LA GRECIA TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Storia ed evoluzione della Grecia classica


Mitologia e Poesia

del professore Alberto Mariani

L’argomento di questa conversazione si presta ad una duplice lettura, cioè “mitologia e poesia” (e congiunzione) e “mitologia è poesia” (è voce del verbo essere, copula): entrambe le lezioni sono valide perché la mitologia ha spessissimo ispirato, naturalmente in vari modi, poeti e letterati di ogni tempo e, d’altra parte, è essa stessa altissima poesia, prodotto della fantasia, creazione del genio popolare primitivo.

Il più valido e il più geniale interprete del mito è certamente G. B. Vico il quale ne sottolinea la poeticità facendolo coincidere con l’epica primitiva, frutto di una umanità ancora tutto senso e fantasia, appena uscita dallo stato ferino e che quindi avvertiva “con animo perturbato e commosso”.

Anche coloro che nei vari periodi hanno assunto un atteggiamento “mitoclastico”, sostenendo la necessità di una poesia che fosse espressione di qualche cosa di attuale, si sono soffermati sulla mancanza di elementi vivi e validi, ma non hanno sostanzialmente negato i valori del mito.

Già nel ‘300 il Boccaccio nel “De Genealogiis deorum gentilium” inveiva contro i detrattori i quali denigravano i miti perché inutili e falsi e ribatteva che le finzioni non nascondono ma esprimono la verità umana: per il certaldese, dunque, la mitologia non era una serie inerte di leggende convenzionali, ma un patrimonio di schemi e di esempi dietro ai quali si poteva scoprire la verità della poesia, cioè il suo senso umano.

L’opposizione più decisa alla mitologia classica si ebbe con il Romanticismo, sostenitore di un autentico rinnovamento nell’arte e pertanto denigratore della “poesia dei morti.

Non è inopportuno però sottolineare da un lato che molti Romantici condannarono non tanto lo studio della mitologia quanto il suo abuso e la sua stucchevole e pedissequa imitazione, dall’altro che i Romantici tedeschi incorsero in una palese contraddizione di fondo in quanto, mentre polemizzavano tanto violentemente contro la mitologia classica, crearono e resuscitarono un’altra mitologia, di origine medievale, con Sigfrido e i Nibelunghi (per inciso si può ben dire che la cultura germanica, soprattutto nell’Ottocento, per eccessivo sciovinismo, tendeva a distruggere tutto ciò che germanico non era, in linea con il “Deutsche uber alles”).

Nel 1823 il Manzoni nella lettera sul Romanticismo diretta a Cesare D’Azeglio faceva il punto sulla mitologia riassumendo le argomentazioni dei Romantici (assurdità di trattare del falso come si parla del vero, inutilità dell’introdurre nella poesia ciò che non richiamava alcuna memoria, noia nella ripetizione continua di queste falsità, ridicolaggine del tono serio usato per siffatti argomenti) e insisteva sulla irragionevolezza della mitologia partendo sempre dal principio della verità assoluta, non distinguendo cioè la verità logica e la verità fantastica. Di qui la condanna della mitologia classica che, essendo la religione dei pagani, non aveva più interesse per i popoli cristiani. Il Manzoni non negava che un poeta potesse ispirarsi al mito; condannava però il Classicismo che pur aveva con entusiasmo seguito negli anni giovanili.

Che però la mitologia potesse essere fonte di autenticità e viva ispirazione e non essere “un’aggiunta estrinseca ed accidentale” e quindi non meritasse la condanna lo dimostra, ad esempio, l’opera poetica del Foscolo, come vedremo più innanzi.

Due anni dopo, nel 1825, il Monti nel “Sermone sulla mitologia” esprimeva idee del tutto opposte ai denigratori del mito, condannando “l’audace scuola boreale” che pretendeva di contrapporre ”l’arido vero” alle bellezze serene del mondo classico del quale paventava la completa estinzione.

Il mito o, meglio, l’era del mito provocò anche nel Leopardi ammirazione e nostalgia: il recanatese nella canzone “Alla primavera” esprimeva tutta la sua ammirazione ed il rimpianto struggente per la Primavera come giovinezza dell’animo e per le favole antiche come giovinezza dell’umanità.

Fin qui con excursus abbastanza rapido e necessariamente incompleto si è visto il diverso atteggiamento critico nei riguardi della mitologia da parte di illustri letterati e artisti: come dianzi avvertivo, da parte dei detrattori non si è mai condannato il mito in sé e per sé ma si sono sottolineate le nuove forme di sentire e, di conseguenza, le nuove esigenze della poesia.

E’ innegabile che la mitologia sia poesia, essa coincide appunto con la poesia, anzi ne è la prima manifestazione: la sua è, come afferma giustamente il Morpurgo, “la storia, sia pur congetturale ed ipotetica, del passaggio dell’umanità dallo stato animalesco e selvatico a quello di primitiva civiltà; è la storia, sotto il velame immaginoso e favoloso del sorgere dei primi rapporti umani, delle prime idee religiose, nonché della primordiale coscienza che gli uomini ebbero di quanto accadeva intorno a loro, della loro elementare intuizione di un mistero sovrumano, di arcane forze sovrastanti all’universo”.

Ogni fenomeno naturale che ancora oggi ci commuove e ci appassiona, ogni spettacolo che nonostante la quotidianità ci riempie di stupore e di ammirazione, ogni intuizione del trascendente, tutti questi motivi hanno nel mito non dico la loro spiegazione, perché allora il mito avrebbe solo importanza razionale, ma la loro fantastica trasfigurazione.

Il mito inoltre, con profonda allegoria esprime spesso la supremazia della ragione sulla forza (cfr. la Titanomachia), la vittoria del sole sulle tenebre (cfr. la vittoria degli eroi che eliminarono gli orrendi mostri), le tristi vicende di vita e di morte (Orfeo e Euridice, Alcesti).

Il mito inoltre ha, con meravigliosa fantasia, parlato delle origini di fiori, di piante, di animali: il girasole che ricorda Clizia la quale amò non riamata Elios e nella sua nuova forma volge sempre al sole la sua dorata corolla, in loto fu cambiato Driope, in Canneto Siringa, in pioppi le Eliadi, così Dafne verdeggia nell’alloro (cfr. anche Dante, Paradiso, Canto I); dal sangue di Giacinto sbocciarono i fiori omonimi, dal corpo di Narciso che amò la sua immagine riflessa nella fonte ed in essa annegò nacquero i fiori pallidi che da lui presero nome; infine il cipresso ci ricorda il mito di Ciparisso, il giovinetto caro ad Apollo che senza volerlo uccise il cervo dalle corna auree prediletto dal dio.

Lungo sarebbe l’elenco dei vari miti: basta dire che tutta la fantasia degli antichi in essi si riversa presentando una straordinaria abbondanza di favole.

Anche l’amore è assai spesso motivo ispiratore dei miti: da quello casto di Filemone e Bauci a quello tragico di Piramo e Tisbe (evidente la derivazione shakespeariana di “Giulietta e Romeo”), a quello di Alcesti e Admeto è tutta una successione di immagini indimenticabili. Anche gli amori di Giove devono essere considerati come allusivi ai fenomeni celesti (trasformato in pioggia d’oro con Danae, in cigno con Leda, etc…; lo stesso mito di Ebe e di Ercole altro non è che la poetica allegoria dell’unione della ridente giovinezza con l’indomabile ardire.

Infine il mito sempre allegoricamente fornisce agli uomini saggi consigli a non superare certe mete, dal mito di Fetonte (“quel che fa li padri ai figli scarsi”, Dante, Paradiso, Canto XVII) a quello di Dedalo e Icaro.

Il mito ha sempre costituito –e passo ora alla seconda parte di questa conversazione- motivo di ispirazione per i poeti di ogni tempo.

E’ appena il caso di sottolineare che dovrò necessariamente operare molte omissioni essendo l’argomento di straordinaria complessità e non potendo essere questa conversazione esauriente e completa.

A cominciare dalla letteratura greca notiamo che l’epos è tutto derivazione dal mito e che il mondo omerico, caratterizzato da uno straordinario vigore di fantasia, lo esalta e lo rende immortale; anche i tragici proprio dal mito hanno tratto lo spunto per profonde meditazioni: a differenza dell’epica che esalta l’eroe nel suo forte agire, la tragedia lo esalta nel suo forte patire per cui il fato, i suoi mutamenti, le sue spiegazioni sono alla base dell'opera tragica.

Si hanno naturalmente vari atteggiamenti: Eschilo, pieno di sacra religiosità, si prostra dinanzi alla legge divina che condanna l'eroe; Sofocle avverte il drammatico contrasto tra mito e umanità, tra legge umana e legge divina; Euripide dalla concezione più moderna e più critica, animato da forte scetticismo discute il mito stesso, si che l’umanità ha una netta prevalenza: i suoi personaggi reagiscono con violenza al dominio del fato e gli stessi dei di cui Eschilo accettava il volere sono spesso fortemente criticati.

Nel mondo ellenistico vi fu una straordinaria predilezione per il mito: Callimaco, ad esempio, lo vagheggia, preso com’è e incantato dalla nostalgia della sua bellezza. Qui mancano passioni violente, domina l’amore per la ricerca dotta, per il mito meno noto, come vediamo anche in Apollonio il cui capolavoro può essere certamente definito come un immenso poema mitologico ed etiologico.

Nel mondo latino molti sono gli autori che si rifanno al mito: non si può non iniziare da Ovidio il quale nella poliedrica galleria di quadri che illustrano gli episodi più meravigliosi della storia del mito costruisce “un romanzo mitologico”, trattando delle varie trasformazioni, da quelle del Caos in Cosmo fino alla trasformazione di Cesare in astro, passando attraverso una serie infinita di “metamorfosi” dando in ogni caso prova del suo talento “immaginifico”.

Già prima di Ovidio altri poeti erano stati interessati al mito: con gli altri neoteroi Catullo, non insensibile all’estetica Callimachea, celebrò più di un mito, compiacendosi anche, come nel Carme LXIV, di inserire un racconto mitico dentro un altro, cioè quello di Teseo ed Arianna nell’altro delle nozze di Peleo e Teti; così anche Virgilio aveva nelle Georgiche inserito nella favola di Aristeo il mito di Orfeo ed Euridice.

Lo stesso Lucrezio, entusiasta celebratore di Epicuro, colui che vide nella dottrina del filosofo di Samo l’effettiva liberazione del genere umano dalla schiavitù della “religio”, considerando che gli dei vivevano appartati negli “intermundia” e quindi del tutto assenti dalla vita umana e perciò ininfluenti in ogni caso, lo stesso Lucrezio, dicevo, non può sottrarsi al fascino della mitica Venere, senza la quale nulla “dias in luminis oras exoritur neque fit laetum neque amabile” e a lei si rivolge chiedendo per i Romani pace e prosperità.

Non ricordo quale critico parlando di questa Venere lucreziana, “Aeneadum genetrix”, l’ha paragonata, non contrapponendola ma affiancandola, all’altra Venere ovidiana, “amatrix”, non “genetrix”, divinità dunque dell’amore passionale.

Uno degli argomenti più frequentemente cantati da coloro che si ispirarono al mito è senz’altro quello dell’età dell’oro (interessante sarebbe a questo punto parlare della corrispondenza tra alcuni miti ed i testi sacri, ad esempio fra il diluvio dal quale scampò Noè e quello da cui si salvarono Deucalione e Pirra, fra il Paradiso terrestre e l’età dell’oro, fra la nuova sede data da Dio agli uomini e l’età di Giove, successiva a quella di Crono; fra la rivolta di Nembrot e quella dei giganti; seguendo questa traccia si andrebbe in altra direzione, cosa questa estranea alla presente conversazione).

Anche su questo punto è differente la posizione dei poeti che ricordano questo mito, degli elegiaci che vagheggiano la felice età in cui l’uomo poteva disporre con la massima felicità di tutto ciò che voleva e di Virgilio che, dopo un non diverso atteggiamento nelle “Bucoliche” (Ecl. IV), nelle “Georgiche” sottolinea l’ineluttabile necessità della fatica (“labor omnia vincit”), per cui l’uomo acquisisce la consapevolezza che il lavoro è la ferrea legge di Giove, non solo come limitazione del piacere ma anche, e soprattutto, come dovere che determina la dignità dell’uomo.

Il Tasso nel celebre coro dell’”Aminta” rimpiange quell’età considerandola caratterizzata dalla vera e completa libertà dell’uomo, non più sottomesso e condizionato dai preconcetti e dai vincoli morali: “se piace, ei lice” era l’aurea norma per cui gli uomini veramente liberi, prima del loro asservimento, consideravano lecito tutto ciò che li dilettava.

Anche il Leopardi vede in quell’età il periodo felice nel quale l’uomo, dominato dalle illusioni, non percepiva ancora la reale essenza delle vita.

Altro motivo che continuamente i poeti hanno ripreso dal mito è quello di Ulisse: da Dante in poi si ha tutta una gamma di angolazioni che pongono l’Itacese al centro della nostra attenzione.

A cominciare dai tragici greci (diversa è figura in Sofocle che lo esalta e in Euripide che lo presenta anche rozzo e a tratti spregevole), Dante fa dell’Itacese la celeberrima figura che nel canto XXVI dell’inferno non sente “né la pieta del vecchio padre, né il debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta”, e vuol divenire “del mondo esperto”, condannato dalla necessità di “seguir virtute e canoscenza”, e pertanto compie il “folle volo” (simbolo questo, alla luce di una sua interpretazione moderna, di un novello Prometeo).

L’Ulisse foscoliano, “bello di fama e di sventura”, è la figura che sintetizza il sentimento nuovo e romantico del mito: è la sventura che determina la gloria, come accadrà anche ne “I Sepolcri” ad Aiace, a Cassandra e ad Ettore.

Il Pascoli presenta anch’egli la figura dell’Itacese che si pone domande angosciose che riflettono la sua stessa crisi esistenziale (“…ma dite un vero, un solo a me, ha il tutto, prima ch’io muoia, a ciò che io sia vissuto!”, “Ultimo viaggio”, dai “Poemi conviviali”); l’Ulisse pascoliano è quindi espressione della sua inquietudine decadente, del suo senso del mistero, del suo ripudio della vita oggettiva.

Nel D’Annunzio Ulisse diviene un mito che giunge alla dimensione superumana del vivere: si evidenzia quindi l’altro aspetto del decadentismo, antitetico ma coesistente a quello dell’intimismo esistenziale.

Nel primo libro delle “Laudi”, Maia, Ulisse ci appare come un navigante che vuole e sa dominare gli eventi avversi, che prosegue “il suo necessario travaglio contro l’implacabile mare”.

Ed il poeta si sente affascinato, attratto dalla forte figura dell’eroe; pertanto rimane solo sul mare “E in me solo credetti. Uomo, io non credetti ad altra virtù se non a quella inesorabile d’un cuore possente. E a me solo fedele io fui, al mio solo disegno. O pensieri, scintille dell’Alto, faville del ferro percosso, beltà dell’incude!”.

La rievocazione del mito può essere fatta in modi diversi: o, come nel Monti, è ornamento, spesso pregevole e formalmente armonioso, caratterizzato anche da autentica commozione per il mito evocato, quando tale sentimento non è, per così dire, appesantito dal motivo encomiastico ed adulatorio, oppure è sostanziale e totale ritorno all’antico, immedesimazione in esso, come nel Foscolo, che nel mito si rifugia soffocando la sua tormentata sensibilità romantica.

Poco prima ho parlato dell’Ulisse foscoliano: come non ricordare a questo punto le altre figure del mito nel poeta dei “Sepolcri”? La loro rievocazione non è casuale né occasionale: ad esempio Aiace, che dalla vita ricevette solo ingiustizie e che solo dalla morte ottenne giustizia, esalta il credo foscoliano della morte “giusta dispensiera di gloria ai generosi”.

Non è questa un’interpretazione dei critici, ma è il Foscolo stesso che lo dice: “E me che i tempi e il disio d’onore fan per diversa gente ir fuggitivo”.

Quel pronome personale accusativo, messo con particolare evidenza all’inizio del periodo, dice chiaramente quanto il poeta di Zante sentisse congeniale a sé la figura del fortissimo telamonio.

Anche Elettra, che non ricusa l’idea della morte, ma chiede a Zeus, in nome dell’amore che lo ha unito a lei, di ottenere fama eterna, è la proiezione dello stesso Foscolo che vuole spiritualmente sopravvivere in terra alla morte corporale; come anche in Cassandra, la profetessa inascoltata che “l’amoroso lamento apprendea ai giovinetti ”, possiamo vedere il poeta stesso che alfierianamente intende la sua poesia ricca di profondo insegnamento civile; infine Ettore, il più grande eroe dei poemi omerici, è, come dicevo prima a proposito dell’Ulisse foscoliano, il più romantico simbolo dell’eroismo infelice e perciò degno di eterna ed immortale fama, meritevole di “onore di pianto”.

Anche il Pascoli, come si è visto, ritorna al mito con la sua angoscia decadente; così pure D’Annunzio, del quale mi piace ricordare il famoso ditirambo IV (dell’Alcione) “Il volo di Icaro” che evidenzia, come il già citato passo del primo libro delle Laudi, il tema del superuomo: l’infelice figlio di Dedalo, fuggito a volo insieme con il padre dal Labirinto, vuole alzarsi fino al sole non tanto per imperizia adolescenziale, quanto per il desiderio di parlare con il dio.

Il D’Annunzio stesso negli ultimi versi al giovane si rivolge

“Icaro, Icaro, anch’io nel profondo
mare precipiti, anch’io vi inabissi
la mia virtù, ma in eterno in eterno
il nome mio resti al Mare profondo”.

Il mito quindi, se è solo spunto, per quanto bello ed armonioso, ha valore soltanto di cornice; se invece, come in questo brano di D’Annunzio e nel Foscolo è tale da rivelarsi simbolo personale del poeta, diventa somma poesia: come è possibile parlare di un Aiace foscoliano, così è possibile parlare di un Icaro dannunziano o, se si vuole, di un D’Annunzio “icario”. Ho purtroppo omesso in questa mia chiacchierata sommi poeti come Ariosto, Parini, Carducci ed altri ancora. Lo stesso divin poeta Dante Alighieri, del quale ho sopra ricordato un paio di passi, non è estraneo al mito; si può anzi dire che egli reinterpreta la mitologia pagana in chiave cristiano-figurale, considerando le divinità pagane come metafore e prefigurazioni di ideali cristiani. Basti pensare ai primi canti delle cantiche del Purgatorio e del Paradiso: Calliope, della quale viene ricordata la vittoria sulle Pleiadi ed Apollo che vinse il confronto su Marzia, quella trasformando le superbe rivali in piche, questo scorticando vivo il satiro, sono esempi perenni di giusta punizione e di superbia punita.

Dante, oltre ai numerosissimi episodi nei quali, soprattutto nella prima cantica, ricorda personaggi mitologici, si sofferma su quelli che gli offrono spunti per considerazioni di carattere etico.

Così, ad esempio, in relazione al mito dei Giganti e a quello di Ulisse, giova comprendere quale sia l’atteggiamento di Dante: egli da un lato sottolinea l’estremo degrado di coloro che con frode vollero, ma inutilmente, profittare della loro forza sovrumana, dall’altro vede in Ulisse l’individuo dotato di straordinaria intelligenza che però confida solo sulle virtù umane, ignorando la necessaria grazia divina. Quella che era soltanto un’allegoria dei poeti, in Dante diviene e si sustanzia come allegoria morale nella quale confluiscono anche motivi teologici. Del mito dunque si sono alimentati grandissimi artisti i quali in esso si sono immersi e da esso hanno tratto indimenticabili episodi. Come ho già detto più volte, ho dovuto operare molte notevoli omissioni: non ho parlato infatti del mito degli Argonauti, delle imprese di Teseo, di quelle di Eracle, di Edipo e di moltissimi altri. Non esagero certo se dico che nessuno di questi poteva essere omesso, ma in tal caso avrei abusato della vostra pazienza e sarei incorso in una ingiustificata prolissità. Mi è bastato aver sottolineato i punti essenziali relativi alla poeticità del mito e alla notevole importanza che esso ha avuto nella letteratura di ogni tempo. Spero di essere riuscito nel mio intento e a Voi rivolgo il mio cordiale saluto.

www.provincia.pescara.it/accademiadabruzzo/rel_130.htm

Incontro 130° dell'8 giugno 2000

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Antica
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Aggiornamento: 01/05/2015