STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


COMUNI, SIGNORIE E PRINCIPATI ITALIANI

I - II

Usurai medievali

Premessa

Marx ha fatto nascere il capitalismo nel XVI sec., precisando che in Italia vi era già stato uno sviluppo in tale direzione alcuni secoli prima.

Se fosse vissuto in Italia avrebbe dovuto dire che la mentalità borghese s'era formata addirittura con la nascita dei Comuni, cioè ben mezzo millennio prima dell'Inghilterra (da lui analizzata nel Capitale), e soprattutto in quell'area geografica compresa tra la Val Padana e l'Arno, che sicuramente dagli inizi del basso Medioevo sino alla prima metà del Trecento fu la più sviluppata d'Europa e che restò tale, in competizione con altre aree europee (Fiandre e Hansa, in primis), sino alla prima metà del Cinquecento.

Il capitalismo non nasce con l'industria ma con l'artigianato (separato dall'agricoltura) e il commercio, di cui quello a distanza era il più remunerativo, la principale fonte di accumulazione di capitali.

Marx però ha ragione là dove sostiene che capitalismo vuol dire anzitutto "capitale privato" investito in una qualsivoglia impresa manifatturiera che produce profitti in forza del lavoro salariato.

La domanda dunque è questa: esiste "capitalismo" in presenza di una corporazione artigiana i cui mezzi di produzione appartengono agli stessi artigiani, che pur si servono di garzoni e manovali nullatenenti? Se la risposta è affermativa, dobbiamo allora anticipare di almeno mezzo millennio la nascita del capitalismo.

Infatti non basta dire che, prima del capitalismo industriale vi fu quello commerciale. Nei Comuni italiani il tessile costituiva la principale attività manifatturiera, oltre ad altre attività in cui venivano impiegati operai salariati, urbani e rurali, condotte in maniera completamente diversa da quelle altomedievali. E' sufficiente che in un lotto di terra si smetta di produrre derrate alimentari per il proprio consumo e per la rendita del feudatario e si cominci a produrre per vendere le derrate sul mercato urbano, per capire che in questo mutamento di produzione s'è già insinuato l'elemento borghese, indipendentemente dal fatto che questo mutamento sia stato accettato volentieri, nel contado, o semplicemente subìto.

Ancora più evidente di ciò è l'esempio del feudatario che trasforma il proprio lotto di terra adibito alla produzione di derrate agricole in un pascolo per pecore che producono lana da vendere alle manifatture tessili della città: il fatto stesso che per compiere una trasformazione del genere egli abbia dovuto espellere dal lotto di terra tutti i contadini, affidandolo alla gestione di pochi pastori, indica chiaramente ch'egli ha smesso di comportarsi come un "feudatario".

Dunque gli albori del capitalismo sono sorti in Italia già nell'epoca comunale, sia come mentalità borghese che come pratica aziendale. Che poi questo proto-capitalismo non si sia sviluppato come avrebbe dovuto e che abbia addirittura subìto un'involuzione, a causa della Controriforma, questo è un altro discorso.

Il proto-capitalismo italiano non subì affatto un'inversione di tendenza con la crisi economica europea del Trecento (aggravata peraltro dalla pandemia pestifera); fu piuttosto un'azione di tipo politico svolta su due versanti: il Concilio Tridentino (1545-63) e l'alleanza strategica del papato con la Spagna (conquistatrice del continente americano), appartenente all'impero di Carlo V (re di Spagna e di tutte le sue colonie, re d'Italia, arciduca d'Austria e Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico), fu questa azione a por fine al capitalismo delle grandi Signorie e dei Principati della nostra penisola.

* * *

I Comuni cittadini italiani nascono fra l'XI e il XII secolo, mentre lo sviluppo delle Signorie e dei Principati avviene nella seconda metà del Duecento, sfruttando la latitanza dei poteri centrali (impero e papato).

Questi centri urbani, basati su leggi e statuti, cioè su patti giurati, rivendicano autonomie e libertà sia nei confronti dei conti (che rappresentano l'impero), sia nei confronti dei vescovi (che rappresentano il papato). Di regola la sede dei conti era nel contado rurale (il castello o la rocca), mentre quella del vescovo era nello stesso Comune (sede diocesana).

Nella formazione dei Comuni l'elemento sociale prevalente è quello borghese (inizialmente artigiani, commercianti e professionisti, cui presto si aggiungeranno gli imprenditori di opifici, soprattutto tessili, e i gestori dei settori finanziari), ma non è rara la presenza della nobiltà, specie quella piccola, che ha accettato di trasferirsi in città, lasciandosi coinvolgere in questa inedita esperienza, che per quanto oligarchica fosse, presentava alcuni aspetti di democrazia politica estranei alla mentalità feudale altomedievale, imperniata su due tipi di rapporti: quelli di sangue, cioè di discendenza aristocratica, e quelli di fedeltà personale, relativi a dei meriti militari riconosciuti da un nobile di alto grado, a partire dallo stesso sovrano (imperatore o re).

I patti comunali sono invece fra "uguali", firmati da tutti e depositati presso un notaio. Dalla partecipazione democratica naturalmente vengono esclusi sia i contadini (la stragrande maggioranza dei lavoratori) che gli operai, i quali però tenteranno a più riprese di rivendicarla (vedi p.es. il tumulto fiorentino dei Ciompi nel 1378).

Generalmente la nobiltà feudale di considerava una classe elitaria e assolutamente privilegiata, che basava la propria ricchezza sul possesso delle terre, i cui lontani avi avevano acquisito con la forza militare, sin dal tempo delle invasioni barbariche. Era una classe molto conservatrice, che viveva sfruttando il lavoro dei contadini e che molto difficilmente permetteva il formarsi di attività mercantili che potessero minacciare il proprio prestigio o i propri patrimoni.

Tuttavia, sulla base di alcune condizioni, la borghesia riuscì lo stesso a svilupparsi e, col tempo, persino a imporsi sulla nobiltà.

  • Anzitutto i commerci a lunga distanza non furono mai ostacolati dalla nobiltà, e i mercanti, acquisendo in oriente merci rare e pregiate, potevano arricchirsi, rivendendole a delle corti facoltose, le quali, seppur disprezzassero la venalità dei mercanti e li giudicassero assai poco onesti, non si facevano mancare nulla.
  • In secondo luogo l'ereditarietà dei feudi, prima di quelli grandi (Capitolare di Quierzy dell'877), poi di quelli piccoli (Constitutio de feudis del 1037), aveva posto fuori gioco tutti quei soggetti, di origine nobiliare, che non avevano potuto fruire di questi privilegi e che si trovavano pertanto disposti a collaborare con nuove figure emergenti, quali appunto i borghesi.
  • In terzo luogo i Comuni sembravano essere, agli occhi della nobiltà, l'alleato ideale per rivendicare una grande autonomia territoriale contro le pretese centralistiche (sempre fiscalmente esose) dei sovrani: non a caso i Comuni si sviluppano maggiormente là dove la presenza imperiale o il sistema centralistico dei sovrani erano deboli.

Il Comune poteva servire per trovare una collocazione dignitosa anche a tutta quella pletora di aristocratici rimasti esclusi dalle suddette successioni ereditarie e che, per questo motivo, finivano con lo svolgere mansioni militari mercenarie, al servizio di qualche potente di turno in lotta contro un altro potente che lo minacciava ai confini del suo feudo; oppure finivano con l'arruolarsi nelle file dei crociati, o con l'esercitare funzioni di ordine pubblico al servizio di un papato intento a perseguitare i movimenti ereticali che lo contestavano.

La nobiltà, piccola o grande che fosse, era sempre armata, ma in un Comune, avendo cultura sufficiente, poteva anche svolgere mansioni politiche, diplomatiche, giudiziarie o anche semplicemente amministrative, con il solo obbligo di considerare il proprio status equivalente a quello di un ricco borghese. Il Comune infatti nasce come associazione privata avente rilevanza pubblica, che si affianca alle istituzioni dominanti del vescovo e del conte.

Generalmente quando il feudatario locale, nella sua residenza rurale, era molto potente, al punto che impediva alla borghesia di esercitare una certa influenza sui contadini (invogliandoli p.es. a trasferirsi in città o a produrre per il mercato), era la stessa chiesa, rappresentata dal vescovo, che favoriva lo sviluppo della borghesia, ricevendone in cambio ampie contropartite economiche. L'unica figura di vescovo urbano, funzionario dell'imperatore (perché da questi nominato), fu quella del "vescovo-conte", che però uscì sconfitta dalla lotta per le investiture ecclesiastiche che il papato, appoggiato dalla borghesia e persino dalla nobiltà, condusse in maniera vittoriosa contro gli imperatori.

Il papato era un'istituzione politica che non tollerava dei concorrenti laici, come appunto gli imperatori, a meno che questi non si considerassero un semplice "braccio secolare" della chiesa. Ecco perché, pur ponendosi nei confronti della borghesia come una sorta di "sovrano feudale", il papato, in realtà, aspirando a una propria indipendenza totale nei confronti dell'imperatore, era disposto a scendere a compromessi con la stessa borghesia, permettendo a questa di svilupparsi economicamente come meglio credeva, nella convinzione che, in questo gioco di reciproci favori, la borghesia non avrebbe mai rivendicato un potere politico tale per cui quello della chiesa risultasse minacciato.

L'esperienza comunale-signorile è nata appunto come tentativo, riuscito, da parte della borghesia di acquisire un'indipendenza economica in un contesto sociale in cui ancora:

  • dominavano i rapporti servili in campagna,
  • era molto forte il peso politico della classe nobiliare,
  • non si potevano mettere in discussione le prerogative politiche della chiesa, a meno che la stessa borghesia non si alleasse esplicitamente con l'imperatore per compiere una battaglia di tipo politico-ideologico, come avverrà quando si confronteranno le due opposte fazioni dei guelfi (filo-papalini) e dei ghibellini (filo-imperiali). Ma in genere la borghesia italiana, pur essendo ideologicamente molto laica, assunse posizioni guelfe, preferendo l'alleanza con la chiesa.

* * *

In Italia è mancata una riforma protestante analoga a quella tedesca e di altri paesi nord-europei probabilmente perché tra borghesia e chiesa romana vi è stata una politica di larghe intese in funzione anti-imperiale. La borghesia non ha messo in discussione lo sviluppo politico del papato, esattamente come il papato non ha interferito nello sviluppo economico della borghesia.

Solo quando la chiesa, dopo la riforma protestante tedesca, s'è accorta che la borghesia italiana voleva approfittarne per rivendicare un maggiore potere politico, il papato s'è spaventato e ha preferito scatenare la Controriforma con l'aiuto degli spagnoli di Carlo V, che fruivano di enormi ricchezze depredate al continente americano.

Inoltre in Italia è mancata una rivoluzione borghese analoga a quella francese del 1789, perché da noi la nobiltà non ha quasi mai ostacolato lo sviluppo economico della borghesia; anzi, ha cercato di favorirlo tutte le volte che questo sviluppo le serviva contro il centralismo autoritario dei sovrani imperiali.

La nobiltà ha cercato seriamente di ostacolare la borghesia soltanto quando, insieme alla chiesa, ha fatto nascere la Controriforma, ma si trattò più che altro di una nobiltà importata dalla Spagna, che aveva praticamente occupato l'intera penisola. Il periodo che va dalla seconda metà del Cinquecento sino all'arrivo delle armate napoleoniche va considerato come il peggiore per gli interessi della borghesia.

Insomma, ogni classe sociale, avente una funzione egemonica nella società, guardava i rapporti con le altre classi, parimenti egemoniche o semplicemente emergenti, cercando di sfruttare al massimo i propri interessi. Tutta la storia italiana basso-medievale vede come protagonisti i nobili, il clero e la borghesia, i quali, a seconda degli interessi in gioco, si alleano e si combattono tra loro.

L'obiettivo tuttavia resta sempre quello: vivere alle spalle del lavoro altrui. Nobili e clero sono generalmente intenti a sfruttare i contadini, mentre la borghesia si concentra sugli operai, che altri non sono che contadini usciti o scappati dai feudi, in cerca di fortuna entro le mura delle città.

Quanto più si sviluppano le città borghesi, tanto più le vecchie classi feudali vedono minacciati i propri tradizionali poteri, anche se, nella fase iniziale di questo processo pensano di poterlo tenere sotto controllo, senza tanti problemi.

La nobiltà italiana, in particolare, non si rese assolutamente conto, salvo eccezioni, che l'aver parteggiato per la chiesa, durante la lotta per le investiture, l'essersi opposta agli interventi militari nella penisola da parte di Federico Barbarossa e al centralismo illuminato di Federico II di Svevia (che gestiva l'impero dalla Sicilia), comporterà poi l'impossibilità di creare in Italia uno Stato forte sia contro le ambizioni di espansione territoriale che avevano Francia e Spagna, sia contro le pretese totalitarie della chiesa romana, e sarà la causa principale della mancata unificazione della penisola, che negli altri paesi europei era sì avvenuta contro le pretese egemoniche imperiali, ma per affermare una sovranità di tipo nazionale.

La stessa borghesia italiana, cercando continuamente dei compromessi con la nobiltà e la chiesa, sarà responsabile quanto loro della ritardata unificazione nazionale.

Il Medioevo cattolico-romano è stato un periodo in cui s'è cercato d'affermare con la forza (politico-militare) un ideale religioso di vita, il più possibile universale, e in questo tentativo vi sono stati continui scontri tra forze opposte, tutte cristiane, che anche quando si appellavano a quell'ideale di vita lo facevano soltanto per aumentare i propri poteri. La principale responsabile di questa continua tensione politica è stata la chiesa romana, che sin dall'inizio ha cercato d'imporsi come "Stato".

* * *

Nella sua fase iniziale la borghesia europea è sicuramente dinamica, perché deve potersi arricchire in assenza di capitali e di terre; deve darsi da fare per acquisire denaro da investire. Di qui il primato concesso, inizialmente, al commercio di lunga distanza, l'unico possibile, perché lontano dal giudizio critico del villaggio, che vede il mercante come una persona disonesta. Il mercante trova in oriente quei prodotti rari e pregiati che può rivendere nelle corti principesche, ricavandoci un notevole reddito.

Dai capitali accumulati con questo tipo di commercio, la borghesia può ricavare quanto le basta per fare investimenti produttivi in loco, sfruttando gli artigiani (cioè separando dal contadino le sue abilità artigiane e ovviamente specializzandole). L'illusione è quella di offrire al contadino-artigiano un reddito maggiore e quindi una maggiore libertà personale.

Si tratta di una pratica economica connessa a un mutamento della mentalità religiosa, che si laicizza: in luogo della provvidenza subentra la conoscenza o la competenza; in luogo della fede la ragione; della dipendenza dall'autorità l'autonomia del singolo; della carità il risparmio e l'investimento; della generosità l'interesse; dell'ingenuità il calcolo. E così via.

Inizialmente i telai vengono gestiti direttamente nelle case dei contadini, che usano la materia prima offerta dal mercante-imprenditore; poi si trasferirà tutto in un opificio urbano, ed è così che nasce la manifattura (prima sparsa, poi concentrata). La merce principale che fa guadagnare il mercante è il tessile.

Tuttavia, quando la borghesia s'arricchisce, tende a comportarsi come l'aristocrazia, cioè a vivere di rendita: solo che questa non è più in natura, è in moneta. La manifattura viene preferita nella fase iniziale, ma quando subentrano problemi dovuti a concorrenza o conflitti di classe, la borghesia imprenditoriale tende a trasformarsi in borghesia finanziaria, ovviamente là dove è possibile ch'essa possa investire i propri capitali in attività bancarie.

Non tutta la borghesia è interessata o è in grado di compiere questa trasformazione, ma quella che vi riesce, smette d'essere dinamica, perché vuole usare i capitali per vivere di rendita sugli interessi che percepisce dal credito. La Firenze del Trecento è piena di grandi bancari, che prestano capitali persino ai sovrani.

Questa borghesia non vede più l'aristocrazia come un nemico, anzi cerca di scimmiottarla, comprando titoli nobiliari, acquisendo usi e costumi, investendo i propri capitali in beni immobiliari. I veri nemici sono diventati gli operai che protestano, che si alleano alla piccola borghesia, agli artigiani di minor peso..., ma anche, indirettamente, i grandi debitori insolventi, che rischiano di mandare in fallimento le banche.

Tra l'alta borghesia (industriale o finanziaria) e l'aristocrazia fondiaria s'instaura un rapporto di reciproco interesse. L'aristocrazia ha tradizioni militari, ma anche di corte (è capace cioè di fare politica, amministrare la giustizia, curare i rapporti diplomatici, interagire con le autorità laiche ed ecclesiastiche...): in una parola ha competenze di tipo extra-economico, che possono tornare utili alla borghesia nella gestione della Signoria e poi del Principato.

Una parte della nobiltà ha addirittura accettato lo stile di vita borghese, introducendo nei propri poderi le figure del mezzadro e del fittavolo, trasformando gli arativi in prativi, al fine di produrre lana grezza per le manifatture tessili. Questa nobiltà intraprendente non ha alcun interesse ad opporsi alla borghesia.

Il passaggio dalla città-stato allo stato regionale, cioè dal Comune alla Signoria, è avvenuto a causa delle contraddizioni tipiche della classe borghese, che non riesce ad essere "popolare" come vorrebbe. Inizialmente il borghese sembra essere uno che parte dal nulla, sradicato dal contesto comunitario del villaggio, con una mentalità nettamente individualistica: vuole emergere a tutti i costi come singolo, legato però a una classe specifica, che, man mano che si arricchisce, rivendica privilegi particolari, appunto "di classe".

La mentalità borghese è quella affaristica, sconosciuta nelle campagne, sia perché i contadini sono abituati a dipendere in toto dai loro signori e pagano la servitù in derrate alimentari, e se anche le pagano in moneta, non sono padroni delle loro terre, per poterci fare quello che vogliono; sia perché i loro padroni sono abituati a vivere di rendita e non sono interessati a un surplus di prodotti naturali.

Quando molti di questi proprietari feudali iniziano a pretendere una rendita in moneta o a indirizzare la produzione delle loro terre verso il mercato (e non più solo per l'autoconsumo), ecco che diventano degli imprenditori agrari borghesi. La città ha vinto pienamente sulla campagna.

Dal punto di vista strettamente economico la situazione del contadino non migliora affatto, anzi tende a peggiorare, poiché lo sfruttamento s'intensifica, seppure in altre forme e lui ha totalmente perduto le garanzie fornite dall'autoconsumo. La sua situazione migliora solo se diventa padrone del podere su cui lavora, ovvero se riesce ad acquistarne uno in seguito a una rivoluzione borghese che espropria terre al clero regolare o a quei nobili militarmente sconfitti perché politicamente controrivoluzionari, oppure a quei nobili che han dovuto vendere i loro beni perché rovinati dai debiti.

Tuttavia, rispetto alla totalità dei contadini, quelli che diventano "borghesi" sono un'infima minoranza. A tutti gli altri spettano solo lavori da operaio salariato o da militare di basso livello.

Il Trecento


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia medievale
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 01/05/2015