive la "robusta canzone" Aprile 1814, che doveva servire per incitare gli italiani a liberarsi sia dei francesi che degli austriaci. Tuttavia proprio l'insurrezione dei milanesi contro i francesi aveva offerto agli austriaci il pretesto per occupare la città.

Paradossalmente il regno d'Italia, ch'era stato sotto il Beauharnais e che ora si trovava sotto Francesco I, imperatore d'Austria, ricevette un aiuto inaspettato dal regno di Napoli, governato da Gioacchino Murat, che durante i Cento giorni di Napoleone pensò, col suo Proclama di Rimini del marzo 1815 (scritto da Pellegrino Rossi, precisa il Pascoli), di tentare per proprio conto l'indipendenza dell'Italia unificata.

La sua sconfitta fu un colpo per il Manzoni (anche in senso letterale, poiché la nevrastenia che lo prese non l'abbandonerà più. Pascoli sa bene che Manzoni soffriva anche di epilessia e agorafobia); sicché il letterato patriota tornò a scrivere altre strofe alla Passione, concludendola nello stesso anno.

Pascoli non ha dubbi nel sostenere che, pur di ottenere l'indipendenza nazionale, Manzoni non avrebbe alzato un dito per impedire che Murat cominciasse "con l'invadere e occupare Roma e il territorio della chiesa, anzi!". Per il Manzoni il concetto di "provvidenza" non andava interpretato con rassegnato fatalismo. Anzi, lui voleva essere "il poeta lo scrittore l'apostolo dell'Italia aspettata". Ecco perché scrisse anche Il Proclama di Rimini, a mo' di canzone augurale, a favore del tentativo muratiano, esponendosi non poco (proprio nello stesso periodo il Foscolo sceglieva invece l'esilio elvetico).

Pascoli aveva capito che Manzoni non aveva nulla del Rosmini e del Gioberti, non si sentiva un guelfo ma un ghibellino, pur essendo fermamente credente. Religione e Patria erano in fondo gli stessi valori di Mazzini, che non era certo un clericale.

Le Tragedie vengono scritte in seguito allo sconforto per il fallimento di Napoleone e di Murat, i quali traspaiono in maniera abbastanza evidente, per chi sa collegare poesia e storia, nei destini del Conte di Carmagnola e di Adelchi. In particolare nel coro dell'Adelchi l'invettiva è contro gli italiani che non hanno sostenuto con convinzione, da protagonisti, i tentativi dei due francesi. I Franchi sono gli austriaci e i Longobardi i francesi. Gli italiani s'illudono che gli austriaci saranno migliori dei francesi, ma "la Santa Alleanza - scrive il Pascoli - aveva liberato l'Italia dal giogo incomportabile dei francesi, non per lasciarla libera, bensì per gravarla di un giogo anche peggiore".

Così nel Carmagnola gli italiani non combattono contro lo straniero che li opprime, ma contro se stessi: "il perché non lo sanno nemmeno loro: sono mercenari venduti a un duce venduto". E non si rendono conto che gli austriaci, pur essendo cattolici come loro, pur avendo ricevuto da loro la fede cristiana, non sapranno che farsene quando vorranno dominare l'Italia, anzi useranno la stessa fede cattolica come pretesto per dominarli, cacciando dalle loro menti le velleità laiciste e giacobine delle armate napoleoniche.

Ecco spiegato il motivo per cui Manzoni decise di scrivere le Osservazioni sulla morale cattolica (pubblicata nel 1819). Alle accuse che il Sismondi muoveva agli italiani di meritarsi l'oppressore proprio perché la loro eccessiva religiosità impediva loro di conseguire l'indipendenza attraverso un'insurrezione popolare, Manzoni obietta che non gli italiani sono corrotti e tanto meno la religione cristiana, quanto piuttosto chi se ne serve per scopi di privilegio, di conservazione di un mero potere politico autoritario. Il cristianesimo è sempre "col popolo oppresso, e quindi coi ribelli, coi congiurati, coi carbonari, coi mazziniani; e non coi Papisti, cogli Austriacanti, con S. M. Apostolica" - così scrive il Pascoli, convinto di leggere fedelmente il pensiero del Manzoni, senza però rendersi conto che la carica rivoluzionaria del cristianesimo non sta nel cristianesimo in sé ma negli eventi cha accadono storicamente, che quando sono eversivi sanno usare il cristianesimo in maniera corrispondente, essendo questa una religione ambigua, che si presta a interpretazioni contraddittorie. Certamente non sarebbe stato possibile pretendere che il Pascoli arrivasse ad apprezzare (anche perché gli erano del tutto ignoti) gli esiti della Sinistra hegeliana, secondo cui il cristianesimo paolino era stato una forma di tradimento del messaggio originario del Cristo.

Il Manzoni comunque torna a infervorarsi durante il primo moto carbonaro in Piemonte, in cui viene proclamata la Costituzione, e scrive l'ode Marzo 1821, santificando le sette e i carbonari, benedicendo quanti erano incarcerati nello Spielberg (Pellico, Confalonieri ecc.). Ma a causa del fallimento di quel moto, rinuncia a pubblicarla, non per paura - precisa il Pascoli - ma perché gli appariva uno scherno il cantare un passaggio del Ticino non avvenuto.

Tuttavia, proprio in quell'anno comincia a metter mano al suo capolavoro, in cui mostrerà che la migliore esperienza della fede religiosa sta nel popolo oppresso (Renzo, Lucia, Agnese, fra Cristoforo...), e certamente non nei potenti (rappresentanti nel romanzo dagli austriaci in panni iberici) e neppure in tutta quella accozzaglia di opportunisti e fiancheggiatori che non hanno coraggio di reagire, perché in fondo amano solo se stessi (don Abbondio, il padre provinciale, la monaca di Monza, il dottor Azzeccagarbugli...). La religione, quando vuole essere coraggiosa (cardinale Borromeo), sa anche convertire l'oppressore (Innominato).

Poteva sapere il Pascoli che il Borromeo non era affatto quello stinco di santo descritto nel romanzo? che aveva marcati tratti antisemiti e che si rese responsabile di varie esecuzioni a carico di presunte streghe e di presunti monatti durante la peste? Forse no, però non poteva non sapere che fu proprio quella descrizione paludata, agiografica, fortemente idealizzata del più grande arcivescovo di Milano del Seicento, una delle prime a dividere in due i critici del Manzoni.

Ma qui, come il Pascoli è stato indulgente nei confronti del Manzoni, così noi vogliamo esserlo con lui. E ci piace concludere questo resoconto delle sue lezioni accademiche riportando le sue espressioni più significative.

"Il Manzoni credeva, dunque, che la religione dovesse redimere l'Italia; se questo non si avverò, se nel lungo dramma del Risorgimento italiano, la religione stette dalla parte dell'oppressore contro l'oppresso, non fu colpa, secondo il Manzoni, della religione, ma del suo capo. Il Manzoni è, in questo, erede legittimo di Dante Alighieri che voleva la spada separata dal pastorale, la separazione assoluta di queste due potestà...".

"E il Manzoni, così pio, dice queste parole che meravigliano (e qui si conclude la lezione pascoliana): - Avrebbero fatto assai bene i Papi a rimanersene ad Avignone; l'Italia deve a loro la condizione in cui è".

Sito ufficiale

Biografia - Il gelsomino notturno - La via ferrata - Pascoli e Ulisse - Poeta e iniziato - La cavalla storna - Pascoli politico - Arano

Fonti


Web Homolaicus


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019