I TRUCCHI DELLA MITOLOGIA
Funzione ideologica del mito e rapporti tra mitologia greca e romana


La mitologia greco-romana ha svolto una funzione apologetica riscontrabile anche nella Bibbia ebraica e cristiana.

Gli uomini moderni sono soliti considerare "mitici" quei racconti aventi caratteristiche leggendarie, in cui i protagonisti compiono cose assolutamente impossibili o innaturali, anche se umanamente comprensibili, o comunque, diremmo oggi, scientificamente irriproducibili, in quanto si fa ricorso a prodigi spettacolari o eventi miracolosi (molti dei quali però oggi possiamo riprodurre proprio in virtù della rivoluzione tecno-scientifica), interventi di forze o entità ultraterrene e così via.

Quando leggiamo le narrazioni mitologiche, siano esse di cultura greco-romana o ebraico-cristiana, siamo portati a considerarle come semplici descrizioni simboliche o allegoriche, mentre per tanti secoli gli uomini, nella loro ignoranza o per cieco fanatismo, le hanno interpretate in maniera letterale, senza metterle in discussione. Si pensi solo, sul versante ebraico-cristiano, alla creazione dell'uomo o dell'universo, ancora oggi considerate da certi ambienti integralistici come intangibili al cospetto delle teorie evoluzionistiche, o, sul versante greco-romano, alle infinite leggende connesse alla nascita di città e stirpi.

In realtà le cose non sono così semplici. Oggi ci è facile, con la scienza e la tecnica e con lo sviluppo dell'umanesimo laico, dire che un mito è un mito. P. es. nessuno oggi si scandalizza quando la critica sostiene che il personaggio di Enea, descritto da Virgilio, in occasione della nascita di Roma, è del tutto inventato. Eppure questo atteggiamento disincantato non significa affatto che si sia stati capaci di demitizzare il mito di Enea.

Il fatto che oggi si sia convinti che la realtà sia stata mascherata con degli artifici non implica, di per sé, la capacità di analizzare criticamente i valori di quella realtà trasmessi con la finzione.

Cioè se anche dimostriamo che Enea è un falso, non per questo abbiamo dimostrato ch'era falsa la motivazione dell'autore che si è servito di questo espediente letterario per trasmettere una determinata ideologia. Beninteso, una motivazione va semplicemente constatata e non giudicata di verità o falsità. Virgilio aveva sicuramente delle buone motivazioni per presentare al suo pubblico un finto personaggio come Enea.

E tuttavia, compito del critico non dovrebbe essere semplicemente quello di dimostrare che l'eroe era simulato e che le sue vicende sono servite per legittimare scelte storiche e politiche che di leggendario nulla avevano, ma anche quello di verificare se le motivazioni che hanno fatto nascere questo eroe e queste vicende possono considerarsi adeguate alla realtà che, seppur in maniera mistificata, si voleva far conoscere. Un'analisi di questo tipo ci aiuterebbe a comprendere anche il nostro tempo. Non dimentichiamo che proprio l'Eneide venne considerata da Thomas S. Eliot come il classico che meglio poteva rappresentare l'Europa distrutta dalla seconda guerra mondiale.

Posto infatti che la mistificazione va data per scontata, in quanto risulta presente in tutti i racconti mitologici di tutte le civiltà, il problema che bisogna affrontare in maniera nuova è un altro: dobbiamo o no accettare le motivazioni che hanno fatto nascere quelle mistificazioni? Dobbiamo accettarle tutte o solo in parte? Dobbiamo forse accettarle come un dato di fatto, visto che esse, se ci sono pervenute, è da presumere che abbiano passato il vaglio dei poteri dominanti, i quali le avranno ritenute le più idonee a rappresentare la realtà del loro tempo e a trasmettere questa rappresentazione ai posteri?

Oppure possiamo mettere in discussione questa constatazione di fatto e chiederci se per caso non avrebbe potuto esserci una diversa interpretazione della realtà?

Restiamo all'esempio di Enea. Virgilio lo presenta come un Ottaviano ante litteram. Il poeta, che è un intellettuale di regime, preferisce la forza dell'eroe che deve unificare tutte le terre e le genti italiche sotto un unico dominio, all'autonomia delle tribù, delle etnie ecc., presenti da secoli nella penisola.

Quando parla di Enea lo fa a favore dell'impero, dell'unità imperiale voluta da Augusto, e quindi a favore della forza. Ma Virgilio non può dirlo esplicitamente, poiché l'uso della forza -come noto- può implicare anche il torto. La forza dei romani, per evitare equivoci, va invece presentata come vincente perché giusta, voluta dagli dèi.

La parte demagogica dell'Eneide sta nell'idea che l'eroe usa la forza per un fine di bene, per vincere la violenza e riportare i popoli ai valori etici originari. Deve riportarli con l'uso della forza, perché non c'è altro modo. Le popolazioni italiche impediscono l'uso di altri mezzi, perché sono contrarie all'unità imperiale, all'unificazione della penisola sotto un unico dominio. Ai tempi di Virgilio era la guerra civile tra chi voleva salvaguardare una repubblica ormai alle corde, con una democrazia fragilissima, e chi invece voleva una centralizzazione dei poteri nelle mani di un principe.

Virgilio vuole, anzi, deve dimostrare che l'uso della forza da parte dei romani era inevitabile, assolutamente necessario per vincere il "disordine" causato dalle popolazioni locali. Egli non prende in esame l'origine della violenza, anzi, ha tutto l'interesse a mostrare che la violenza non era stata causata dai romani, ma solo dagli italici.

I romani usavano la forza del bene col bene della forza, per superare i rischi della disgregazione, dell'anarchia, dove prevale l'interesse privato, particolaristico. Questo perché per Virgilio la nascita dell'impero non può essere messa in discussione. L'impero era nato per rimediare ai guasti causati dalla repubblica in sfacelo.

Virgilio vuole sostenere la tesi che alla rovina della repubblica non vi era altra soluzione che l'impero. Questa interpretazione della realtà a lui coeva è stata semplicemente adottata nell'analizzare dei fatti accaduti 700 anni prima. Si è usata la mitologia per giustificare un determinato processo storico.

Criticare oggi la mitologia non significa ancora mettere in discussione la necessità di quel processo. Noi siamo figli di quel processo e non possiamo autonegarci, anche se è il processo stesso che ci nega.

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Una delle caratteristiche tipiche di molti latinisti è quella di considerare la letteratura latina classica come, rispetto a quella greca, più dotata dal punto di vista dei sentimenti e delle virtù umane, non foss'altro perché si tratta di una letteratura più sobria e meno retorica (nel senso negativo che noi oggi attribuiamo a questa parola), più ironica e autoironica, sicuramente meno tragica, infinitamente più vicina alla quotidianità del vivere sociale e civile.

Basta fare un confronto, nei giudizi dei critici, tra quelli espressi sull'Eneide e quelli espressi sull'Iliade e l'Odissea. Si badi, in questo confronto i latinisti tengono sempre in considerazione che la letteratura latina è di molto posteriore a quella greca, si serve di quest'ultima e cerca di svilupparla in maniera autonoma, originale. Questo per dire che nessuno si sogna di operare semplicistiche contrapposizioni tra cultura greca e cultura latina.

Spesso tuttavia i latinisti sembrano trascurare il fatto che nelle analisi particolarmente favorevoli alla letteratura latina, non si mette mai in discussione la funzione apologetica esercitata da tale letteratura nei confronti degli interessi politici dell'impero.

E spesso purtroppo non ci si accorge che l'humanitas della letteratura latina non può di per sé rendere questa letteratura più accettabile di quella greca, o farci ritenere l'impero romano, ch'essa legittimava, migliore di quello ellenistico.

E' vero che i personaggi omerici possono apparire più elementari nelle loro passioni, più istintivi o più immediati di quelli latini, ma questo riflette appunto la diversità di concezione politica del dominio, che in Grecia coincideva essenzialmente col territorio geografico della polis, mentre nella latinità si ha bisogno di una centralizzazione imperiale su vasta scala.

L'humanitas della letteratura latina va messa in rapporto con l'esigenza di giustificare un'oppressione maggiore.

Personaggi come Ulisse o Achille sono impensabili per un grande poema come l'Eneide, dove tutto deve essere finalizzato a un unico scopo: la gloria di Roma imperiale e il trionfo sui particolarismi localistici e sugli eroismi o sulle stravaganze individuali.

Enea è l'uomo pius per definizione, in cui il sentimento profondo di umanità si trasforma in crudeltà solo quando sono in gioco gli interessi superiori della politica, dello Stato. I latinisti, in tal senso, non hanno difficoltà ad accettare, neppure dopo duemila anni di cristianesimo, che la pietas si volga nel suo contrario quando la posta in gioco è la tutela della civiltà romana.

E sulla civiltà greco-romana, ma soprattutto su quella romana, noi ancora oggi andiamo a cercare le fondamenta della civiltà borghese, che altro non è se non un ritorno al paganesimo mediato dall'esperienza millenaria del cristianesimo.

C'è molta più ipocrisia nella letteratura latina di quanto non si creda. Qui infatti si ha necessità di giustificare lo schiavismo come sistema organizzato di rapporto socioeconomico, laddove il mondo greco al massimo lo considerava come una forma per dimostrare l'inferiorità culturale e intellettuale delle civiltà non ellenistiche. Tant'è che già all'avvento dell'imperatore Adriano - dice Giovenale - "gli studi erano ormai privi di speranza e non avevano altro motivo di essere se non in Cesare". Già a partire dal II sec. d. C. si assiste a un lento e inesorabile declino della letteratura latina.

Oggi non è più possibile accettare che un dominio politico possa pretendere una maggiore legittimazione solo perché i suoi apologeti mostrano una superiore visione umanistica della realtà.

E neppure è possibile accettare l'esistenza di una concezione del destino inesorabile o di un fato insondabile nei cui confronti ogni volontà si deve piegare, ivi inclusa quella dalle caratteristiche più umane.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Storia antica