PIERO DELLA FRANCESCA
LA FLAGELLAZIONE DI CRISTO


SIGNIFICATO E VALORE DELLA PROSPETTIVA (1-2-3)

Per dimostrare che la soluzione artistica escogitata da Piero della Francesca è significativa non tanto dal punto di vista dell'umanesimo laico quanto da quello del razionalismo astratto, occorre che qui vengano esaminati due aspetti fondamentali della sua pittura: la prospettiva delle cose e l'impassibilità dei personaggi.

Anzitutto bisogna dire che il quadro non va visto da sinistra a destra, pensando a qualche scansione temporale o a qualche precedenza ideale, ma da destra a sinistra, considerando che il titolo dell'opera, quale conosciamo oggi, è certamente fuorviante e che la flagellazione ha più che altro un valore simbolico-evocativo di un fatto storico più o meno contemporaneo alla vita dell'artista.

Le tre figure in fondo, più i due fustigatori, sono un "doppio", una replica delle tre figure in avanti e non il contrario, poiché qui non c'è una priorità teologica dei personaggi, ma una priorità storica. Tommaso Paleologo coincide col Cristo, Bessarione con Pilato (che rappresenta il basileus Giovanni VIII Paleologo, convertitosi al cattolicesimo nella speranza di salvare il trono e l'impero) e il sultano rappresenta in un certo senso la conseguenza del fallito tentativo unionistico di Ferrara-Firenze del 1438-39, di cui il dignitario latino, Niccolò III d'Este, morto nel 1441, con fama di uomo crudele e dissoluto, fu uno degli organizzatori e intermediari.

Cristo alla colonna è un riferimento simbolico-culturale astratto di eventi coevi all'artista, in cui i poteri dominanti sono quelli ecclesiastici e laici dei due imperi: greco-ortodosso e cattolico-latino, di cui il primo ridotto a brandelli a causa dei nemici esterni (l'islam turco) che sanno sfruttare le sue interne contraddizioni, e il secondo ridimensionato nelle sue pretese politico-integralistiche dai nemici interni (borghesia e intellettuali umanisti).

Nella tavola la storicità degli eventi non viene rappresentata in maniera realistica ma simbolica, proprio a motivo dell'ambiguità dei personaggi in primo piano, non adeguatamente identificabili.

Tale indeterminatezza la si nota anche semplicemente sul piano tecnico. Se esistesse una quarta figura, in piedi, accanto alle altre tre, che guardasse sullo sfondo, non potrebbe osservare gli altri cinque personaggi nelle proporzioni che vediamo: dovrebbero essere molto più grandi. La prospettiva che rende i personaggi sullo sfondo di una statura che è la metà di quella degli altri, è geometricamente impossibile.

L'aspetto intellettuale del quadro prevale nettamente su quello realistico. Se Piero avesse voluto fare qualcosa di realistico avrebbe dovuto produrre qualcosa del genere:

Modello delle architetture rappresentate nella Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca Realizzazione di Philip Steadman (Legno)

Non solo, ma se ci si mette in posizione frontale, rispetto alle figure di fondo, quelle in primo piano appaiono un'evidente forzatura, una meccanica giustapposizione, al punto che devono essere viste dal basso verso l'alto.

Se invece ci si pone di fronte alle tre figure centrali, quelle del fondo devono essere viste dall'alto in basso.

E se si guardano tutte le figure contemporaneamente si ha subito un'impressione di inadeguatezza: l'occhio è costretto a vedere due cose su piani diversi e si trova disorientato. Questo perché esiste una diversa illuminazione (proveniente da fonti diverse) e una diversa costruzione spaziale che separa figurativamente i due gruppi.

Insomma l'occhio è costretto a una prospettiva che viene negata proprio dalle tre figure in primo piano, che dovrebbero invece contribuire a garantirla, senza distogliere l'attenzione dello spettatore.

Il dipinto dunque è sì una rievocazione politica di un evento storico, ma dal punto di vista stilistico è soltanto una forma di sperimentazione del significato della prospettiva.

Il vero protagonista in realtà non è il dramma storico-ideale e men che meno quello storico-teologico, ma è piuttosto la geometria dello spazio, attraverso cui si tentano soluzioni inedite, ardite, in cui l'intersezione delle linee e delle diverse tonalità di colore con cui quelle stesse linee vengono riempite, appare come un gioco meramente intellettuale, razionalistico.

Sotto questo aspetto formale bisogna comunque ammettere che è semplicemente incredibile la luminosità che permea le tinte accostate ed esaltate per similitudine o per contrasto (basta vedere la ricchissima varietà di bianchi usati nelle strutture architettoniche, oppure il risalto della testa bionda del giovane scalzo contro le fronde).

In questa ricercata illusione ottica, prodotta artificialmente, Piero si serve senza scrupolo di un soggetto religioso altamente drammatico e di un altro soggetto, questa volta storico, non meno drammatico (la caduta di Costantinopoli), e di entrambi presume di conservare il pathos interiore rendendo gli sguardi impassibili, in maniera analoga all'iconografia bizantina.

Qui però l'impassibilità (o atarassia) non solo non ha alcun contenuto religioso, ma anche dal punto di vista laico non esprime valori umanamente significativi, in quanto la spiritualità che caratterizza gli sguardi è troppo aristocratica, troppo distaccata dalla realtà.

Le figure sembrano più che altro un elemento architettonico da collocare in uno spazio geometrico: le teste non sono che sfere, i colli e i corpi meri fusti di colonne. La fusione tra figure e spazio vuole essere totale, ma lo è dal punto di vista astratto dello spazio.

La persona viene semplicemente usata per rappresentare un'idea razionalistica. A questo escamotage l'artista in un certo senso è stato costretto dal fatto che, avendo perduto la società borghese un riferimento tradizionale al valore delle cose, e non avendo saputo sostituirlo con un altro di pari intensità emotiva e socialmente condivisibile, l'artista s'è per così dire trovato isolato, chiuso nel proprio talento o addirittura -come in questo caso- genio artistico.

Il pittore ha qui cercato di ricostruire autonomamente un valore alternativo a quello obsoleto della religione dominante, e il fatto che vi sia riuscito solo in maniera artificiosa, con un procedimento che è oggettivo semplicemente nella speculazione della scienza più astratta di tutte: la matematica, è indicativo del limite sociologico della classe sociale cui egli appartiene, quella per cui ha dovuto negare le origini umili del proprio passato.

La prospettiva, che doveva rendere dinamica la scena, introducendo il concetto di profondità geometrica, in realtà la rende statica, poiché non lascia spazio all'emotività, ma solo a una curiosità intellettuale frutto di un dinamismo manierato, concettuale.

Lo sguardo dello spettatore viene guidato dalla tridimensionalità e in questa è come ingabbiato, in quanto è costretto a procedere continuamente a destra e a sinistra, avanti e indietro e viceversa, senza poter trovare un punto di pace, di rassicurazione.

E' come stare dentro una stanza piena di specchi in cui l'immaginazione subisce continui stimoli artificiali che impediscono l'identificazione e la serena contemplazione di ciò che può dare un senso alla vita. Non c'è profondità spirituale in questo dipinto, ma solo intellettuale.

Non può ovviamente esserci in chiave religiosa, poiché i personaggi che dovrebbero rappresentarla sono posti sullo sfondo, ma non c'è neppure in chiave laica, poiché la pretesa di inserire una visione storica delle cose in una di tipo logico-matematico, in cui l'architettura prevale nettamente sulla pittura, in cui si vorrebbero personificare le cose e cosificare le persone, è una pretesa povera di valori umanistici, è una pretesa povera di tensione emotiva, e la flagellazione è soltanto un "oggetto di discussione" tra i poteri forti, come lo fu il destino di Costantinopoli nei concili unionisti, dove le pretese strumentali prevalevano su quelle ideali.

Non c'è modo di assicurare una vera profondità spirituale con l'impassibilità dei volti, quando questi volti non rimandano a qualcosa di veramente significativo ed esprimono in ultima istanza solo se stessi. Lo spettatore non può essere costretto a cercare nell'opera dei simbolismi, delle allegorie che vadano oltre il suo contenuto rappresentativo, al fine di dare a questo contenuto un valore ontologico che non ha.

Non possono essere dei simbolismi misteriosi a dare un senso etico al dipinto, sia perché non era questa l'intenzione dell'artista, che presumeva di far coincidere contenuto e forma, sia perché anche questa sarebbe comunque un'operazione intellettualistica, una forzatura.

Qui non si discute il fatto che l'artista abbia voluto togliere alle figure una drammaticità descrittiva, palese, ma il fatto che il prezzo della sdrammatizzazione sia stato fatto pagare al senso di umanità dei personaggi, alla possibilità di esprimere dei sentimenti positivi.

Peraltro, anche nel caso in cui si fosse voluta affrontare la flagellazione in chiave meramente laica, la sdrammatizzazione degli sguardi e delle posture dei corpi non avrebbe potuto essere così accentuata da rappresentare quelle torture come una sconfitta inevitabile dell'umanità o del lato umano della storia.

Riprodurre il classicismo greco-romano in presenza della flagellazione è stato possibile a Piero solo a condizione di mettere quest'ultima sullo sfondo, incapsulata in un'architettura che la sovrasta nettamente come significato. Persino i carnefici si adeguano ai partiti architettonici di tipo albertiano, come qualche critico ha detto.

Se Piero avesse fatto l'architetto, probabilmente avrebbe costruito edifici in cui l'abitabilità sarebbe stata idonea solo per gli intellettuali. Come in quella "Città ideale" che probabilmente proviene dalla sua scuola:

Città ideale, Galleria Nazionale, Urbino

Nel migliore dei casi potremmo dire, dando per scontato che l'artista (filo-bizantino) si identifichi, in qualche maniera, col dramma del giovane biondo (la figura più controversa di tutte), ch'egli è solo in grado di rappresentare dei soggetti in cui il coinvolgimento personale nelle diatribe del loro tempo (nella fattispecie teologiche e politiche) si pone in maniera più che altro esteriore, associato a uno sguardo filosofico, in lontananza, rivolto verso altrove, verso un punto esterno allo stesso dipinto.

Piero, quale intellettuale laico e umanista, può giustamente aver considerato vetuste le polemiche teologiche sul filioque, sul pane azzimo e sul purgatorio, ma sta di fatto ch'egli non ha neppure permesso a quelle più propriamente politiche (p.es. le pretese universaliste di un papato integralista) di coinvolgerlo in maniera significativa.

In tal senso resta ambigua l'identificazione di Pilato con Giovanni VIII Paleologo: il basileus sta guardando impotente la fine del suo impero, schiacciato da un nemico esterno troppo forte, oppure l'artista ha voluto identificarlo col carnefice di Cristo in quanto proprio quell'imperatore tradì la causa dell'ortodossia religiosa cercando di trovare con Roma un'intesa politica che gli salvasse il trono?

Si è detto che il dolore, in questa tavola, non viene rivelato dall'espressione dei volti, essendo tutto interiore. In realtà non è un dolore che lo spettatore può condividere. E' un dolore che deve restare nei meandri dell'inconscio, perché così vuole l'artista: un po' per timore di ritorsioni, un po' perché, a forza di tenerlo represso o frenato, nessuno sa più come poterlo esprimere.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 27/08/2015