IL FUTURO DEL SOCIALISMO

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


IL FUTURO DEL SOCIALISMO

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Il fallimento della perestrojka è dipeso, fra le altre cose, anche dalla preoccupazione di voler accrescere la produttività del lavoro sociale, guadagnando tempo ed efficienza attraverso l'introduzione massiccia delle conquiste tecnico-scientifiche, senza che ci si chiedesse, nel contempo, se per costruire una democrazia sociale effettiva fosse davvero indispensabile avere come modello di riferimento (da superare) la produttività del capitalismo avanzato.

I fatti cos'hanno dimostrato? Che il socialismo democratico non può utilizzare la scienza e la tecnologia occidentale, per superare gli indici produttivi del capitalismo, senza doverne subire delle conseguenze negative. Ovvero che la produzione intensiva e di qualità, sotto il socialismo, è impossibile se si vogliono seguire i canoni, gli indici e i parametri produttivi e di efficienza tecnica del capitalismo, semplicemente perché nell'ambito del capitalismo tale produzione comporta costi così elevati, in termini di democrazia sociale: sfruttamento dei lavoratori (occidentali e soprattutto terzomondisti), sovrapproduzione, crisi cicliche, disoccupazione, degrado ambientale, ecc., che il socialismo, se vuole essere democratico, non può assolutamente tollerare.

I criteri dell'efficienza della produzione devono tener conto, in un'economia socialista, dell'interesse di tutti i lavoratori e di tutti i cittadini al benessere "globale", materiale e umano. Un lavoro o una produzione intensiva generalmente presuppongono una società divisa in classi. In altre società il lavoro era intensivo solo in momenti di particolare bisogno (carestie, siccità, calamità naturali...).

Non è infatti necessario aumentare di per sé la produzione. Essa va aumentata se i bisogni lo richiedono, ma tale valutazione deve dipendere dall'insieme della collettività locale. L'uomo non può diventare schiavo degli indici produttivi, i quali peraltro vengono sottoposti a pressioni verso il rialzo solo da parte di chi vuole ottenere maggiori profitti.

Lo stress degli indici produttivi non permette di apprezzare né il valore d'uso né il tempo di lavoro non finalizzato alla mera produzione per il mercato. Il lavoro intensivo dev'essere o quello cui si è costretti da necessità oggettive, valutate collettivamente, oppure quello scelto liberamente per creare oggetti artigianali il cui valore d'uso non è immediatamente monetizzabile.

Il socialismo, se vuole veramente superare il capitalismo, deve limitarsi alla democrazia sociale, cioè deve limitarsi a soddisfare i bisogni collettivi, garantendo, nel contempo, la democratizzazione e l'umanizzazione dei rapporti sociali. In tal modo riuscirà a dimostrare che il capitalismo non è in grado né di soddisfare i suddetti bisogni, perché inflazione, disoccupazione, sfruttamento, neocolonialismo... lo impediscono, né di garantire l'umanizzazione dei rapporti sociali, perché ciò che domina, nel capitalismo, sono i valori inerenti al monopolio della proprietà privata.

Se il socialismo si limitasse all'obiettivo della democrazia sociale, si accorgerebbe facilmente che nell'ambito del Terzo Mondo, da parte degli intellettuali più progressisti, vanno emergendo delle proposte molto interessanti per una via non-capitalistica, che non ricada nei limiti del socialismo burocratico ed esca definitivamente dal dominio neocoloniale.

Queste proposte, che ovviamente non possono realizzarsi senza una rivoluzione politica che assicuri un'effettiva indipendenza economica di ogni nazione, tengono conto, in modo particolare, dei bisogni sociali della collettività locale, che deve essere autosufficiente (almeno a livello alimentare). Questa comunità deve basare la propria economia sull'autoconsumo e sul valore d'uso, limitandosi a commerciare solo il surplus.

Peraltro, non è affatto vero che produzione intensiva e qualitativa coincidano nel capitalismo. Poiché la necessità del capitale è quella di vendere merci, queste, in definitiva, non possono avere una qualità particolarmente elevata (se non quando si tratta di vincere la concorrenza), altrimenti non sarebbero soggette a frequenti ricambi. La qualità riguarda sempre più gli "optionals" di una merce, cioè il "valore aggiunto" in termini di ricerca scientifica computerizzata, non riguarda il suo valore "fisico", effettivo, determinato dai materiali usati. Il prezzo di una merce, rispetto al passato, è sempre più influenzato da fattori estrinseci, come appunto la ricerca e la progettazione, la pubblicità, la moda ecc.

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Marx si era limitato a sostenere che la prima legge economica basata sulla riproduzione collettiva doveva essere quella della distribuzione pianificata del lavoro fra le diverse branche produttive. Con questa legge non aveva certo in mente di razionalizzare lo sfruttamento della manodopera salariata.

In tal senso, non è stato un caso che il "socialismo reale" sia crollato nel momento in cui sperava di passare da uno sfruttamento estensivo delle risorse a uno intensivo (cioè dalla stagnazione all'accelerazione).

Preoccupato di superare gli indici di produzione e di lavoro del capitalismo, senza però poter beneficiare dello sfruttamento neocoloniale e senza poter puntare su un maggiore sfruttamento dei propri lavoratori (che non l'avrebbero sopportato), il socialismo amministrato e dirigistico s'è illuso, attraverso la perestrojka, che avrebbe potuto superare la stagnazione facendo leva sull'introduzione massiccia della rivoluzione tecnico-scientifica (così come ai tempi dello stalinismo si fece leva sull'entusiasmo ideologico delle masse, sul volontarismo dei lavoratori, fino allo stakhanovismo, senza mai mettere in discussione la pianificazione centralizzata dello Stato: il che -come noto- comportava un relativo sfruttamento dei lavoratori, proprietari dei mezzi produttivi solo indirettamente, attraverso appunto gli organi statali).

Il fallimento della perestrojka è stato totale, prima ancora che si realizzasse l'uso della tecnologia occidentale. Con il suo crollo, la perestrojka ha dimostrato, direttamente, che il socialismo democratico va costruito su basi completamente diverse da quello amministrato e, indirettamente, che il capitalismo non ha futuro, neppure se si razionalizza al massimo, come appunto è accaduto nel socialismo reale, ove tutti i capitalisti erano stati espropriati a vantaggio dello Stato. Ciò sebbene attualmente il suddetto crollo sembri dimostrare proprio il contrario, e cioè che l'accettazione dei parametri occidentali come metro di misura del benessere sociale, comporta l'abbandono di ogni forma di socialismo, persino di ogni ipotesi di socialismo democratico.

Gli economisti della perestrojka (A. Aganbeghian, V. Afanassiev, V. Kanke, V. Lantsov ecc.) hanno fallito il loro obiettivo d'intensificare la produttività del socialismo amministrato non tanto perché non sono stati sufficientemente radicali nel volere la fine del burocratismo (anche per questo), quanto piuttosto perché hanno continuato a considerare il capitalismo come un termine di confronto per l'efficienza del socialismo. Essi cioè speravano che, ferma restando la socializzazione dei mezzi produttivi, il socialismo avrebbe potuto superare il capitalismo se solo avesse adottato gli strumenti tecnico-scientifici di quest'ultimo.

E' stato forse un caso che nel desiderare un obiettivo del genere, tali economisti non siano mai arrivati ad accettare l'idea che la socializzazione dei mezzi produttivi avrebbe dovuto comportare un totale trasferimento della proprietà dallo Stato ai lavoratori? Essi, naturalmente, se avessero accettato una simile eventualità, avrebbero dovuto poi rinunciare alle loro teorie di sviluppo intensivo e accelerato, secondo i parametri occidentali.

I fatti, come noto, hanno dimostrato che se nel socialismo amministrato si pretende una maggiore produttività del lavoro, l'autonomia che si concede (a livello finanziario, gestionale ecc.) non è sufficiente per ottenere maggiore produttività. Se si punta alla maggiore produttività, l'autonomia viene usata, fermo restando il primato dell'industria, per uscire da qualunque forma di socialismo, abbracciando il capitalismo.

Il socialismo amministrato è stato il tentativo di superare i limiti del capitalismo monopolistico accettandone però il presupposto fondamentale: il primato dell'industria sull'agricoltura. La perestrojka non ha messo in discussione questo primato, ma solo la pretesa che fosse lo Stato a gestirlo dall'alto. La perestrojka, da un lato, voleva permettere all'industria di autogestirsi, dall'altro voleva continuare a garantire il coordinamento statale, verticistico, di tutta l'industria e il monopolio nazionale di taluni settori produttivi strategici e di alcune risorse.

Il socialismo invece può superare il capitalismo se torna al primato dell'agricoltura con la consapevolezza delle potenzialità e dei limiti dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione. Il socialismo cioè deve tornare al "feudalesimo", superandone ovviamente i limiti del servaggio e del clericalismo, senza dimenticare nel contempo la possibilità di usare la moderna tecnologia per i bisogni sociali, i quali devono diventare il fulcro attorno a cui far ruotare ogni iniziativa.

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Marx si rese conto, alla fine della sua vita, nel rapporto che aveva coi populisti, che forse c'era la possibilità di costruire il socialismo, in Russia, puntando sulla valorizzazione della comune agricola. Naturalmente, per poterlo fare in maniera adeguata, occorrevano -secondo Marx- due cose: o la fine dello zarismo, oppure la nascita del socialismo in Europa occidentale (che poi avrebbe portato alla fine dello zarismo). Egli era infatti convinto che di fronte alla potenza del capitalismo nessuna comune agricola sarebbe riuscita a resistere se non fossero intervenuti altri fattori (in questo caso di natura politica).

Era un'importante considerazione, poiché nel Capitale Marx aveva pensato a un socialismo come superamento del capitalismo utilizzando le conquiste tecnico-scientifiche e le forze produttive dello stesso capitalismo. Il socialismo altro non doveva essere che una razionalizzazione dell'economia di mercato realizzata attraverso la socializzazione dei mezzi produttivi (capitalistici): idea, questa, cui Marx era pervenuto già al tempo del Manifesto. Il Capitale non fece che dimostrare, sempre più scientificamente, la natura antagonistica delle fondamentali contraddizioni capitalistiche e quindi la loro irrisolvibilità con gli strumenti della società borghese.

Fu entrando in contatto coi populisti che Marx cominciò non solo a rivalutare le formazioni sociali pre-capitalistiche, ma anche a pensare che l'ipotesi populista di far risparmiare alla Russia i "dolori" dell'accumulazione capitalistica, attraverso la transizione dal socialismo agrario (feudale) a quello moderno (agrario e industriale) - non era del tutto peregrina, per quanto i populisti non nutrissero un particolare interesse verso la rivoluzione industriale.

In tal senso non si può escludere a priori l'ipotesi che la Russia o l'est-europeo avrebbe potuto resistere al capitalismo se avesse sviluppato un socialismo democratico basato sul primato dell'agricoltura. Come d'altra parte non si può escludere a priori l'ipotesi che il socialismo reale sia crollato proprio perché non ha voluto concedere all'agricoltura tale primato.

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Lenin, dal canto suo, dopo aver sopravvalutato, in gioventù, il livello di penetrazione del capitalismo nelle campagne, si rese conto che l'ipotesi populistica avrebbe potuto essere realizzata dopo aver liquidato non solo lo zarismo, ma anche qualunque governo borghese (alla Kerenski). Cosa che il populismo non era in grado di fare, non tanto o non solo perché non capiva l'importanza della classe operaia, quanto soprattutto perché s'illudeva che l'obscina fosse lo strumento sufficiente per impedire la penetrazione del capitalismo, senza mettere in discussione la realtà dei rapporti feudali basati sul servaggio (legale o illegale) o sul latifondo.

Quegli intellettuali che cercarono di servirsi dell'obscina per dimostrare che la critica del capitalismo poteva essere fatta solo dal punto di vista dell'agricoltura socializzata e non anche da quello del proletariato industriale, sono finiti: 1) col non accorgersi delle contraddizioni dello stesso mondo agricolo; 2) coll'assumere una posizione conservatrice, in quanto hanno indebolito l'unità del movimento dei lavoratori. Questi intellettuali sono rimasti legati al mondo dell'agricoltura in una maniera miope anche o forse soprattutto perché non riuscivano ad accettare che nel mondo industriale ed urbano si formasse una cultura laica del tutto estranea a quella religiosa del mondo contadino. Essi purtroppo non riuscirono a trovare nella cultura laica quegli elementi, vissuti in maniera secolarizzata, della precedente cultura religiosa, o comunque, se li trovarono, non riuscirono ad accettarli, semplicemente perché il processo di secolarizzazione non era partito da loro.

In ogni caso, finché Lenin rimase vivo, l'ipotesi populistica non rischiò d'essere definitivamente affossata. L'introduzione della NEP stava appunto a dimostrare che non si voleva togliere al mondo contadino la sua specificità, la sua autonomia...

Purtroppo Lenin capì il valore dell'autonomia contadina solo dopo il fallimento della centralizzazione della gestione politica ed economica della nuova società sovietica. In questo senso, il ritardo, dovuto a motivi di carattere ideologico e storico, fece accumulare forti tensioni sociali. I limiti "ideologici" erano dovuti a una lettura "letterale" del Capitale, cioè all'esigenza di un'applicazione delle sue tesi economiche anche in Russia, per quanto sul piano politico Lenin contraddiceva il Capitale, dimostrando che la rivoluzione socialista poteva essere compiuta anche in un Paese economicamente arretrato. I limiti "storici" del leninismo erano dovuti al fatto che, dopo l'Ottobre, il capitalismo mondiale reagì con l'intervento militare e appoggiando la guerra civile. Lenin scelse la centralizzazione anche perché condizionato da eventi storici drammatici.

E' fuor di dubbio, tuttavia, che se l'esperienza della NEP fosse continuata, non si sarebbe realizzato il socialismo burocratico e autoritario. Nel peggiore dei casi si sarebbe sviluppato il capitalismo.

Lenin comunque sapeva trarre dai propri errori i dovuti insegnamenti. Stalin invece non aveva questa flessibilità.

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Nell'ambito del marxismo è sempre esistito un forte pregiudizio nei confronti del "valore d'uso". Anche quando lo si è accettato, con Marx, in un rapporto dialettico col valore di scambio, quest'ultimo ha sempre detenuto un primato sull'altro. Non si voleva rischiare di dover ammettere che la realizzazione della democrazia sociale dipendeva anzitutto dalla valorizzazione particolare dell'agricoltura.

Ecco perché il marxismo ha sempre sostenuto che la caratteristica principale della produzione dei valori d'uso è quella di un rapporto immediato del lavoratore con la natura. L'uomo cioè sarebbe parte della natura, farebbe un lavoro meramente individuale, concreto, basato sul tempo cronologico, non sociale, un tempo appunto naturale, fisico. Come se gli uomini che vivono un tale rapporto con la natura, non vivessero già un rapporto sociale tra loro! Come se la vita di campagna fosse di per sé più individualistica di quella della fabbrica o di quella urbana!

Così pure, al lavoro concreto del contadino-artigiano il marxismo ha sempre preferito il lavoro astratto del produttore di merci, ritenendo, a torto, il primo individuale e il secondo sociale.

Solo in forza di un pregiudizio ideologico o culturale si è potuto affermare che il lavoro concreto del contadino non era sociale, o che la vera socialità del lavoro la si verifica solo sul mercato, al momento della compravendita. E' stato a causa di questo pregiudizio che non si è compreso che il lavoro veramente individuale può esistere solo nel capitalismo.

Peraltro non è affatto vero che nella società agraria pre-capitalistica non esisteva il lavoro astratto: esso piuttosto non esisteva indipendentemente da quello concreto, come non esisteva il valore di scambio separato da quello d'uso.

Nel capitalismo è il lavoro astratto che collega l'aspetto naturale con quello sociale del lavoro, ma fa questo a partire dallo scambio, per cui la socializzazione del lavoro è in realtà un aspetto formale dell'economia, che riguarda gli aspetti esteriori delle cose. Viceversa, in una società democratica dovrebbe essere la stessa società a garantire la socializzazione del lavoro, nel senso che il lavoro astratto dovrebbe essere un corollario di quello concreto, un complemento, una conseguenza a livello generale. Se nella società civile il produttore di beni non vive una contraddizione antagonistica, egli non coglierà neppure il lavoro astratto in antagonismo col suo lavoro concreto. Viceversa, laddove il lavoro astratto pretende d'imporsi su quello concreto, lì esiste sicuramente a livello dell'intera società un antagonismo di fondo tra le classi.

Di conseguenza il tempo di lavoro sociale se non va eliminato a vantaggio di quello cronologico, non va neppure imposto a questo. La natura doppia del tempo di lavoro non è di per sé il risultato degli antagonismi sociali, ma può diventarlo se si subordina il valore d'uso a quello di scambio. Coloro che pretendono di ridurre il tempo di lavoro cronologico attraverso lo sviluppo dell'automazione, stanno ancora inseguendo i miti della produttività capitalistica.

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Il socialismo futuro dovrà concepirsi come una realtà autonoma, che non fa dipendere la propria esistenza da una contrapposizione anticapitalistica.

Non è forse stato significativo il fatto che dopo aver resistito a due guerre mondiali, il cosiddetto “socialismo reale” sia crollato in tempo di pace, per motivi endogeni? Questo non ha forse dimostrato ch’esso, nella sostanza, era un regime malato?

Il socialismo democratico dovrà necessariamente basarsi su due fattori: la democrazia politica e il socialismo economico. Nessuno dei due fattori è mai stato realizzato nell’ambito del “socialismo reale”, a parte i primi anni della Rivoluzione Bolscevica (si pensi p.es. all’esperienza dei Soviet). In ogni caso la realizzazione piena di un fattore implica necessariamente quella dell’altro.

Spesso si diceva: “I regimi est-europei possono non aver raggiunto il massimo della democrazia, ma hanno raggiunto sicuramente un livello di democrazia superiore a quello dei paesi capitalisti”. Ora questo modo di ragionare è diventato improvvisamente vecchio, e non tanto perché il “socialismo reale” sia crollato, né perché il capitalismo non abbia effettivamente un livello molto basso di democrazia, quanto piuttosto perché in nome di quel principio si finiva col giustificare tutta una serie di abusi intollerabili per un sistema che vuol dirsi “socialista”.

Molte volte abbiamo sentito affermare dai dirigenti est-europei: “Noi non ci lasciamo giudicare dalla falsa democrazia borghese, che neppure sa cosa siano i veri diritti socio-economici”. Poi, in nome di questa convinzione, si faceva in modo che sia la democrazia sia il socialismo fossero decisi dall’alto.

L’approccio al socialismo è stato per 70 anni di tipo ideologico, cioè senza un vero riferimento alla realtà concreta delle cose. Non si sono, peraltro, volute riconoscere altre forme storiche di socialismo, sparse in varie parti del mondo, anteriori o coeve allo stesso capitalismo (il socialismo agrario, quello cooperativistico, quello utopistico...); e si è sempre accettata con molta fatica l’idea che l’Occidente, sul piano legislativo, avesse formulato dei princìpi umanistici e democratici, seppur contraddetti nella loro applicazione.

Anche nei confronti del Terzo Mondo si aveva un atteggiamento di tipo paternalistico, col quale si dava per scontato che un paese prevalentemente rurale fosse un paese fondamentalmente arretrato, e quindi incapace di decidere il proprio modello di sviluppo, e quindi per così dire obbligato ad adottare il modello prestabilito dal “socialismo reale”. Era lo stesso errore, su un altro versante, che faceva il capitalismo nei confronti delle proprie colonie ed ex-colonie.

I leaders del futuro socialismo dovranno convincersi di una cosa di vitale importanza: non si costruisce alcun socialismo veramente democratico senza il consenso e la partecipazione attiva delle masse. Questo significa che se anche i leaders posseggono un’idea meravigliosa di socialismo, ma non hanno l’appoggio concreto delle masse, è meglio che attendano tempi migliori, lavorando in maniera più capillare, più pedagogica fra le “esigenze” della gente comune, evitando di assumere atteggiamenti populistici (chi va “al popolo” con la verità in tasca) o autoritari (chi torna “al palazzo” dopo aver dato al popolo la propria verità).

Il socialismo democratico non può essere costruito da un’avanguardia rivoluzionaria che consideri il popolo una massa di ignoranti da educare. L’avanguardia deve dare l’esempio, ma, appena l’ha dato, deve mettersi da parte, per fare spazio agli esempi degli altri.

Lo stesso popolo non può concepirsi come un gregge che va eternamente guidato da uno o più pastori. Se un popolo si concepisce così, non deve poi stupirsi se le avanguardie finiscono con l’approfittare della loro lungimiranza o, più semplicemente, del loro coraggio per rivendicare privilegi d’ogni sorta.

La democrazia - diceva Rousseau - o è diretta o non è; o si autogestisce o non è democrazia. Se questo significa che devono col tempo sparire realtà astratte (perché di “concreto” hanno solo i problemi che creano) come “Stati”, “Nazioni” e persino “istituzioni”, “burocrazie”..., e che devono affermarsi unità territoriali molto più piccole e realtà sociali molto più concrete, in grado di permettere ad ogni persona di sentirsi protagonista della propria vita - questo non deve spaventare nessuno.

Lo Stato, la Nazione... non sono entità metafisiche, sovratemporali: sono soltanto il frutto di decisioni storiche. Esse vanno superate semplicemente perché non permettono più (e forse non l’hanno mai permesso) ad ogni cittadino di assumersi delle responsabilità personali ai fini del bene comune.

IL FUTURO SOCIALISTA DELL'EUROPA

La perdita delle occasioni storiche per realizzare la giustizia sociale e la libertà, rende il compito più difficile ma anche più urgente. Tra la difficoltà e l'urgenza deve porsi la consapevolezza critica, nonché quella volontà politica grazie alla quale si può veramente sperare di cambiare la situazione -il che non è mai automatico.

L'aumento delle difficoltà è infatti dovuto al progressivo imborghesimento delle masse e dei leaders politici. Se si fosse fatta la rivoluzione negli anni '20 o nel dopoguerra o nel '68, oggi le masse sarebbero sicuramente meno borghesi - ma sarebbero anche più soddisfatte?

Noi possiamo dire che il socialismo è migliore del capitalismo appunto perché in Occidente ancora non esiste. Ma se l'avessimo realizzato, oggi saremmo ancora socialisti? Certamente no, se avessimo seguito il modello est-europeo.

E se avessimo seguito un altro modello? Se invece del socialismo burocratico avessimo costruito, da subito, quello autogestito? Un'eventualità del genere dovrebbe far presupporre che la maturità politica dell'Occidente sia di molto superiore a quella dell'Europa orientale - il che però non è.

L'Occidente può veramente vantare una maggiore democrazia politica? In apparenza sì. Ma una vera democrazia politica la si misura sulla democrazia economica, e in questo senso dovremmo chiedere ai paesi del Terzo mondo se la nostra democrazia è veramente degna di questo nome. E' molto verosimile l'ipotesi che senza il grande sfruttamento del Terzo mondo tutto l'Occidente sarebbe già caduto in dittature spaventose, analoghe a quelle nazi-fasciste o a quelle di molti paesi in via di sviluppo, oppure sarebbe caratterizzato da tentativi insurrezionali per edificare il socialismo.

Dunque, qual è la prima conclusione che si può trarre? Che l'Occidente non ha ancora realizzato il socialismo perché non è sufficientemente maturo sul piano politico; se lo avesse fatto, è da presumere che non avrebbe creato un modello di socialismo migliore di quello est-europeo.

Questo però cosa significa? Che dobbiamo forse ringraziare la nostra immaturità politica per non essere piombati in un socialismo autoritario? No davvero! I comunisti dell'est hanno sbagliato, ma andando avanti; noi non siamo stati capaci neanche di rischiare. Siamo rimasti fermi, anzi -poiché avevamo la consapevolezza di dover compiere un passo in avanti e non l'abbiamo fatto- siamo addirittura andati indietro.

Oggi che possibilità abbiamo, noi occidentali, di realizzare il socialismo? Per il momento nessuna. Sia perché i paesi del Terzo mondo sono ancora ampiamente soggetti allo sfruttamento imperialistico, sia perché la nostra maturità politica è scarsa (molto più scarsa di quanto non lo fosse negli anni '20, '40 o nel '68). Oggi inoltre i mass-media fanno di tutto per convincere la public opinion che il crollo del cosiddetto "socialismo reale" implica la fine di qualunque idea di socialismo (l'unica idea che ancora sopravvive in Occidente è quella della "socialdemocrazia").

Per il momento dunque possiamo solo affermare due cose:

  1. il crollo del socialismo reale non è stato voluto in omaggio a una presunta superiorità del capitalismo e neppure va visto come un tentativo di togliere ogni possibile pretesto al capitalismo di attribuire al cosiddetto "impero del male" le cause della sua prossima fine. Il crollo del socialismo reale non renderà più docile un capitalismo in procinto di morire. Certamente, in presenza di tale socialismo, le tendenze aggressive del capitalismo avrebbero continuato a trovare dei buoni motivi per giustificarsi, ma se anche questi motivi non verranno offerti dal futuro socialismo democratico, non è detto che quelle tendenze non si manifesteranno ugualmente.
    E' probabile anzi che quanto più tale socialismo si mostrerà alternativo al capitalismo, tanto più questo si sentirà indotto ad accentuare i propri lati irrazionalistici. I quali, se vogliamo, tendono a manifestarsi anche in assenza di qualunque forma di socialismo, poiché è nella sua natura essere oppressivo, sfruttatore, antagonistico...
    Dunque, il socialismo, crollando, non ha pensato di fare un "favore" al capitalismo, né di rendergli una fine meno dolorosa, meno traumatica; ha soltanto pensato di fare un "bene" all'umanità intera e soprattutto ai valori umani universali di giustizia, libertà, democrazia... Se tutto ciò deve essere visto anche in funzione anticapitalistica sarà la storia a deciderlo.
  2. Per quanto riguarda noi occidentali, dobbiamo dire che l'esigenza di socialismo si fa sempre più sentire; non abbiamo la consapevolezza politica di come realizzarlo, però l'insoddisfazione nei confronti della società capitalistica tende ad aumentare. Il tempo ovviamente non lavora gratis a nostro favore. Esso ha bisogno della consapevolezza critica, della volontà politica e organizzativa per realizzare in maniera indolore il passaggio al socialismo. Il tempo fa aumentare il peso delle contraddizioni, ma non è in grado di toglierle.
    Oggi in Europa abbiamo l'opportunità di superare le contraddizioni antagonistiche facendo convergere in un unico sforzo la maturità politica dell'est e la maturità economica dell'ovest. Se l'Europa riuscisse a conseguire il socialismo attraverso questa convergenza, forse avrebbe la possibilità di realizzare un nuovo modello di socialismo.

Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018