LA TRAGEDIA DELLE BACCANTI
OVVERO LA COSCIENZA INQUIETA DI EURIPIDE

Quando un uomo è abile nel parlare, su qualunque argomento può sostenere una lotta di parole

Euripide


LA RIVINCITA DEGLI ESCLUSI

Baccante che suona il cimbalo, Jean-Simon_Berthélemy

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Adriano Torricelli

Le Baccanti possono essere lette anche come una – seppur inconsapevole – prefigurazione degli sviluppi ellenistici della civiltà greca.

---  Implicazioni ideologiche e sociali dell’opera  ---

Innanzitutto è necessario che io riassuma le principali tematiche socio-culturali affrontate all’interno di quest’opera; in un secondo momento, cercherò di mostrare le ragioni per cui credo si possa scorgere in essa una prefigurazione di alcuni aspetti della successiva età ellenistica.

Come già si è mostrato, Dioniso, col suo radicale “anticlassicismo”, libera forze tradizionalmente compresse all’interno della polis greca: le donne, ovvero più in generale l’elemento femminile, da una parte; l’impulso spontaneistico, tipico delle classi più umili, verso l’abbandono sensuale e il superamento dell’opposizione tra Uomo e Natura, dall’altra.

Quanto alle donne, il maschilismo e la misoginia dei greci è un fatto universalmente noto. Esso risale ancora alle origini della loro civiltà ed è ben visibile già in Omero. Ciò probabilmente perché quella greca fu, sin dai suoi albori, una società segmentata e anarchica, priva di centri di potere forti, nella quale di conseguenza grande importanza rivestivano il valore e la forza fisica individuali. Proprio per questa ragione la donna, già in antico, tese ad essere esclusa o comunque posta ai margini della vita sociale. Ma fu con lo sviluppo della polis arcaica e poi classica, e con l’identificazione sempre più rigida tra cittadino e soldato, che essa ne rimase definitivamente tagliata fuori.

Non è dunque certamente casuale il fatto che, nelle tragedie rimasteci, alquanto ricorrenti siano figure di “eroine” negative, quali Clitemnestra, Medea, Fedra o Deianira, né che proprio queste ultime riescano a impressionare maggiormente lo spettatore moderno per la loro forza e incisività. La donna nel mondo classico fu infatti avvertita, se possibile ancor più intensamente che nei periodi precedenti, come una pericolosa incognita per l’ordine sociale, e per tale ragione radicalmente screditata.

Paradossalmente – si nota qui per inciso – fu proprio la società spartana (senza dubbio, la più maschilista in assoluto) quella in cui la donna riuscì integrarsi maggiormente nel tessuto sociale. Se difatti da una parte la totale intolleranza di tale società verso l’elemento femminile la costrinse a maschilizzarsi, a reprimere la propria natura onde assomigliare il più possibile agli uomini, dall’altra essa riuscì in tal modo, a conquistare una stima e un’autonomia assolutamente impensabili per donne ateniesi.

Insomma, la civiltà classica portò alle estreme conseguenze la componente di misoginia tipica delle società arcaiche, in particolare elleniche, esasperando ulteriormente un’antica diffidenza verso il sesso femminile dovuta alla mancanza di qualità fisiche e morali considerate tipicamente virili, quali la forza, il coraggio, l’intelligenza, ecc.

Non può stupire dunque, in questa logica, il fatto che il disprezzo ostentato da Penteo verso Dioniso sia dovuto in primo luogo proprio all’aspetto e al portamento femminili di quest’ultimo, accusato peraltro di essere un abile seduttore e corruttore di donne. Ed anzi, è proprio la fisionomia “effeminata” di Dioniso ciò che suscita l’immediata avversione di Penteo verso di lui, come dimostrano chiaramente le affermazioni che egli fa appena il dio gli viene presentato: “Hai proprio un corpo ben fatto, Straniero, / o almeno così direbbero le donne: non è per loro che sei venuto a Tebe? / E guarda quei riccioli lunghi (certo non sei un lottatore!), / che ti lambiscono le guance, come traboccano di desiderio”. A tale elemento si aggiungono poi, come vedremo avanti, l’origine barbara del misterioso straniero e l’assenza in lui di quei “solidi principi morali” di cui Penteo si ritiene alfiere.

Quale scacco allora per il re di Tebe, accorgersi che le baccanti sono in realtà molto più forti dei suoi eserciti. E ciò non perché esse si siano “maschilizzate”, come le donne spartane, bensì al contrario perché, alleandosi con il dio dell’ebbrezza e della vite, hanno acquisito un potere del tutto sconosciuto agli eserciti della città-stato.

Anche il popolo ha poi la sua parte in questo dramma. L’affermazione che quella democratica ateniese fosse una società improntata a valori fondamentalmente aristocratici ed elitari, non può a tutta prima non apparire strana e perfino contraddittoria. Eppure, anche se ovviamente la realtà dei fatti è molto più sfumata e complessa, una tale affermazione tutto sommato è veritiera. L’accettazione del popolino nelle fila della cittadinanza infatti, andò di pari passo con la crescita del benessere e del livello culturale dei suoi componenti. Non fu tanto quindi – almeno tendenzialmente – la società ateniese a popolarizzarsi, quanto piuttosto il popolo a omologarsi, nei limiti del possibile, agli ideali dell’aristocrazia.

Una tale elevazione fu resa possibile in gran parte dalla schiacciante superiorità politica e militare di Atene sugli altri stati greci. Da tale fattore derivò ad Atene quella grande prosperità che permise ai suoi membri di dedicare gran parte del proprio tempo alla diffusione dei modelli aristocratici di comportamento e di pensiero anche tra le classi più umili (attraverso, peraltro, un processo in gran parte veicolato proprio dal teatro). Fu dunque il progressivo avvicinamento dei ceti plebei (prima di quelli più ricchi, poi anche di quelli poveri) alle élite dominanti, ciò che diede vita alla polis in generale e alla democrazia ateniese in particolare.

Ma con la crisi della polis classica, anche i principi che vi erano a base cominciarono presumibilmente a vacillare. È dunque probabile che, in concomitanza con tale crisi, iniziassero a riprendere vigore atteggiamenti e idee (d’estrazione popolare) rimasti in passato maggiormente nascosti e sopiti. Sempre nella nostra opera infatti, è evidente – né la cosa secondo me deve stupire – come il culto spontaneistico della Natura di cui Bacco è espressione sia essenzialmente retaggio delle classi basse, più che di quelle alte. L’adesione sincera allo spirito dionisiaco è qualcosa che troviamo, a mio avviso, solo e sempre tra i personaggi socialmente umili, con l’unica eccezione (peraltro non priva di problemi) di Tiresia. Ma né Penteo, né Agave, né Cadmo sono capaci di ‘simpatia’ per Dioniso, e ciò anche laddove – come nel caso di Cadmo – si impegnino per dimostrarla.

Del resto, la natura popolare dei riti bacchici è qualcosa su cui anche il coro delle baccanti asiatiche insiste più volte: solo un cuore semplice, umile, incolto – esse sottolineano – può accogliere davvero Bacco. (“Chi segue l’immenso perde l’attimo presente… [Dioniso] odia chi non si cura / di vivere felice / nel giorno luminoso e nelle notti amiche / serbando nell’anima e nel cuore / una saggezza intatta dalla superbia degli uomini. / La fede dei semplici, / la vita della folla più umile: / questa è la mia legge.”) La razionalità, l’attitudine al dominio su se stessi e sugli altri non possono infatti non inaridire quella spontaneità, quell’impulso al gioco, al vivere pienamente l’attimo presente, che è la radice più profonda del dionisismo. (Afferma ad esempio la guardia alla fine del suo lungo monologo: “Non so chi sia questo dio, mio signore, / ma aprigli le porte della città: egli è grande e potente. / Ho anche sentito dire che ha donato agli uomini / la vite che cancella il dolore. / E dove non esiste il vino, non esiste l’amore.”)

È chiaro insomma, come l’affermazione di Dioniso come nuova divinità rappresenti – almeno in quest’opera – una forma di riscatto degli ultimi, un’occasione per far prorompere componenti della vita sociale che, già forse a partire da Omero, iniziarono ad essere emarginate dalla cultura e dalla vita ufficiali.

Infine, ma non ultimo per importanza, troviamo il motivo dell’Oriente, del cosiddetto mondo barbaro. In questo caso però, non dobbiamo tanto ragionare su di esso, quanto piuttosto sull’idea che di esso avevano i greci e che – guarda caso – altro non era, in sostanza, che l’immagine rovesciata di se stessi.

Il fatto che Dioniso e il suo seguito di baccanti abbiano un’origine straniera (xenoi) è subito posto in evidenza dallo stesso Dioniso, laddove – proprio in apertura – racconta del viaggio che, attraverso svariate terre barbare, lo ha portato fino a Tebe e in Grecia.

E del resto, il rifiuto che Penteo oppone al dio, si sostiene proprio in gran parte sulla sua origine barbara. (Come prova tra l’altro il seguente scambio di battute: “DIONISO: Già ogni terra straniera celebra i suoi [di Dioniso] riti. PENTEO: Per forza: [i barbari] sono più sciocchi dei greci”.)

Si può dire dunque, che le antitesi precedentemente prospettate (uomo-donna; popolo-aristocrazia) vengano in qualche modo ricomprese in un’antitesi originaria: quella tra Greci e Barbari. È proprio il mondo barbaro difatti, il luogo da cui gli impulsi disgregativi sopra analizzati provengono. In altri termini, tanto il riscatto della donna quanto quello dello spontaneismo popolare sono avvertiti in quest’opera come il prodotto di una contaminazione culturale rinnovatrice, esterna al mondo greco.

Del resto, il tema dell’Oriente portatore di un sapere magico, misterioso e disgregatore della vita e delle istituzioni della polis classica non è affatto nuovo a Euripide. Si pensi, a questo riguardo, a quella che è senza dubbio la sua opera più celebre, la Medea, nella quale peraltro tali suggestioni si associano a un altro tema ricorrente e fondamentale in molte tragedie greche: quello della donna scardinatrice dell’ordine sociale e portatrice di morte.

Una differenza essenziale tra Medea e Dioniso tuttavia vi è, e consiste nel fatto che Medea, a differenza di Dioniso, non è una divinità ma una semplice mortale. Le azioni da lei compiute dunque, possono essere considerate come follia e peccato (hybris); al contrario la follia bacchica ha un carattere divino che ne rende impossibile l’identificazione con la hybris umana. Piuttosto, nelle Baccanti, è proprio il moralista Penteo ad essere classificabile come peccatore e sovvertitore dell’ordine divino!

---  I segni dell’Ellenismo  ---

Ma in che modo le tematiche appena analizzate preludono agli sviluppi ellenistici della civiltà greca?

Innanzitutto, l’Oriente. Con le conquiste geografiche di Alessandro Magno e poi con la nascita dei grandi stati ellenistici, sorti dalla disgregazione dell’impero alessandrino, l’Oriente entrò prepotentemente nell’orizzonte fisico e spirituale dei greci. Già sottomessi da alcuni decenni dai macedoni, essi videro così ampliarsi ulteriormente i confini del loro mondo. Tutto ciò, se da un lato diede loro ulteriori occasioni di sviluppo economico e di arricchimento spirituale, dall’altro li costrinse per così dire a perdere la propria verginità e a mescolarsi con differenti etnie e culture.

Anche se i greci e i macedoni invasero le regioni orientali in veste di conquistatori, occupandovi quindi – specie inizialmente – soprattutto dei posti di privilegio, e fondando inoltre in quei territori centinaia di città-stato indipendenti sul modello delle loro terre d’origine, tutto ciò non poté comunque dispensarli del tutto dal confondersi con le popolazioni indigene, dando così vita a culture miste, diverse a seconda delle regioni.

A partire dal periodo ellenistico insomma, non esisté più (se non forse in Grecia, regione che tuttavia conobbe un impressionante tracollo economico e culturale) una civiltà puramente greca, bensì una serie di civiltà ibride, contenitori di popoli e culture anche molto differenti tra loro (tra le quali peraltro, quella ebraica). E nonostante un tale melting pot culturale fosse in qualche modo tenuto insieme, a partire dall’uso di una lingua comune a tutte le regioni (la cosiddetta koinè), da una matrice di stampo ellenico, in tale situazione l’identità greca non poté non diluirsi pesantemente, dando vita così a un tipo fino ad allora inedito di civiltà.

Uno degli effetti di questa nuova situazione fu la diffusione, tra gli stessi conquistatori occidentali, di una temperie misticheggiante e irrazionalistica. Le cause di una tale trasformazione non sono facili da definire con esattezza. In essa svolsero comunque sicuramente un ruolo primario lo spaesamento culturale e la profonda crisi di coscienza dei popoli greci, da sempre abituati a condurre un’esistenza rigidamente separata dal resto del mondo, oltre che a organizzarsi sulla base di strutture socio-politiche di dimensioni infinitamente inferiori rispetto a quelle dei nuovi stati ellenistici.

Ma nell’affermazione di tali tendenze un ruolo di primo piano giocò certamente, soprattutto sui tempi lunghi, anche la contaminazione e la fusione tra i greci e gli occidentali in genere e le popolazioni indigene orientali, da sempre abituate all’amaro fardello della sottomissione allo Stato e al Sovrano (dispotismo orientale) e fortemente inclini quindi al fatalismo e al misticismo.

Infine, rimane da affrontare il tema più difficile, quello della donna. A anche se, per quel che ne so, non è assolutamente possibile parlare d’emancipazione femminile, è comunque  accertato che tutto sommato la condizione sociale delle donne conobbe in questo periodo un notevole miglioramento.

Le ragioni, al solito, furono quasi certamente più di una. Da una parte probabilmente, vi fu l’influenza esercitata sui conquistatori dalle società ospitanti, caratterizzate rispetto a quelle elleniche da un assetto decisamente meno patriarcale e maschilista.

Dall’altra, un ruolo essenziale fu giocato dalla trasformazione delle condizioni di vita, e quindi delle tendenze culturali, dei greci propriamente detti. Soprattutto, si assisté in questo periodo a un notevole “imborghesimento” della vita sociale, concomitante peraltro con lo sviluppo di grandi arterie di scambio internazionali e di grandi interessi commerciali, oltre che con la dissoluzione della città-stato, istituto le cui ridotte dimensioni rendevano possibile un’identificazione tra il singolo e la comunità, ponendo così le basi dei valori del sacrificio e della gloria personali (gli ideali eroici alla base della polis classica, insomma).

Al contrario, in questi nuovi organismi politico-territoriali, tanto vasti quanto impersonali, gli eserciti erano oramai esclusivamente formati da soldati mercenari e l’antico patriottismo cedeva inevitabilmente il passo a un più marcato individualismo, a una concezione più privata ed edonistica dell’esistenza. In questa nuova temperie, anche la donna – e prima di essa, l’elemento femminile – acquisì un significato maggiormente positivo rispetto al passato. Anche se ad esempio non si può assolutamente parlare di “spirito dionisiaco”, in questi periodi si assisté comunque tanto nell’arte figurativa quanto nella letteratura a una notevole rivalutazione delle categorie del femminino, del piacevole e del decorativo, contro l’antico rigorismo classico, ben esemplificato nell’architettura dorica, espressione di ideali eminentemente virili.

Se prima la donna era considerata l’anello debole della catena familiare e sociale, ora essa, pur restandole ancora precluse molte sfere della vita sociale (e in primis quella politica, retaggio ancora esclusivamente maschile), acquisisce una nuova dignità. Le donne vedono insomma mitigata la precedente condizione di recluse in casa e acquisiscono nuovi diritti e nuove occasioni di affermazione sociale.

Anche da questo punto di vista dunque, l’opera qui analizzata si rivela, quantomeno in una certa misura, profetica di tendenze che saranno proprie degli sviluppi ellenistici della civiltà greca.

Per i motivi sopra esposti, credo si possa dire che le Baccanti costituiscono un’opera del tutto eccezionale nel panorama culturale greco (cosa questa, che già gli antichi avevano ben capito, se è vero che tra essi, al contrario che tra noi moderni, era una delle tragedie classiche più celebri e più spesso rappresentate).

Uno dei principali motivi dell’eccezionalità di quest’opera, prodotto di un genio della tarda classicità ateniese, risiede a mio avviso, oltre che nella sua poesia senza tempo, anche nel fatto di apparire (per così dire) contemporaneamente rivolta verso il passato, ovvero verso i periodi più remoti e ancestrali della storia greca, e verso il futuro, ovvero verso i suoi sviluppi ellenistici e romani.

Nota

Per le citazioni dal testo di Euripide, mi sono avvalso della traduzione di Giorgio Ieranò, nella collana dei Classici Greci e Latini dell’editore Oscar Mondadori, 1999. A tale edizione devo inoltre alcuni spunti interpretativi utilizzati in questo mio scritto.

Per le Eumenidi invece, mi sono avvalso della traduzione dell’Orestea di Norma Samantha Fanoli, presente nell’edizione BUR, collana SUPERCLASSICI, del 1997.

Di altri spunti e di altre informazioni presenti in questo scritto infine, sono debitore all’introduzione di Mario Vitali alle tragedie di Euripide, Alcesti, Medea, Baccanti, presente nell’edizione Bompiani tascabili del 1991.

Fonti: Baccanti - www.homolaicus.com/letteratura/euripide/baccanti/

Le Baccanti di Euripide e il declino della polis classica - Un confronto con le Eumenidi di Eschilo - Il percorso dell'idea di Sophrosyne


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 01/05/2015