LA RIVOLUZIONE D'OTTOBRE
dall'esordio al crollo


RIVOLUZIONE RUSSA, CONTRORIVOLUZIONE E SOCIALISMO EUROPEO

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Fatta la rivoluzione, consegnata gratuitamente la terra ai contadini e stipulata la pace (separata e molto onerosa) di Brest-Litovsk (marzo 1918) con la Prussia, ai bolscevichi non restava che fronteggiare la controrivoluzione dei Bianchi, spalleggiata da 18 governi capitalisti, intenzionati a spartirsi il suo immenso territorio. La guerra mondiale era finita nel novembre 1918, ma gli eserciti dei paesi capitalisti non erano stati smobilitati, proprio perché si era deciso di inviare dei contingenti armati in Russia per sostenere la controrivoluzione.

Lenin era convinto che la rivoluzione d'ottobre avrebbe spinto il proletariato dell'Europa occidentale a insorgere. Infatti quello tedesco l'aveva fatto nel gennaio 1919. Si erano armati mezzo milione di operai, ma tra il 1919 e il '23 non si riuscì a trovare una guida politico-militare in grado di compiere la rivoluzione. Lo stesso avvenne in Ungheria e in Italia.

Fu per questa ragione che i bolscevichi pensarono di creare una Terza Internazionale. Fondata nel marzo 1919, essa cercò di dare un indirizzo concreto al movimento rivoluzionario europeo l'indomani della catastrofe bellica.

Il principale nemico da combattere era l'opportunismo borghese insinuatosi nelle fila degli intellettuali socialisti, i quali erano convinti che, per giungere al socialismo, fosse sufficiente una serie di riforme progressive, graduali. Tale opportunismo aveva già portato al fallimento la Seconda Internazionale e alla totale incapacità di ostacolare la volontà dei governi borghesi di scatenare la guerra mondiale (nei parlamenti si erano addirittura votati i crediti di guerra, si era preferito tutelare gli interessi nazionali venendo meno all'internazionalismo proletario e, durante la guerra, si era rifiutata l'idea di Lenin di trasformare la guerra imperialistica in guerra civile).

Paradossalmente, pur avendo i bolscevichi avuto la meglio sulla controrivoluzione, ciò non portò i dirigenti socialisti a desiderare con maggior vigore la rivoluzione nei loro rispettivi paesi. Non solo essi fecero molto poco per opporsi alla volontà dei loro governi di continuare, seppur ufficiosamente, la loro guerra in Russia (contro un nemico comune a tutto l'occidente borghese), ma non seppero neppure sfruttare a loro vantaggio la sconfitta della controrivoluzione bianca.

Come spiegare questa stranezza, visto e considerato che - secondo la teoria del marxismo classico - la rivoluzione socialista, per compiersi, aveva bisogno dello sviluppo industriale del capitalismo, il quale sviluppo avrebbe comportato la formazione di un enorme proletariato urbano, e avrebbe altresì favorito il nascente socialismo, consegnandogli, per così dire, in eredità delle forze produttive altamente sviluppate? La risposta (di Lenin, che conosceva bene l'Europa occidentale) era abbastanza semplice, ancorché sconcertante: lo sviluppo del capitalismo è vero che tende ad aumentare le fila del proletariato industriale, ma tende anche a "imborghesirlo", proprio perché tale sviluppo, avvalendosi dello sfruttamento coloniale di enorme aree del pianeta, è in grado di garantire un tenore di vita relativamente elevato ai propri lavoratori, e di corrompere, ancor più, i dirigenti sindacali e politici di tali lavoratori, i quali, ad un certo punto, si convincono che a una cruenta e risoluta rivoluzione siano da preferire pacifiche e progressive riforme su aspetti specifici della condizione operaia.

Ecco dunque spiegato il motivo per cui nell'Europa borghese tutti i tentativi rivoluzionari erano falliti miseramente. La storia cosa aveva dimostrato? Che la rivoluzione socialista era più facile compierla in un paese economicamente arretrato, dove i condizionamenti da parte dello stile di vita borghese risultassero minimi. Semmai in paesi del genere la rivoluzione industriale si sarebbe compiuta dopo quella politica, sotto il controllo dello Stato.

Come mai questa cosa non era stata capita da Marx ed Engels? Anzitutto perché loro stessi erano usciti sconfitti dalle rivoluzioni politiche degli anni 1848-50, per cui davano per scontato che lo sviluppo dell'industrializzazione borghese dovesse seguire il proprio corso. Cioè essi erano dell'avviso che una rivoluzione socialista avrebbe potuto esserci solo dopo che il capitalismo industriale avesse esaurito tutte le proprie potenzialità, in maniera tale che la contraddizione tra forze e rapporti produttive scoppiasse da sola, mettendo su un piatto d'argento l'esigenza di un rivolgimento totale del sistema.

In secondo luogo va detto che al loro tempo le crisi economiche di sovrapproduzione erano all'ordine del giorno (fortissima fu quella dal 1873 al 1895), e si pensava che in virtù di esse, nonostante l'imperialismo in atto, non fosse possibile distogliere il mondo del lavoro dalla necessità di emanciparsi dallo sfruttamento del capitale.

In terzo luogo si riteneva che se anche fosse stata possibile una transizione dal feudalesimo al socialismo agrario - come sembrava dovesse avvenire in Russia, grazie ai populisti -, ciò non avrebbe potuto durare molto senza una contestuale rivoluzione socialista del proletariato industriale europeo.

Quindi per Marx ed Engels sarebbe stato impensabile parlare di una "corruzione" degli operai occidentali e dei loro dirigenti così elevata da dover rinunciare a una rivoluzione vera e propria. Non avrebbe avuto senso continuare ad analizzare le contraddizioni del capitalismo. Corrotta e perversa era semmai la borghesia, capace di ingannare un proletariato e dei dirigenti socialisti in buona fede, ingenui.

Il revisionismo ideologico infatti emerge solo verso la fine dell'Ottocento, quando Marx era già morto ed Engels era molto anziano. Cioè viene fuori quando l'imperialismo borghese si era bene assestato e il capitalismo si stava trasformando da concorrenziale a monopolistico, coadiuvato, in questo, dal sostegno massiccio degli Stati, che volevano a tutti i costi proteggere la grande industria.

Il secondo nemico da combattere era l'estremismo politico-ideologico di alcuni partiti della sinistra europea, ch'era l'altra faccia della medaglia, in quanto entrambe le posizioni (estremismo ed opportunismo) rendevano impossibile la rivoluzione, la quale non ha solo bisogno di determinazione in carattere ma anche di ampi consensi.

Lenin, in particolare, era convinto che dai riformisti ci si dovesse separare per potersi meglio autodefinire, ma anche che con essi, subito dopo, ci si dovesse alleare, proprio per non fare la parte di una sparuta e insignificante minoranza, capace solo di anteporre alle questioni politiche quelle ideologiche. Egli era anche convinto che se l'esercito polacco, spalleggiato dagli anglo-francesi, fosse stato cacciato dall'Ucraina appena occupata, forse c'era la speranza, facendo entrare l'Armata Rossa a Varsavia, che la rivoluzione di tutto il proletariato europeo avrebbe potuto avere buon esito. Pensava questo nel 1920, in occasione del II Congresso dell'Internazionale. A quel tempo l'Armata Rossa era composta da 5,3 milioni di uomini e sembrava imbattibile: praticamente aveva quasi liquidato la controrivoluzione (restava soltanto l'esercito di Vrangel).

Tuttavia le cose andarono molto diversamente, sia perché i dirigenti socialisti dell'Europa occidentale non erano neanche lontanamente all'altezza di Lenin e dei bolscevichi; sia perché l'Armata Rossa fu sconfitta a Varsavia, a causa del mancato coordinamento dei vari comandanti (Egorov, Voroscilov, Budienny e Stalin), che non accettarono di sottostare alle direttive del generale Tukhacevski, allora appena ventisettenne, e che fu fatto fucilare dallo stesso Stalin nelle purghe del 1937.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia contemporanea
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Aggiornamento: 28/05/2016