IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
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Il programma della rivoluzione e la Quarta Internazionale
I. Introduzione Gli anni ‘30 rappresentano il momento più alto della crisi del movimento operaio internazionale, con la sconfitta, passiva, impotente, del proletariato tedesco di fronte al nazismo. In quel decennio, di fronte alla degenerazione di tutte le organizzazioni del movimento operaio, Trotskij propose la creazione della Quarta Internazionale. Il documento di fondazione di questa internazionale è il programma di transizione che porta a compimento quasi cento anni di riflessioni dei marxisti sul problema del programma, inteso come metodo per orientare e organizzare i lavoratori. Giova ripercorrere brevemente il filo di queste riflessioni per poi proporre una discussione su quello che deve essere il programma di transizione di questa epoca. II. Dal Manifesto alla Quarta Internazionale Sin dalla nascita del movimento operaio, la discussione sul suo programma d’azione si è sviluppata lungo due piani, che corrispondono anche grosso modo alle due formule organizzative della classe: sindacati e partiti. Vi sono dunque aspetti sindacali-economici (le condizioni di vita immediate dei lavoratori) e questioni politiche generali. Questa suddivisione, che è insieme di coscienza, di organizzazione e di fini, è essenziale. Gli aspetti sindacali-economici costituiscono la battaglia di trincea, la difesa giorno per giorno dei diritti elementari dei lavoratori. Si tratta di una battaglia di logoramento, necessaria ma allo stesso tempo poco fruttifera di fronte alle contromosse del capitale. Lo sviluppo della lotta sul piano politico deriva, appunto, dall’esperienza che i lavoratori fanno della parzialità della battaglia sindacale che ha natura tendenzialmente difensiva. Nella prima metà dell’ottocento il movimento operaio è ancora impegnato in una lotta contro i residui del feudalesimo e per la conquista dei diritti politici rivendicati dalla Rivoluzione francese (diritto di voto, di associazione, ecc.). Troviamo un’eco di questo duplice fronte di battaglia (contro il feudalesimo e contro il capitalismo) nel breve programma contenuto nel Manifesto:
Marx ed Engels ritengono necessaria una rivoluzione che abbatta gli attuali rapporti di proprietà e raggiunga “vittoriosamente la democrazia”. Una volta ottenuto il potere politico, il proletariato dovrà concentrare le forze produttive nelle mani dello Stato per aumentare con la massima velocità possibile lo sviluppo delle forze produttive. Questo sviluppo farà perdere al potere pubblico il suo contenuto politico, di classe, portando all’estinzione dello Stato. Per circa quindici anni, la teoria e il programma contenuti nel Manifesto furono conosciuti da una ridotta avanguardia del movimento operaio in Gran Bretagna e Germania, anche perché la sconfitta delle rivoluzioni del ‘48 aveva aperto un periodo di reazione. La nascita della prima Internazionale (1864) e lo sviluppo delle organizzazioni operaie in Germania permisero al socialismo scientifico di diffondersi nelle file del proletariato. Tuttavia, ancora nel 1875, quando nacque il partito socialdemocratico, il programma adottato era essenzialmente lassalliano, una variante di riformismo con forti venature nazionalistiche e cooperativistiche. Marx fu costretto a dissociarsi dal programma detto di Gotha, dal nome della località dove avvenne l’unificazione delle organizzazioni socialiste nel nuovo partito socialdemocratico. Nell’occasione scrisse anche una critica radicale di questo programma. Particolarmente importante è la critica che Marx muove alla teoria dello Stato che il programma implicitamente abbraccia e che costituirà una costante della socialdemocrazia tedesca. Recita ad esempio il programma: “Il partito operaio tedesco…chiede l’istituzione di società di produzione con l’aiuto dello Stato, sotto il controllo democratico del popolo lavoratore”. Come si vede, qui si ipotizza che lo Stato borghese aiuti la trasformazione sociale, negando alla radice la sua natura di classe. Dopo l’unificazione, lo stesso sviluppo della lotta di classe condusse all’abbandono progressivo delle diverse teorie socialiste utopistiche in favore della teoria marxista. Così, dopo nemmeno vent’anni, il socialismo scientifico era divenuto la teoria ufficiale del movimento operaio tedesco ed europeo. Questo si vide con il programma di Erfurt, scritto in un momento decisivo, quando il SPD si stava strutturando come un partito operaio moderno. Il congresso di Halle, tenutosi nel 1890, all’indomani della caduta di Bismark, segnò la nascita dell’organizzazione moderna del proletariato. Il partito venne riorganizzato con una struttura centralizzata nazionale, una direzione eletta al congresso, da tenersi ogni anno, un organo di stampa centrale, ecc. Il compito di stendere il programma fu dato a Kautsky, allora il più eminente teorico del partito. Sebbene rispetto al programma di Gotha, rappresenti un indubbio passo avanti, al vecchio Engels non sfuggirono i suoi punti deboli. In particolare, c’erano due aspetti pericolosi: il programma sembra assai rigido su questioni politiche astratte, generali, ma poi non c’è nessuna rivendicazione ponte per i problemi del presente. Questo implicava un totale scollamento tra l’obiettivo della rivoluzione socialista e la pratica politica della socialdemocrazia. In secondo luogo, ancor più decisivo, il programma mantiene nei fatti una concezione dello Stato riformista. In questo senso, Il titolo della quarta sezione è già un cedimento decisivo a quello che sarà di lì a pochi anni il revisionismo di Bernstein, si chiama infatti “Lo Stato del futuro”, lasciando intendere che la prospettiva dell’estinzione dello Stato va lasciata cadere. Sebbene Kautsky paghi omaggi formali al marxismo (ad es.: “come ogni Stato, anche lo Stato moderno è uno strumento del dominio di classe” e anche “solo quando le classi lavoratrici diventeranno dominanti, lo Stato cesserà di esistere, cesserà di essere un’impresa capitalistica”), al dunque, quando si tratta di stabilire il rapporto tra classe operaia e Stato, Kautsky ritorna alla vecchia idea lassalliana: “il proletariato alla fine dovrà diventare la classe dominante nello Stato” (nello Stato, cioè nello Stato borghese). Come si vede la concezione marxista dello Stato è del tutto travisata, cosa che diventerà il marchio di fabbrica dei partiti della seconda Internazionale, portandoli a sviluppare una dicotomia politica tra “programma minimo” (cioè battaglie di infimo spessore politico, spesso addirittura nefaste per l’insieme dei lavoratori) e programma massimo (cioè nei giorni di festa si parlava di socialismo, senza mai spiegare come e quando il partito si sarebbe attrezzato per una simile prospettiva). Contro questa situazione, Engels scriveva a Kautsky:
La prima guerra mondiale si incaricò di dimostrare quanto le preoccupazioni di Engels fossero fondate: l’Internazionale socialista venne distrutta in un’orgia di sangue in cui militanti della stessa organizzazione si sparavano e sbudellavano l’un l’altro nelle trincee di mezza Europa. Nell’epoca che ne seguì i marxisti hanno cercato di elaborare una strategia per la creazione di un programma che superasse la dicotomia tra programma minimo e massimo con il concetto di programma di transizione. Il programma di transizione è un programma che contiene una serie di rivendicazioni attuabili in un contesto pienamente capitalistico (ne parleremo più sotto), ma che considerate nel loro insieme sono in grado di spingere la società in una direzione alternativa, che ponga le basi per una trasformazione radicale. Ogni singola rivendicazione, o alcune di esse, sono spesso attuate da governi socialdemocratici o persino conservatori. Nei periodi di grave crisi del capitalismo, i riformisti adottano persino l’idea di piano. Nel ‘33-’35 il partito operaio belga, la Cgt francese e altre organizzazioni socialdemocratiche europee adottarono un “piano” con diverse idee prese dal marxismo. Sebbene, come spiegò all’epoca Trotskij, questa mossa fosse un tentativo disperato di sviare la classe operaia da posizioni rivoluzionarie, i marxisti in questi casi devono utilizzare l’idea di piano dei riformisti per proporre la concezione del programma di transizione. Su un piano più generale, la questione decisiva è il modo con cui le diverse rivendicazioni operano sinergicamente per uscire dalla crisi del sistema attraverso vie nuove. Ovviamente il programma deve cambiare con i tempi e le circostanze, ma il suo effetto è simile: lungi dal tamponare la crisi del capitalismo a spese dei lavoratori, rifiuta di farsi carico della sua salvezza e pone le basi per una transizione. Il programma deve spiegare per che cosa combattere (programma rivendicativo), come combattere (aspetti di tattica e di controllo operaio) e infine delineare alcuni aspetti generali che si spingono oltre il controllo operaio, o meglio spiegano con quale logica interna si sviluppa il controllo operaio della produzione e della politica. III. Le rivendicazioni L’aspetto centrale del programma di transizione è il suo metodo: la riconduzione agli scopi rivoluzionari di tutta la politica quotidiana. Il programma di transizione si fonda sul presupposto che le esigenze generali delle masse sono, in questa epoca di crisi, incompatibili con la struttura capitalistica della società. La singola rivendicazione del programma, o alcune di esse, sono a volte attuate anche da governi socialdemocratici o persino conservatori. Ma la questione decisiva è il modo con cui le diverse rivendicazioni operano tutte assieme per uscire dalla crisi del sistema attraverso vie nuove. Per questo, le singole proposte non sono né esaustive né indispensabili, ma occorre considerare il loro effetto complessivo di fronte alla crisi economica mondiale. Mercato del lavoro
Nazionalizzazioni
Banche e finanza
Servizi sociali, politica fiscale
Traffico e ambiente
IV. Un piano generale di rilancio dell’economia, il controllo operaio Le risorse così liberate (a oggi circa 1-2 mila miliardi di euro, più o meno) andranno veicolate in un piano generale dell’economia i cui obiettivi principali dovrebbero essere:
Questo piano si scontrerebbe immediatamente con il boicottaggio da parte dello Stato. Per questo le aziende socializzate non dovranno confluire in un ente tipo l’IRI ma saranno sottoposte al controllo dei lavoratori e dei sindacati che formuleranno le esigenze e i piani nell’ambito del quadro di rilancio dell’economia italiana. Questo implica una profonda riforma delle strutture sindacali, con il ritorno a consigli aziendali democratici che si pongano il compito di esprimere il controllo operaio sulla produzione. Si noti che senza le misure strettamente sindacali prima descritte, il controllo sociale della produzione diviene puramente formale. Ad esempio, se l’orario medio di lavoro restasse di otto ore al giorno, il controllo che i lavoratori potrebbero esprimere sull’andamento complessivo della produzione sarebbe solo formale. L’orario di lavoro andrà pertanto rapidamente ridotto per rendere sostanziale la socializzazione della produzione. Più in generale per rendere efficace il controllo operaio, evitando la nascita di una burocrazia permanente andranno utilizzate come misure minime:
A questi aspetti economici e sociali andrebbero aggiunti alcuni elementi “democratici”, impossibili da realizzarsi nell’epoca della crisi del parlamentarismo borghese:
Per evitare che la reazione possa servirsi della piccola borghesia come massa di manovra contro il governo di transizione, questo proporrà delle misure che leghino i piccoli proprietari al progetto di trasformazione:
Il governo di transizione sarà ovviamente impegnato nell’estensione internazionale della trasformazione. La politica internazionale partita, ad esempio, dall’abolizione reale e totale del debito pubblico dei Paesi del terzo mondo, dalla denuncia di ogni accordo internazionale sia militare che economico, dall’uscita da ogni istituzione internazionale capitalistica (Fmi, Wto, Nato, Ocse, Onu, ecc.) e dall’istituzione di un consiglio internazionale dei paesi liberi come apparato “legale” dell’esportazione su scala mondiale del progetto rivoluzionario, da affiancare alle strutture partitistiche (un’internazionale operaia di massa). Problemi aperti Il principale problema del programma è che non è chiaro cosa sia fattibile subito e cosa sia già potere operaio. Occorre distinguere bene. I. Inflazione e scala mobile Sebbene gli economisti abbiano compreso solo negli anni ‘50 e ‘60 che i lavoratori avrebbero reagito all’inflazione rendendo l’aumento dei prezzi uno strumento inadatto alla ridistribuzione del reddito, portando, per inciso, al fallimento teorico della sintesi neoclassica, il problema era stato già affrontato decenni prima da diverse organizzazioni operaie. In quello che è forse il primo documento che tratta della questione possiamo leggere:
Secondo il noto aforisma secondo cui l’uomo non si pone se non quei problemi che può risolvere, in questo documento il problema è solo posto; all’epoca non era possibile elaborare una tattica per arginarlo. Ma la discussione andò avanti. Già due decenni dopo, venne proposta una soluzione organica. Nel Programma di Transizione, scritto da Trotskij nel ‘38, si formula l’idea della scala mobile dei salari e degli occupati:
Né l’inflazione monetaria nè la stabilizzazione possono servire da parola d’ordine per il proletariato; sono le due estremità dello stesso bastone. Contro il carovita…si può lottare solo con la parola d’ordine della scala mobile dei salari. I contratti collettivi devono assicurare l’aumento automatico dei salari in correlazione agli aumenti dei prezzi degli articoli di consumo…I salari con un minimo rigorosamente garantito, dovranno seguire il movimento dei prezzi. Nessun altro programma può essere accettato per l’attuale periodo di catastrofi.”[2] Il trucco proposto da Keynes e la relativa contromossa erano dunque stati scoperti quasi subito. Da allora, la scala mobile ha rappresentato la spina nel fianco di tutte le autorità monetarie del mondo. Si potrebbe dire che l’esistenza e la consistenza della scala mobile rappresentano piuttosto fedelmente i rapporti di forza tra le classi. II. La finanza e il sistema creditizio Sin dal primo programma organico mai pubblicato (quello contenuto nel Manifesto del Partito Comunista) i comunisti hanno proposto la socializzazione del sistema finanziario. Leggiamo tra le proposte del Manifesto:
Questa posizione è rimasta immutata da allora. Ad esempio, possiamo leggere nelle Tesi di Aprile che Lenin scrisse pochi mesi prima che i bolscevichi prendessero il potere:
In modo simile, nel Programma di transizione leggiamo:
Senza bisogno di considerare queste tesi estreme, negli anni ‘70, che hanno segnato il punto più alto del conflitto sociale nel dopoguerra, circolavano proposte che cercavano di subordinare le banche centrali all’esecutivo (di sinistra). Ad esempio, il prof. Rolf Kniepere dell’Università di Brema, prospettò che ai rappresentanti dei lavoratori venisse garantita istituzionalmente “una partecipazione rilevante in seno al Direttorio della Bundesbank”[6]. Non c’è bisogno di dire che cosa rispose la Buba. Allo stesso modo, il partito laburista nel programma del ‘76 prevedeva la nazionalizzazione di buona parte della City e la socializzazione della Bank of England, che era sì stata nazionalizzata ma non sottoposta alle vere esigenze della società e proponeva che “in futuro le sue enormi risorse devono essere portate a sostegno della politica industriale e, più in generale, della politica economica del governo”. Il governo laburista di Blair ha concesso nel ‘97 la piena indipendenza alla banca centrale britannica. In questa diversa impostazione sta tutta la distanza tra i programmi di quel tempo e quelli di oggi. III. aspetti di prospettiva (dal controllo operaio al socialismo) Nazionalizzare non basta. Diverse volte si è nazionalizzato (in Francia De Gaulle nel 1946 e Mitterand nel ‘91): si sacrifica l’interesse di qualche capitalista (Enel) per difendere gli interessi di tutta la classe. Ma il programma Mitterand era poi così radicale? Lo scopo del controllo operaio è finalizzare la produzione al soddisfacimento dei bisogni sociali tramite lo sviluppo più rapido possibile delle forze produttive. Nei primi tempi questo implica soprattutto mettere a posto quanto avrà lasciato in eredità il capitalismo (si pensi all’ambiente). L’importante è che non si ragioni con un’ottica incrementalista, meccanica (del tipo: il capitalismo fa cento auto al secondo, noi ne facciamo duecento, perché forse ci si renderà conto che non è proprio il caso di fare auto). Il caso dell’auto è da questo punto di vista decisivo, dato che le città e la vita stessa sono costruite attorno a questa merce. L’automobile individuale, usata per poche ore al giorno, occupa spazio per l’intera giornata, inquina, è inaffidabile, ha costi diretti e indiretti assolutamente spropositati. L’obiettivo è che la ricerca sviluppi motori non inquinanti per microbus a percorso variabile (un incrocio di taxi e bus) con percorsi regolati con meccanismi di feedback. Si consideri che lo spazio occupato dai trasporti collettivi è 25 volte inferiore, per persona trasportata, a quello dei mezzi di trasporto privati. “La proprietà privata è un ostacolo alla mobilità” (Il crepuscolo di un idolo, Aurelio Pecci, dirigente Fiat, 1971). I trasporti consumano circa un terzo dell’energia delle società avanzate. “Anche con le nuove tecnologie, l’efficienza di un motore a combustione interna non può superare il 30 per cento; e comunque continuerà a produrre biossido di carbonio… inoltre (nei motori a idrogeno) la presenza di un minor numero di componenti e tipologie di parti ridurrà ulteriormente i costi…la maggior parte dei veicoli resta ferma il 90 per cento del tempo” (Un mezzo per il cambiamento, Le Scienze n. 411, 2002) Bibliografia
[1] AA VV, Piattaforma
dell’Internazionale Comunista per il congresso del ‘19, Laboratorio
Politico, 1997. |
Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"