OVIDIO, ARACNE (VI libro delle Metamorfosi)

Tracce mnestiche di ateismo borghese

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Aracne di Meonia era una grande lavoratrice, figlia di Idmone, tintore di Colofone o Colofonie in Lidia, antica regione dell'Asia Minore, oggi nella zona occidentale della Turchia. Dal IX al VI secolo a.C. la Lidia fu una delle tre grandi civiltà della Turchia. Uno dei suoi governatori più importanti fu Creso (561-546), ultimo sovrano della dinastia dei lidii. Secondo Erodoto, Creso sprecò oltre dieci tonnellate d’oro per la costruzione e la decorazione del Tempio di Artemide, un monumento più grande del Partenone. Ma, nonostante le sue ricchezze, Creso fu sconfitto e catturato da Ciro re dei Persiani, che lo condannò al rogo. (mappa)

Capitale della Lidia fu Sardi, ove fu inventata la moneta nel senso moderno, avente lega titolo peso e valore stabiliti dallo Stato; la città era famosa anche per la sua tolleranza nei confronti dei giovani che si davano alla prostituzione per farsi la dote. Durante l’impero degli Achemenidi (nome dei re di Persia), durato dal 558 al 331 a. C., Sardi costituì un nodo strategico e commerciale di primaria importanza. Quanto a Colofone, fu proprio qui che Omero si accorgerà di diventare cieco, poco prima d'iniziare a comporre l'Iliade.

La corporazione dei tintori e dei venditori di lana era forte anche ai tempi degli Atti degli apostoli, come ci documenta l'episodio di Lidia, abitante a Filippi ma originaria di Tiatiri, convertitasi per la predicazione di Paolo, che viene definita “commerciante di porpora” (Atti 16, 14). Veniva chiamata “porpora” la stoffa di lana tinta con una sostanza rossiccia estratta da molluschi del genere murix.

Minerva

Esiste anche una lettera, la quinta, che l'autore dell'Apocalisse invia a Sardi, accusata di essere spiritualmente “morta”, dove esistevano fiorenti comunità ebraiche e cristiane.

Aracne -dice Ovidio- era nata da famiglia di origini umili (la madre però era già morta) e viveva nell'umile Ipepe; aveva imparato dal padre il mestiere, ma la creatività nel tessere le tele era tutta sua. E non solo nel tessere, ma anche in tutte le attività correlate al mestiere; Ovidio lo dice chiaramente: "Sia che agglomerasse la lana greggia nelle prime matasse, sia che lavorasse di dita e sfilacciasse uno dopo l’altro con lungo gesto i fiocchi simili a nuvolette, sia che con l’agile pollice facesse girare il liscio fuso, sia che ricamasse...".

Aveva un talento così grande per quest'arte che venivano ad acquistare i suoi prodotti dalle città più lontane della Lidia. Aveva fatto del lavoro creativo lo scopo della sua vita. E se ne vantava, al punto da ritenersi una donna diversa dalle altre, più autonoma, più indipendente. Aveva infatti capito che col proprio lavoro poteva emanciparsi, andare oltre il compito di vivere a immagine e somiglianza degli uomini, persino andare oltre l'idea di dover stare sottomessa alla volontà degli dei.

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Aracne non era solo una grande lavoratrice, ma anche una donna pensante, che sapeva rendere ragione del proprio operato. E forse per questo non piaceva alla mentalità dominante; la sua sicurezza intimoriva, perché metteva in crisi l'istituzione del matrimonio, della religione e persino dello stesso Stato. Aracne metteva in dubbio la verità dei poteri costituiti. "Non lascerò che si disprezzi la mia divinità impunemente!" - diceva Pallade, che intanto già tramava la rivincita.

E i poteri, infatti, ad un certo punto, intervennero. Aracne doveva capire, con le buone o con le cattive, che l'origine della sua ricchezza era un dono degli dei, cui doveva stare sottomessa, e non frutto del proprio ingegno, del proprio carisma.

Ed è qui che nasce la mitologia, cioè la finzione, la falsità. Ci s'inventò la leggenda d'una sfida tra lei e la dea Atena o Pallade. Ci s'inventò che lei avesse rifiutato di chiedere scusa della propria determinazione, fatta passare per tracotanza (aveva lo "sguardo torvo", il "volto acceso d'ira", si tratteneva a stento dal menar le mani - scrive Ovidio), mentre la dea Atena sarebbe stata disposta a perdonarla, quella dea che rappresentava la sapienza impersonificata, la quintessenza della giustizia, la protettrice dell'intelligenza e di tutte le arti e che chiedeva, in cambio del pentimento, che l'operaia s'inchinasse ai suoi piedi e chiedesse venia in ginocchio. Ci s'inventò che Aracne ebbe il coraggio di sfidare, per "insensata brama di gloria", lei che viveva del suo lavoro, il fantasma della divinità, fatto passare per "presenza reale".

Chi poteva negarle la maestria? Nessuno, e infatti la si condannò per blasfemia, per ateismo. Non le era permesso, proprio mentre gareggiava con la divinità, ossia mentre discuteva con le autorità costituite, mettere in evidenza le loro debolezze, le incoerenze, gli abusi sessuali che, a partire dalla suprema divinità, Zeus, avevano compiuto impunemente.

La sconfitta artistica di Minerva fu inevitabile, in quanto la sua rappresentazione era trionfalistica e quindi statica, senza pathos; effigiando il colle di Marte, i dodici numi (compresa se stessa), con Giove nel mezzo, dall'aria grave e maestosa, e ai quattro lati della tela le scene degli sconfitti per sua mano, essa non aveva fatto altro che raffigurare il potere, le istituzioni, l'aspetto celebrativo dell'arte.

Viceversa, nella tela di Aracne c'era il fuoco, l'odio per il maschio stupratore, la satira nei confronti dell'ipocrisia della religione pagana, che tollerava questi abusi e anzi li riproduceva.

La stessa Atena era nata da uno stupro, perpetrato da Zeus ai danni di Meti, che poi fu da lui divorata, temendo che il figlio, ancora in grembo, una volta adulto l'avrebbe spodestato. Il figlio, come noto, nascerà col nome di Minerva dalla testa spaccata di Zeus.

Ma Atena non può solidarizzare con Aracne, lei che aveva acquisito dei poteri maschili accettando le regole maschili del gioco. Anzi, il solo fatto che qualcuno le ricordi che l'essere donna comporta dei doveri di emancipazione che gli uomini non possono conoscere, la fa trasalire, al punto che straccia subito la tela di Aracne e con una spola di legno colpisce questa più volte in fronte.

Isolarono Aracne al punto da costringerla a impiccarsi, o forse la linciarono, facendo passare l'omicidio per un suicidio. Nessuno poteva difenderla: certamente non gli uomini, che lei vedeva sotto una luce di violenza, di sopraffazione nei confronti delle donne. Certamente non il poeta galante Ovidio, che non può tollerare un'eccessiva autonomia al femminile e che al massimo può umanizzare i personaggi della mitologia, facendoli uscire dal loro involucro stereotipato, e in tal senso è possibile che in questa Metamorfosi vi sia una sorta di tentativo poetico di simpatizzare per l'eversione (il ruolo dell'artista?), restando entro i limiti della legalità.

In ogni caso alla storia doveva passare la versione che Aracne era morta per il suo volgare ateismo, cioè l'interpretazione secondo cui l'ateismo è necessariamente un anti-umanismo, che, come tale, va bandito dalla società.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Antica
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Aggiornamento: 01/05/2015