ANDROMACA E IL CONFLITTO ETNICO

ANDROMACA E IL CONFLITTO ETNICO


I

In Euripide è stupefacente la capacità di calarsi nei personaggi, soprattutto in quelli femminili. Non vi è solo l'arte di caratterizzarli psicologicamente, ma anche quella di farli partecipare a vicende politiche, in contrasto col fatto ch'egli fu sostanzialmente un intellettuale impegnato solo a livello culturale.

I temi sociali ricorrenti, costantemente intersecati da riflessioni di tipo politico, sono quelli del rapporto tra schiavo e libero, tra uomo e donna, tra figli legittimi e naturali, tra mogli e concubine, tra greco e barbaro, tra credente e non credente. In una parola si potrebbe dire tra potente e umile, in cui domina il senso forte del destino, quel fato che influisce non poco sull'interpretazione degli eventi tragici. È il genere letterario della tragedia in sé che si presta particolarmente a un'interpretazione di tipo fatalistico. In ciò non vi è molta differenza dai grandi film hollywoodiani di tipo tragico degli anni '50 e '60 del secolo scorso. L'individualismo è lo stesso, coi suoi valori di forza maschilista e di proprietà privata; la differenza sta nel fatto che il protestantesimo aveva aperto le porte a una progressiva laicizzazione dei valori, che poteva avvalersi di una prodigiosa rivoluzione tecnico-scientifica.

Tuttavia l'Andromaca di Euripide possiede una tragicità un po' forzata, poco convincente. Lo dimostra il fatto che si è voluto cercare un lieto fine avvalendosi di un artificio retorico, come il deus ex-machina, mentre la tragicità vera e propria viene data alla rappresentazione da un personaggio che non entra mai in scena, Neottolemo, il figlio di Achille, qui padrone di Andromaca, ottenuta da Menelao come bottino di guerra durante la devastazione di Troia.

Sino alla morte violenta e inaspettata di Neottolemo, tutto sembra essere sospeso nel vuoto, al punto che la vera tragedia pare concentrarsi sul fatto che la principessa Andromaca era finita a fare la schiava concubina dell'assassino di suo marito Ettore e di suo figlio Astianatte, e gli aveva persino partorito tre figli. E, come se ciò non bastasse, Andromaca s'era attirata l'odio di Ermione, moglie legittima di Neottolemo, a motivo della sua sterilità.

Questa tragedia quindi non può non vedere Andromaca come avvocatessa di tutte le proprie incolpevoli sventure. E chi, meglio di lei, può raccontarle? Giusta quindi la scelta di farglielo fare già a partire dal prologo.

II

Andromaca non era una greca ma un'asiatica, figlia del re di Tebe, città che lei aveva lasciato per andare a vivere a Ilio, in sposa di Ettore, figlio maggiore di Priamo, ucciso da Achille in un epico duello. Il figlio che aveva avuto da lui, Astianatte, era stato ucciso da Neottolemo, che aveva fatto fuori lo stesso Priamo, presso l'altare di Zeus. Ottenuta Andromaca da Menelao, Neottolemo l'aveva poi portata a Ftia, di Farsalo, dov'egli lasciava che regnasse ancora l'anziano nonno Peleo, padre di Achille.

Stranamente Euripide fa dire ad Andromaca d'aver avuto da Neottolemo un solo figlio. Stando al mito però di figli gliene diede tre: Molosso, Pielo e Pergamo. Di questi, in effetti, viene soprattutto ricordato il primo, che diede il nome alla popolazione illirica dei Molossi, stanziata in Epiro. Secondo una versione del mito, Molosso fu condotto in Epiro dalla stessa Andromaca che, dopo la morte di Neottolemo, si era sposata con Eleno, fratello di Ettore, traditore dei Troiani. Non dimentichiamo però che, secondo un'altra variante del mito, sia Molosso che Andromaca furono uccisi da Ermione, la moglie che Neottolemo aveva sposato successivamente, soffiandola a Oreste, cui, in un primo momento, era stata promessa da Menelao.

La tragedia di Euripide parla della rivalità tra queste due donne, ma non arriva a parlare né della morte di Andromaca, né del fatto che Ermione sposò proprio Oreste, l'assassino di suo marito. Il tema è semplicemente quello del rapporto tra una moglie legittima di origine greca e un'amante schiava di origine asiatica. Problemi di ordine etnico s'intersecano continuamente con quelli di ordine coniugale.

Nel prologo Andromaca afferma che, a partire dal momento in cui Neottolemo aveva sposato Ermione, non aveva avuto più rapporti con lei, pur tenendolo ancora come schiava nella reggia. Ermione però accusava della propria sterilità la stessa Andromaca (parla di "filtri occulti", usati generalmente dalle donne asiatiche), allo scopo di sostituirsi definitivamente a lei nella gestione della reggia.

La scena si apre con la presenza di Andromaca nel santuario di Teti, ove si era rifugiata, temendo che Ermione volesse eliminarla, mentre Molosso era stato trasferito, clandestinamente, in un'altra casa. In quel frangente Neottolemo si trovava a Delfi (1), nel santuario di Apollo, il dio che aveva aiutato Paride a eliminare Achille.

Che cosa intenda Andromaca con la frase: "Era andato follemente a Pito per chiedere conto ad Apollo di suo padre ucciso", è presto detto. Subito dopo la morte del padre, Neottolemo, il "giovane guerriero", si era recato nel tempio di Apollo probabilmente per dire, agli abitanti di quella città, che il loro dio non valeva nulla, visto che comunque i Greci avevano sconfitto i Troiani (forse questo potrebbe spiegare perché Neottolemo fu ucciso da una sorta di sollevazione popolare).

In seguito però, vedendo che non riusciva ad avere figli da Ermione, aveva pensato che Apollo si fosse vendicato, per cui aveva deciso di ritornarvi per fare ammenda: si era reso conto d'aver sbagliato a pretendere da Apollo di rendere conto a lui della morte del padre.

III

L'ancella viene a dire ad Andromaca che Ermione e suo padre Menelao avevano ritrovato Molosso ed erano molto adirati con lei. Andromaca si dispera, anche perché sa bene che Peleo è troppo anziano per poterla difendere.

Quando va a trovarla, Ermione l'accusa subito d'averla resa sterile coi suoi filtri, per farla cacciare di casa; inoltre la biasima perché proviene da una "razza di barbari", dove i padri si uniscono con le figlie, i figli con le madri, le sorelle coi fratelli e i congiunti si uccidono tra loro. Qui Ermione non fa che ripetere, acriticamente, le calunnie che il mondo greco era solito usare per giustificare la sua espansione coloniale nelle terre asiatiche. Sembra non rendersi neppure conto che se Andromaca condivideva il talamo con l'assassino di suo marito, non lo faceva certo di sua spontanea volontà. Stando al ragionamento di Ermione, la logica avrebbe dovuto indurre Andromaca a compiere una sola cosa: suicidarsi.

La difesa di Andromaca è su due livelli: politico (se Ermione non fa figli, Neottolemo si sposerà con un'altra donna, ma non considererà certo i figli avuti da una schiava come suoi legittimi successori: e qui è strano che Ermione non avesse pensato a una considerazione così evidente); etico (la sterilità non dipende da alcun filtro, bensì dal fatto che Ermione non sa come si fa la moglie, in quanto è priva di doti morali, nel senso ch'essa deprime suo marito, facendogli capire che Sparta è più importante di Ftia, che Menelao è più grande di lui, ecc.).

La soluzione che Andromaca le propone è quella di amare suo marito per quello che è, e di rassegnarsi al fatto che in una società maschilista come quella, gli uomini possono avere anche più donne (essere gelosa del proprio marito era del tutto insensato, soprattutto negli ambienti altolocati). Lei stessa si era trovata ad allattare i figli naturali che Ettore aveva avuto con le sue amanti. Anzi, la stessa Elena, madre di Ermione, era passata, disinvoltamente, da un marito (Menelao) a un altro (Paride).

IV

Chiuso il dialogo con Ermione, entra in scena Menelao, che reca con sé il figlio di Andromaca, Molosso. Menelao vuol difendere a occhi chiusi la figlia Ermione e minaccia di uccidere Molosso se Andromaca non esce dal santuario.

Vedendo un ricatto del genere, Andromaca considera Menelao un uomo "dappoco", che non si rende conto né della falsità delle parole di sua figlia, "che è ancora una bambina", né delle conseguenze di un gesto scriteriato, quale quello di uccidere il figlio di Neottolemo: inevitabilmente Ermione verrà cacciata di casa e farà fatica a trovare un altro marito.

Vista però l'irremovibilità di Menelao, intenzionato a uccidere proprio Andromaca, per l'odio che nutre nei confronti di tutti i Troiani, accetta di uscire dal recinto del luogo sacro. D'altra parte è consapevole che la sua vita è troppo penosa per essere vissuta. Le dispiace piuttosto che Menelao non abbia dato assicurazioni reali sul destino di Molosso, in quanto egli ritiene che su di lui debba decidere Ermione, che comunque è intenzionata a volerlo morto.

Di qui l'invettiva di Andromaca contro gli Spartani: "Gente odiosa a tutti più di tutti, consiglieri fraudolenti, sovrani di menzogne, ordinatori di guai... I vostri successi per la Grecia sono senza ragione... Non siete tirchi e gretti? Avvezzi a dire una cosa e a pensarne sempre un'altra?".

Giudizi certamente pesanti, che forse spiegano perché questa tragedia sia andata in scena sotto falso nome d'autore, in un momento in cui Sparta era in procinto di occupare Atene (pare addirittura che non venne neppure rappresentata ad Atene).

Prima di chiudere questa scena, Euripide fa parlare il coro, che, in un certo senso, riflette la concezione della vita matrimoniale che aveva l'autore, quella del rapporto monogamico e della fedeltà coniugale. In questo cerca di venire incontro alle ingiustizie subite dalle donne, a motivo del loro sesso. Il coro vuole quindi porsi a un livello superiore rispetto a quanto prima diceva Andromaca, quando parlava di "rassegnazione".

V

Entra in scena Peleo, che subito chiede a Menelao perché voglia farsi giustizia da sé, senza prima aver sentito tutte le parti in causa. Menelao risponde che Andromaca fu fatta prigioniera da lui a Troia e che Neottolemo l'ebbe soltanto in dono, per cui, essendo essa anche una propria schiava, si sente autorizzato a farne ciò che vuole.

La figura di Peleo, pur essendo re di Tessaglia, sembra qui voler rappresentare le migliori tradizioni ateniesi (democratiche) in antitesi a quelle dittatoriali spartane. Inevitabilmente quindi Euripide ne approfitta non solo per esprimere, per bocca di Peleo, le sue critiche contro i valori e lo stile di vita di un'etnia guerrafondaia come quella lacedemone, che pur si vantava d'essere non meno "greca" di quella ateniese, ma anche per mostrare l'atteggiamento più tollerante degli Ateniesi nei confronti dei cosiddetti "barbari asiatici".

Infatti Peleo, che pur aveva parlato di "regolare processo", qui non interpella Menelao chiedendogli ragione del suo comportamento, ma scivola subito in un terribile sfogo contro gli Spartani in generale, come già fatto da Andromaca, di cui non smentisce alcunché.

C'è però qualcosa di strano in questa filippica pregiudizievole nei confronti di un intero popolo: quanto meno pare esagerata rispetto al contenzioso in atto in quel momento. Da un lato infatti la tragedia sembra voglia essere un atto di denuncia dei pregiudizi razziali o discriminazioni etniche sostenuti dagli Spartani contro i Frigi, cui Andromaca apparteneva; dall'altro però, condannando gli Spartani qua talis, Peleo finiva col cadere nel medesimo errore che denunciava.

Vediamo le singole accuse. Anzitutto attribuisce la facilità con cui Elena, moglie di Menelao, aveva accettato una relazione extraconiugale con Paride al fatto che a Sparta le donne "vanno fuori di casa coi giovani, a cosce nude e coi pepli svolazzanti, e fanno insieme a quelli corse e prove ginniche". E si meraviglia che Menelao, invece di ripudiare Elena, abbia preferito muovere una guerra così disastrosa anche per i Greci.

Gli rimprovera inoltre d'essere tornato da Troia senza avere la più piccola ferita, anzi portandosi a casa le stesse identiche armi con cui era partito. Gli rinfaccia inoltre d'aver indotto Agamennone a sacrificare sua figlia Ifigenia. E lo accusa d'essere un violento, un prevaricatore, un uomo sessualmente debole. Addirittura non vuole più vederlo e, con lui, la figlia Ermione: "È meglio avere come suocero e amico un uomo povero, ma onesto, che un malvagio che sia ricco".

È curiosa la replica di Menelao, poiché dice a Peleo che dovrebbe cacciare Andromaca oltre il corso del Nilo e del Fasi: proprio i luoghi in cui lui e la moglie Elena andarono a vivere per otto anni prima di poter tornare a Sparta dopo la caduta di Troia. A parte questo, egli ribadisce il concetto che il fatto d'aver permesso a un greco come Neottolemo di fare figli con una nemica irriducibile della Grecia, è stata una follia, per cui, nel caso di specie, non si può neppure parlare di "omicidio", ma semplicemente di prevenzione contro il pericolo di un inquinamento etnico. Se la moglie legittima non riesce a fare figli, non si può rischiare che i figli di una nemica della patria possano un giorno regnare su Ftia. Vanno eliminati proprio per opportunità politica, dando per scontato che una loro integrazione completa con gli usi e i costumi dei Greci non sarebbe mai possibile.

Oggi avremmo definito Menelao un fanatico, un uomo mentalmente gretto, chiuso, ideologico, con una figlia plagiata. Ma la risposta di Menelao non finisce qui. Anzitutto vuol difendere Elena, attribuendo agli dèi, cioè a una volontà superiore, il fatto ch'essa, incontrando Paride, se ne fosse invaghita. Il fine superiore è dimostrato dagli effetti che si ottennero a causa di quella vicenda amorosa: scoppiò una guerra che fece capire il valore a uomini ignari di armi e di battaglie (sembra qui di stare a sentire un militarista convinto che, solo facendo la guerra, si possono fortificare i caratteri). "L'esperienza, per i mortali, è maestra di tutto" - gli dice, senza rendersi conto di riferirsi esclusivamente a un'esperienza di dolore e di morte.

In secondo luogo gli fa capire che se avesse voluto uccidere Elena, quando Troia cadde, avrebbe potuto tranquillamente farlo e nessuno avrebbe avuto nulla da ridire, ma vi si astenne, anzi la riportò con sé a Sparta, proprio perché era saggio per lui comportarsi così. Dopodiché ricorda a Peleo come invece lui, in gioventù, si comportò come un pazzo furioso quando uccise il fratellastro Foco (2). Menelao quindi non vuol prendere lezioni di comportamento da lui.

Peleo però non è un tipo che si fa mettere i piedi sulla testa, e controreplica. "Voi Spartani, se non aveste gloria militare e bellico vigore, non ci sarebbe nulla in grado di distinguervi". Cioè gli fa capire ch'essi non hanno, in realtà, alcuna forma di saggezza; anzi, persino quando combattono, finiscono per prendersi tutti i meriti solo i comandanti, e Menelao, non a caso, è uno di questi, che si prese una parte degli onori della vittoria su Troia senza aver fatto nulla per meritarseli davvero (salvo il fatto - si potrebbe aggiungere - che duellò con Paride, rischiando peraltro di morire, e si mise all'interno del cavallo ideato da Ulisse per espugnare la città).

A questo punto Menelao se ne va, col pretesto che vuole sottomettere una cittadina vicina a Sparta, un tempo amica e ora divenuta ostile. Promette però che sarebbe tornato per parlare personalmente con Neottolemo. Andromaca quindi è salva, ma teme che la cosa durerà poco, non avendo molta fiducia nella capacità di resistenza di un vecchio come Peleo, che pur dispone di una cavalleria e di molti opliti.

Insomma, come si può facilmente notare, Euripide sembra aver voluto evitare di schierarsi decisamente dalla parte degli Ateniesi.

VI

Entra in scena la nutrice di Ermione, rivelando che, a causa dei sensi di colpa per quello che aveva avuto intenzione di fare la sua padrona, vuole impiccarsi, anche perché teme che il marito, quando verrà a sapere tutto, la ucciderà o la caccerà di casa; e chiede se c'è qualcuno che possa aiutare la sua signora a superare questo momento di disperazione.

Questo qualcuno è Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra. Siccome era diretto al santuario (antichissimo) di Zeus, a Dodona, città dell'Epiro, aveva di passare per Ftia, per far visita a Ermione (un percorso in realtà poco comprensibile, sia perché non si spiega perché un Greco andasse a pregare in un santuario così lontano e in fondo così poco significativo, sia perché non si capisce da dove egli fosse partito: probabilmente però da Argo, reggia che aveva ereditato da suo padre Agamennone).

Oreste aveva un conto in sospeso con Neottolemo, poiché inizialmente Menelao aveva promesso a lui di sposare Ermione. Quest'ultima spiega a Oreste tutti i suoi risentimenti verso Andromaca, e gli chiede di portarla via da lì. Aggiunge anche un particolare inedito: l'idea di far fuori Andromaca e suo figlio non era stata sua, ma di "cattive consigliere", che le avevano detto quanto fosse indecente per lei far condividere al marito il talamo con un'infima schiava prigioniera di guerra. Aveva insomma scaricato su di loro la responsabilità delle sue intenzioni omicide.

Al sentirla, Oreste decide di parlare chiaro. Considera Menelao un vile per essersi rimangiato la promessa che un tempo gli aveva fatto. E qui veniamo a sapere che la decisione di Menelao di dare Ermione a Neottolemo era vincolata alla partecipazione alla guerra di Troia e naturalmente alla sua conquista. Finita la guerra, Oreste volle riconciliarsi con Menelao e supplicò anche Neottolemo di non sposare Ermione. Neottolemo però l'aveva insultato, facendogli capire che Menelao non avrebbe mai potuto dare la propria figlia a uno che aveva avuto l'impudenza di uccidere la propria madre Clitennestra. Di qui l'idea di vendicarsi.

Oreste ammette di conoscere molto bene i dissapori tra Ermione e Andromaca e che non vedeva l'ora che scoppiassero, per cui è ben felice di portarla via da lì e di riconsegnarla a Menelao, sperando che questa volta si convinca che il matrimonio con Neottolemo era stata una scelta sbagliata. Agisce con così grande disinvoltura perché evidentemente sapeva di poterlo fare.

VII

La tragedia vera e propria arriva alla fine, quando un nunzio avvisa che Neottolemo non è tornato a Ftia perché è stato ucciso a Delfi, dalla popolazione locale, istigata dallo stesso Oreste, che aveva sparso la calunnia secondo cui Neottolemo aveva intenzione di saccheggiare il tesoro del tempio di Apollo, nemico irriducibile di suo padre. Il nunzio sostiene che Oreste era lì, essendo l'ideatore occulto di quel linciaggio. Quindi, quando era giunto a Ftia, aveva già eliminato il rivale.

Peleo è disperato, sull'orlo del suicidio, ma improvvisamente gli appare, come dea ex-machina, Teti, sua moglie, che abitava le profondità del mare, la quale gli anticipa che Andromaca si sposerà con Eleno, fratello di Ettore, e con lui abiterà il paese dei Molossi, sicché la stirpe di Peleo continuerà a vivere, mescolata con quella troiana.

Euripide insomma è arrivato finalmente a dire che la soluzione migliore per impedire il razzismo è l'unificazione libera e paritetica delle etnie rivali, greca e barbara. Un messaggio, per quei tempi, sconvolgente. Sotto questo aspetto non sono mancati critici che hanno ritenuto la tragedia un'opera di propaganda rivolta ai regnati dell'Epiro.

Il resto è molto astratto e poco convincente: Euripide ha voluto edulcorare, con un improbabile lieto fine, una vicenda che aveva anche avuto, a tratti, un forte realismo psicologico. Teti infatti promette al marito che sarebbe stato trasformato in un "dio perenne", per cui, in quel momento, non aveva più motivo di piangere, in quanto tutto viene deciso dal destino, cui nessuno sfugge.

La tragedia nulla dice della sorte di Oreste, ma, secondo il mito, egli ottenne da Menelao, dopo aver sposato Ermione, la sovranità su Sparta, regnandovi fino a novant'anni. Da Ermione ebbe il figlio Tisamene. Si legò però anche a Erigone, che gli generò Pentilo. Secondo una versione del mito morì in Arcadia per il morso di un serpente, simbolo della sua personalità.

Note

(1) Nel testo si parla di Pito, che è soltanto il nome più antico di Delfi, città della Focide, sulla pendice meridionale del Parnaso.

(2) Peleo, insieme al fratello Telamone, uccise con un discobolo l'altro fratellastro Foco, che il loro padre Eaco aveva avuto dalla nereide Psamate. Lo uccisero perché il padre, vedendo che nelle attività sportive era molto più bravo di loro, lo stimava alquanto ed era quasi intenzionato a considerarlo come proprio successore. Per questo motivo Peleo s'era rifugiato a Ftia, in Tessaglia, dove aveva sposato Antigone, figlia del re Eurizione. Il caso (?) volle che, mentre partecipava alla caccia del cinghiale di Calidone, uccise involontariamente il suocero. Questo fatto lo costrinse ad andarsene a Iolco, alla corte di Acasto, la cui moglie però voleva avere con lui una relazione extraconiugale. Vedendo il suo rifiuto, lo mise in cattiva luce presso il marito, il quale, ad un certo punto, aveva intenzione di ucciderlo, ma non vi riuscì. Anzi sarà Peleo che l'ammazzerà e, con lui, la moglie. Quando poi sposò Teti, sua ultima moglie, da cui ebbe Achille, essa era così contraria al matrimonio che gli uccise tutti i sette figli, ad eccezione appunto di Achille, dopodiché si separò da lui.

Testi di Euripide

Altri testi su Andromaca di Euripide

Vedi anche Alcesti, Baccanti, Ecuba, Ippolito, Medea, Eraclidi


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019