ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA


LA GRANDE STAGIONE UMANISTICA

Leonardo da Vinci

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Leonardo, Ultima Cena, 1498 (dopo l’ultimo restauro), Convento di S. Maria delle Grazie, Milano

Dario Lodi

Leonardo da Vinci (1452-1519) fu totemizzato ben dopo la sua morte, a umanesimo prono verso la scienza pratica, meccanicistico e privo della ispirazione spirituale. Leonardo inventore diventò nei secoli successivi il personaggio per eccellenza dell’intero fare umano. La sua poliedricità fu contenuta nell’invenzione di sistemi rivoluzionari, benché non sempre funzionanti. Ovviamente c’erano degli impedimenti oggettivi, il fallimento era dovuto alla mancanza di mezzi adatti al successo. Tale mancanza non impediva però all’immaginazione di funzionare. E Leonardo fu in tutta la sua vita sempre alle prese con qualcosa di nuovo, spesso accantonando il vecchio a metà.

Totemizzarlo non gli si fa un grande favore. L’epoca in cui visse il nostro grande personaggio amava l’alchimia, grazie ai testi di Ermete Trismegisto, finalmente disponibili sia in latino sia in volgare (si sa che Leonardo li leggeva e apprezzava), ma amava pure il neoplatonismo, Aristotele e certe finezze concettuali e speculative di Pico della Mirandola. Amalgamare tutto questo insieme non era affatto difficile, per quanto poi ne derivassero complicazioni interpretative e quindi comportamenti effettivi.

Leonardo ebbe la forza – determinata da una curiosità sana – di avocare a sé le interpretazioni e di manipolarle secondo principi costruttivi e non contemplativi come era in uso. La sua fu una grande svolta intellettuale. I principi conclamati dell’umanesimo furono resi concreti dal suo senso di responsabilità. L’uomo sì al centro delle cose, ma non come parodia divina e celeste, bensì come entità pienamente cosciente di sé. La questione divina è risolta da Leonardo con il riconoscimento della spiritualità, una faccenda privata, dentro la propria materia, che merita considerazione. Che il Nostro riservò alla stessa con passione sincera.

Sicuramente Leonardo fu più attratto dalle cose positive che da quelle teoriche e sentimentali. Del resto nel ‘4-500 trionfava il fare. Le corti italiane erano alla continua ricerca di soluzioni per offendere e per difendersi. L’incertezza dominava ovunque. L’Italia era appetita dalle grandi nazioni del nord, come la Francia, che l’Impero non voleva certo perdere. Alla calata di Carlo VIII di Francia seguì la guerra fra Francesco I (successore di Luigi XII, figlio di Carlo VIII) e l’imperatore Carlo V. Lodovico il Moro, Signore di Milano, era per una politica ambigua, una politica che alla fine gli fece perdere il Ducato. Leonardo, a Milano dal 1482, preferì andarsene: era il 1499, i Francesi erano diventati padroni della città con Luigi XII e il Nostro decise di tornare a Firenze, da dove, non essendo amato, cominciò una peregrinazione per la penisola: fu da Isabella d’Este a Mantova, fu a Venezia, chiamato per problemi idraulici, tornò un’altra volta a Firenze chiamato dal Gonfaloniere Pier Soderini (era il 1501, pare che qui avesse dissapori con Michelangelo: i due non si adoravano di certo).

Nel 1502 lo troviamo con Cesare Borgia come ingegnere militare. Quasi certamente assistette, attonito, alla presa vergognosa di Urbino da parte del Borgia, non nuovo a simili colpi di mano. Fu poi a Pisa e di nuovo a Firenze col Soderini che lo inserì – ma la cosa è molto controversa – nel progetto di prendere Pisa tramite una deviazione dell’Arno, impresa che non ebbe seguito per il suo enorme costo.

Nel 1508 ecco un secondo soggiorno a Milano, dove gli viene affidato Francesco Melzi, quindi a Roma e a Bologna sempre come ingegnere. Leonardo, in gravi difficoltà economiche (i committenti pubblici lo pagavano in modo irregolare) decide, nel 1517, di lasciare l’Italia per la Francia, grazie alla protezione di Francesco I, al quale aveva venduto la “Gioconda”, che gli riserverà una sorta di pensione. Il re gli mise a disposizione il castello di Clos-Lucé accanto a quello di Amboise. Qui il nostro passò serenamente gli ultimi anni. Morì il 2 maggio del 1519 e fu sepolto nella chiesa del castello di Amboise. Cinquant’anni dopo, nella lotta fra cattolici ed ugonotti, la tomba fu profanata, probabilmente in un impeto di iconoclastia indiscriminata, e le ceneri disperse.

La praticità lombarda fu determinante nella formazione del carattere leonardesco. Leonardo veniva da una Firenze neoplatonica, molto teorica e molto compiaciuta di sé: culturalmente era la prima città d’Europa e quindi inviava ovunque i suoi artisti quali ambasciatori della sua grandezza. Il Nostro arrivò a Milano nel 1482 portandosi appresso una lunga lettera di presentazione: solo alla fine specificava di essere pittore, scultore, architetto. Nei brani precedenti, glorificava, secondo il cerimoniale del tempo, la sua bravura nel concepire mezzi di offesa e di difesa; altrove era un ingegnere idraulico (Milano, con i suoi navigli, aveva bisogno di bravi ingegneri), eccetera.

Con quale preciso incarico Lorenzo il Magnifico spedì Leonardo da Lodovico il Moro (moro era chiamato per la carnagione scura) non è dato sapere con esattezza. Ma certo si può supporre che venne come aiuto a Bartolomeo Gadio nell’architettura militare. Gadio morì nel 1484, due anni dopo l’arrivo di Leonardo, e pare che quest’ultimo ne prendesse il posto, pur ricevendo altri, eterogenei, incarichi.

Leonardo, al pari di altri artisti del tempo, fu considerato soltanto qualcosa di più di un servitore, non un genio. Era inconcepibile allora la genialità applicata alla pittura. Quest’ultima era al servizio della religione e della committenza laica comunque apparentata alla prima (gli stilemi erano sostanzialmente gli stessi), contava la narrazione sacra, oppure la solennità laica legata, in qualche modo, alla stessa : certo una Madonna fatta bene era preferita ad una fatta meno bene, ma la cosa finiva qui. Il Nostro godeva di una certa attenzione, sfociante in molto più di un riconoscimento esecutivo, ma questo non impediva affatto al potere di servirsi di lui come organizzatore di feste per nozze o per altri avvenimenti curiali, parlandone poi con lo stesso entusiasmo usato nella visione di un suo quadro. Siamo in un secolo di ricerca delle meraviglie, lo spirito alchemico salta fuori dappertutto. Ma è la meraviglia ad attrarre, non chi la fa.

Il nostro poliedrico personaggio ebbe quasi sempre problemi economici. E’ ben nota una sua lettera a Ludovico il Moro con la quale si lamenta dei pochi soldi ricevuti dovendo provvedere al sostentamento di sei persone, fra cui una certa Caterina, forse sua madre (Leonardo era figlio illegittimo del notaio ser Piero da Vinci, di famiglia facoltosa). Questo spiega, in parte, la rara finitura dei suoi lavori. Egli passava da un’opera all’altra e da una cosa all’altra senza alcuna remora. Usava tecniche complesse, anche di sua invenzione, con esiti puntualmente felici. Fallì clamorosamente a Palazzo Vecchio, dove Pier Soderini tentò di fargli dipingere la battaglia di Anghiari (su un’altra parete Michelangelo lavorò al cartone della battaglia di Cascina, il dipinto non venne mai eseguito, i cartoni di entrambi i lavori finirono dispersi), altrettanto a Milano: la famosissima “Ultima Cena” sulla parete del refettorio del convento di S. Maria delle Grazie, dovette essere più volte restaurata, pena l’oblio. Rigoroso, invece, fu, il nostro artista, nella realizzazione delle tavole (poche quelle accreditate di sua mano, molti gli aiuti).

Leonardo ripropose i personaggi e l’atmosfera platonica. Nulla di carnale. Fu accusato di sodomia mentre era nella bottega del Verrocchio (una bottega dove si praticava artisticamente di tutto e dove il Nostro acquisì la massima curiosità per il sapere) ma fu scagionato. La sua reazione si legge nei suoi scritti. Parafrasando: Chi è prigioniero dei sensi vada con le bestie; gli organi sessuali sono orrendi, l’umanità si riproduce per la bellezza dei volti e l’armonia dei corpi.

Nei dipinti, Leonardo raccoglie i dati sensibili della propria personalità e li esprime seguendo un ordine preciso. Il rispetto nei confronti del tema religioso è assoluto ed è sottolineato in modo razionale e sentimentale da interventi dialettici che si risolvono nell’accettazione del fenomeno spirituale. Egli è spettatore maturo del lungo processo spirituale iniziato all’indomani della caduta dell’impero romano. L’idea di un nuovo ordine regolato dalla Chiesa, in quanto conservatrice di quello spirito, ha una logica interiore che la religione istituzionalizzata rappresenta al meglio. Tanto è vero che ha potere e credito. Ci sarebbe da verificare perché ha le due cose, ma Leonardo è troppo concentrato sul valore della spiritualità in sé.  

Come pochi egli ha lo scrupolo di indagare lo spirito, non chi lo rappresenta. Chi lo rappresenta è in grado di soddisfare questo scrupolo: certo lo fa indirettamente e inconsapevolmente. Ad esempio, l’Ultima Cena è un soggetto abusato in quel tempo e solitamente si risolve in qualcosa di mistico ripiegato su se stesso. Leonardo vivifica il soggetto attraverso la caratterizzazione dei personaggi, di ogni personaggio. E’ come se mettesse degli uomini comuni di fronte al mistero cristiano e da fuori osservasse la scena. D’acchito la platea si anima, i personaggi assumono atteggiamenti e comportamenti coerenti con il discorso umanistico: curiosità pratica e riconoscimento della trascendenza rappresentata da Cristo (non un totem, bensì una figura sacra alla quale è possibile stare vicini). Questo dipinto, eseguito in un posto inadatto (un muro umido) e con una tecnica inadeguata, ha una storia tribolata. Fu concluso nel 1494, non è certo che sia tutto di sua mano. Vari gli aggiustamenti, il primo fatto dallo stesso pittore, l’ultimo, per ora, è del 1999 per mano della restauratrice Pinin Brambilla Barcilon, dopo oltre vent’anni di lavoro.

Leonardo fu molto amico di fra’ Luca Pacioli, di Sansepolcro, a Milano negli stessi anni. Luca Pacioli è autore del “De divina proportione”, un testo chiave per la comprensione della sezione aurea. Nessuno l’applicò alla perfezione, Leonardo l’amò e fu fra i più fedeli nell’applicazione della regola. La cosa gli consentiva una resa precisa del proposito intellettuale e morale inseriti nel dipinto. L’inserimento non è a viva forza, ma è concepito come una conseguenza naturale. La natura viene insomma esaltata da regole scientifiche: la scienza riconosce il valore della natura e quindi di chi l’armonizza. L’uomo, in quanto divinizzato dalla figura cristiana, assume finalmente la responsabilità di vedere e di ammirare la realtà determinata dallo spirito. Per dimostrare quanto l’uomo sia degno di questa promozione, Leonardo concepisce l’Uomo Vitruviano (1490, oggi a Venezia, Gallerie dell’Accademia), immaginando una perfezione assoluta nella forma del corpo umano. Tale assolutezza consente la contemplazione consapevole del dato spirituale che, in tal modo, va oltre i dogmi della Chiesa.

E’ ben noto che Leonardo non amava lacci e laccioli di nessun genere, compresi quelli ecclesiastici. Allora la cosa poteva destare sospetti, ma il nostro artista proseguì sempre coraggiosamente per la sua strada, divenendo intoccabile per chiara e meritata fama. Non dimentichiamo che due re di Francia, Luigi XII e Francesco I, lo protessero e lo vollero con sé, il secondo insistendo per un soggiorno in Francia, dove Leonardo passò gli ultimi anni trattato come un principe e morendovi serenamente.

Leonardo non si sottrasse certo alle committenze devozionali, ma le eseguì a modo suo, pur rispettando le aspettative generali. In questo quadro di straordinaria bellezza, La “Vergine delle rocce” (1486, Louvre, Parigi), il nostro artista pone fede e razionalità, la seconda al servizio della prima, ma con un suo orgoglio d’essere che sconfina dalla fede convenzionale. Leonardo usa ogni “malizia” per esaltare l’epifania sacra. Ricorre a simbolismi che, secondo il modo di pensare del tempo., evidenzia e nasconde nelle immagini: i simbolismi fanno parte di un credere istintivo in via di normalizzazione razionale grazie a testi paralaici e parareligiosi del tempo. Leonardo aveva nella sua biblioteca, fra i numerosi altri volumi, il testo canonico dell’ermetismo tradotto da Marsilio Ficino e a quanto pare lo consultava spesso (il Nostro aveva imparato da solo il latino, ma sappiamo che del testo esisteva una versione volgarizzata da Tommaso Benci, allievo di Marsilio Ficino. Leonardo amava molto i libri e non tollerava lo si chiamasse “omo sanza lettere” solo perché lontano, con la mente, dal neoplatonismo imperante).

Il fascino dell’ermetismo fu indubbio nel mondo umanistico, ma non prevalse mai sugli insegnamenti del classicismo pagano, in parte voltato alla preparazione del Cristianesimo dalle grandi figure intellettuali prodotte dal Cristianesimo stesso. Leonardo, in questo quadro, si avvale sicuramente dell’ermetismo (che è un arrivare a Dio battendo strade proprie) ma non se ne fa prigioniero. Alla misteriosofia da decifrare con “riti propiziatori” egli oppone una dialettica spirituale che di qua, dalla parte dell’uomo, sta come accennata, è allusiva, mentre dall’altra parte, quella sacra, è immediata, conclusiva, incisiva. Ma fra le due posizioni esiste una soluzione unica rappresentata da un equilibrio di rara suggestione: totale è il convincimento di una realtà spirituale sopra ogni cosa. Il nostro artista agisce con delicatezza e con l’eleganza derivata da una consapevolezza piena dell’evento da narrare, o meglio sarebbe dire da riportare nella sua interezza oggettiva baciata da una trascendenza che è nelle cose e che quindi si fa meraviglia alla cui fonte abbeverarsi. Questa opera ha mille momenti incantevoli e mille proposte intellettuali che si sciolgono in un vivo e partecipato stupore, in qualche modo normalizzato dalla mente e dall’arte di Leonardo.  

Leonardo era dotato di talento naturale e aveva un gran senso scenografico, non bisognoso di tanti aggiustamenti. Nel quadro “Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino” (1513?, Louvre, Parigi) l’artista, molto ispirato, realizza una composizione ideale, piena di movimento, colma di pathos, viva di vita esemplare. Strepitoso è il movimento dell’agnellino, probabilmente un’idea scaturita dalla volontà umana di sottrarsi all’obbligo religioso per abbracciare finalmente la religione con una certa cognizione di causa. L’opera è arricchita dal timbro coloristico, il famoso “sfumato” leonardesco, che imprime al tutto una particolare sensibilità di cui è impossibile non incantarsi. Leonardo veniva dalla scuola toscana, dove innanzi tutto era importante il disegno, mentre il colore aveva una funzione di semplice abbellimento: il Nostro dà invece al colore una funzione espressiva apparentemente indiretta, nella realtà essenziale alla comprensione del discorso di fondo, un discorso legato al progetto di massimo avvicinamento materiale alla spiritualità. Nel caso, tutto avviene con proprietà e con rispetto verso la sacralità dell’ispirazione. Lo sfumato ha soprattutto una funzione di vivacità spirituale dell’insieme. In effetti, l’opera non è plastica dal di fuori, bensì è animata dal di dentro, così che l’espressione si presenta come vera e istantanea. Ma è un istante che sublima altri istanti, per cui l’impressione dell’osservatore è che si tratti di una perfezione trascendentale. Lo sfumato leonardesco è anche il riconoscimento umano della propria imperfezione.

L’immagine di Leonardo tende a mescolarsi con il tutto, per quanto si ostini, senza ostentarla, a far valere la propria chiarezza. Essa è nell’immagine, che non delimita con precisione, altrimenti l’opera umana definitiva sarebbe in opposizione al disegno divino. Solo Dio conosce i segni perfetti, l’uomo vi può ambire, avvicinare, cominciando ad agire dentro l’oggetto-soggetto. Tutto ciò anche per quanto riguarda la riproduzione di personaggi sacri, in quanto ciò che conta veramente, per Leonardo, è la voce dello spirito. Egli si allontana dal totem, pur non potendo staccarsi dallo stesso per molteplici logiche esterne al suo modo di essere: un modo che rende museale il Medioevo.

La “Gioconda” (1503-1517, Louvre, Parigi) è un quadro d’occasione che Leonardo ha fatto divenire uno dei primi quadri laici in assoluto. La serenità della donna – un volto pacifico ed ottimista – è il simbolo dell’umanità consapevole di sé. Si direbbe finalmente se l’espressione femminile avesse qualcosa di forzato, ma questa espressione è ovvia. Il processo di auto-coscienza è avvenuto attraverso una maturazione naturale: i dati esterni, compresi quelli trascendentali, sono stati compresi dalla sensibilità e dall’intelligenza umana. Leonardo riversa tutto ciò nel ritratto del volto di una donna, ovvero dell’essere per eccellenza per la nascita e lo sviluppo dell’essere umano. Con discrezione, con tatto, il nostro pittore si allontana da obblighi sacri e si concentra, con determinazione, sulla figura umana in sè e affida alla medesima il compito di essere la madre di una nuova umanità. Per l’artista è un’evoluzione inevitabile. Egli trasmette già l’avvio dell’emancipazione da ogni dogma. La “Gioconda” fa nascere l’uomo nuovo, curioso, dubbioso, sicuro della validità delle proprie risorse: Leonardo e i suoi “figli”.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 09/02/2019