FRANCIS BACON (BACONE) e IL MITO DI PROMETEO

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FRANCESCO BACONE E IL MITO DI PROMETEO (1561-1626)

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Bacone

Nel 1609, Bacone pubblica il De sapientia veterum, un testo articolato in trentun brevi capitoli, in ciascuno dei quali presenta e interpreta un mito del mondo classico. Profondamente critico nei confronti di Platone e di Aristotele, portato alla rivalutazione del pensiero presocratico, ammiratore di Democrito, egli è convinto che gli antichi abbiano consegnato ai miti verità da riscoprire.

“Confesso volentieri – scrive nella prefazione – e in tutta semplicità di essere di questa opinione: che in non poche favole degli antichi poeti si celi fin dall’origine un mistero e un’allegoria; sia perché preso dalla venerazione del tempo passato, sia perché in alcune favole scorgo tale e tanta evidente similitudine e parentela con la cosa specificata (ora nella stessa struttura della favola, ora nella proprietà dei nomi con i quali personaggi e attori della favola si mostrano insigniti e quasi marcati), che nessuno fermamente potrebbe negare che quel senso non sia precostituito e pensato dall’inizio”.[1]

Quei miti, però, sono anteriori a Omero ed Esiodo, che li hanno raccontati e resi celebri, elaborando una “antica reminiscenza” e “auree reliquie”.

Bacone, pertanto, è convinto di risalire alle origini del sapere umano, “quando le scoperte e conclusioni dell’umana ragione, anche quelle che ora sono trite e divulgate, allora erano nuove e inconsuete” e si cercava d’insegnarle con favole e parabole, “poiché a quei tempi le umane menti erano rozze e insofferenti, per così dire incapaci di sottigliezze se non di quelle che cadevano sotto i sensi. Infatti come i geroglifici sono più antichi delle lettere, così le parabole sono più antiche delle argomentazioni”.[2]

Tra i miti presi in esame non poteva mancare quello di Prometeo. Bacone ne parla nel capitolo più lungo, dal titolo “Prometeo o lo stato dell’umanità”.[3]

Vediamone alcuni momenti.

L’antropocentrismo

“Gli antichi tramandano che l’uomo fosse opera di Prometeo e fatto di fango, se non che Prometeo mescolò alla massa particole dei diversi animali. Costui, volendo proteggere la sua opera con qualche beneficio, e non sembrare solo il fondatore del genere umano, ma anche il benefattore, di nascosto salì in cielo portando seco un fascio di arbusti di ferula e, accostatili e accesi al carro del sole, portò il fuoco a terra e lo donò agli uomini”.

Bacone, nella cui filosofia l’antropocentrismo è profondo, trova nell’avvio del mito la conferma della sua convinzione.

L’uomo, scrive, è “cosa nuda ed inerme, tarda nel difendersi, priva di tutto”, ma è “vero centro del mondo se non altro per le cause finali. Tanto che se non ci fosse, le rimanenti cose sembrerebbero vagare e fluttuare senza scopo, né avere più fine, come dicono di una scopa sfasciata”. Inoltre, l’uomo è “di gran lunga la cosa più complessa e composta di tutte quelle abbracciate dall’universo, sì che non a torto dagli antichi era chiamato Microcosmo”.

Gli uomini ingrati denunciano Prometeo a Giove

“Raccontano che di sì grande beneficio gli uomini fossero poco grati a Prometeo. Anzi, fatta una cospirazione, accusarono presso Giove Prometeo per la scoperta fatta. Il fatto non fu accolto come potrebbe sembrar giusto. Infatti l’accusa piacque oltremodo a Giove e ai superi”.

L’ingratitudine umana nei confronti di Prometeo e la sua denuncia a Giove avrebbero un importante significato “nascosto”: la consapevolezza dei limiti del sapere umano e la denuncia dell’orgoglio umano che, alimentando la presunzione, promuove un atteggiamento “inviso ed infausto agli dei”.

“Coloro che portano alle stelle la natura umana e le arti che hanno appreso e si diffondono nell’ammirazione delle cose che posseggono stabilmente, e vogliono assolutamente far passare come perfette le scienze che professano o coltivano, sono i primi ad essere meno riverenti verso la natura divina alla cui perfezione quasi equiparano le loro cose. Inoltre sono anche più infruttuosi per gli uomini, pensando di essere arrivati al sommo della perfezione e non cercando, come già sazi, cose ulteriori”.

Bacone trova nel significato “nascosto” di questo momento del mito un sorprendente appiglio per la sua polemica contro la “fiduciosa e dogmatica” scuola di Aristotele, che peraltro “è solo una parte e non la maggiore del pensiero greco”. Ad essa egli contrappone “Empedocle e Democrito che, l’uno come invasato, l’altro con grande riservatezza, sostennero l’oscurità di tutte le cose, che noi non sappiamo nulla, che nulla distinguiamo, che la verità è immersa in pozzi profondi, essendo mirabilmente mescolato ed unito il vero e il falso”. Aggiunge però che “la Nuova Accademia[4] ha troppo ecceduto nel dubbio”.

“Gli uomini debbono essere dunque ammoniti su questo fatto: che ogni accusa alla natura e all’arte è grata agli dei, e che significa impetrare dalla divina bontà nuove elargizioni e doni; e che l’accusa mossa a Prometeo cioè al maestro e alla sua autorità, per quanto aspra e violenta, è più utile e giovevole che perdersi in congratulazioni; ed infine che l’illusione della ricchezza deve porsi tra le cause maggiori della povertà”.

Dubitare dei maestri sempre! Soprattutto se sono grandi maestri.

Gli uomini perdono il nuovo dono divino

La cospirazione contro Prometeo giova molto agli uomini.

Gli dei, “compiaciuti, non solo con benigna indulgenza diedero l’uso del fuoco ma anche diedero agli uomini un nuovo dono oltremodo amabile e gradito: la perpetua gioventù”.

Gli uomini, però, non sanno valorizzare il nuovo dono divino.

“Costoro, orgogliosi e sciocchi posero il dono degli dei su un asinello. Nel ritorno l’asinello era tormentato da una acerba e violenta sete; arrivato ad una fonte il serpente addetto alla guardia gli vietò di bere se non avesse ceduto ciò che portava sul dorso, qualunque cosa fosse: il disgraziato asinello accettò la condizione, e, in questo modo la possibilità di ringiovanire passò dagli uomini ai serpenti in cambio di una boccata d’acqua”.

Il nuovo dono degli dei significa che “gli antichi non disperassero di trovare modi e medicine idonei per ritardare la vecchiaia e prolungare la vita; ma ponessero questo beneficio piuttosto tra quelli che, una volta posseduti, perirono e si dissolsero per l’incuria e la neghittosità umana, che non tra quelli che furono sempre loro negati e mai concessi”.

L’asinello “tardo e pigro” significherebbe “l’esperienza, piena di lentezza e di indugi”. Bacone pensa che “il compito di portare nuovi doni degli dei sia stato affidato o alle astratte filosofie come a un uccello lieve, o alla lenta esperienza come a un asinello”. “Giudico infatti – scrive – che se taluno segue l’esperienza con una determinata legge e con metodo, e non è trascinato per via ad esperimenti che servano o al guadagno o alla ostentazione, sì che per seguirli disfi o deponga il suo fardello, costui non sarebbe un inutile portatore di nuova e aumentata munificenza divina. Che poi proprio quel dono sia passato ai serpenti, sembra una aggiunta meramente esornativa, se non significa forse che gli uomini si vergognano di non riuscire ad ottenere per sé con il fuoco e le altre arti quelle cose che la natura elargì a molti altri animali”.

Bacone presenta qui il cardine del suo pensiero: la ricerca della verità non deve diventare semplice e dispersiva raccolta di dati empirici né volo leggero ma vano nelle astrazioni razionali. Il sapere è il frutto di un profondo rapporto tra esperienza e ragione, tra attività meccanica e teoria.

Pandora

Prometeo si riconcilia con gli uomini e se la prende con gli dei.

“Prometeo, senza venir meno alla sua malizia, riconciliatosi con gli uomini dopo la perdita del loro premio, con l’animo esulcerato verso Giove, non esitò a portare i suoi inganni persino nei sacrifici”.

L’intraprendenza di Prometeo diventa, in questo passaggio, perfida e insolente trama d’inganni contro gli dei.

“Si racconta che una volta immolasse a Giove due tori, in modo però da includere nella pelle dell’uno anche il grasso e la carne dell’altro e da imbottire l’altra pelle soltanto di ossa, e infine, con atteggiamento pio e religioso, lasciò a Giove la scelta. Giove, arrabbiato per l’astuzia e la mala fede, ma trovata l’occasione di vendicarsi, scelse il toro truccato; e, rivolto alla vendetta, capendo di non poter reprimere l’insolenza di Prometeo, se non avesse danneggiato il genere umano (della cui creazione egli andava superbo e si esaltava), comandò a Vulcano di fabbricare una donna bella e affascinante, alla quale anche gli dei ad uno ad uno diedero le loro doti, e che perciò fu chiamata Pandora.

A questa donna posero tra le mani un elegante vaso in cui avevano chiuso tutti i mali e tormenti; ma in fondo si celava la speranza. Essa con il suo vaso dapprima andò da Prometeo cercando se eventualmente volesse prendere ed aprire il vaso; ma quello cauto ed astuto rifiutò. Disprezzata, andò poi da Epimeteo, fratello di Prometeo (ma di indole molto diversa). Costui, senza esitazione, aprì temerariamente il vaso; e, vedendo quei mali di ogni genere uscirne fuori, troppo tardi rinsavito, con gran fretta e sforzo, tentò di rimettere al vaso il suo coperchio, ma poté appena conservare ultima e sul fondo la Speranza.”

Il tormento dell’aquila

“Alfine Giove, imputando molte e gravi colpe a Prometeo, che una volta aveva rubato il fuoco, che aveva preso in giro in quel doloso sacrifizio la maestà di Giove, che aveva disprezzato un suo dono, aggiungendo anche un nuovo delitto di aver violentato Pallade; lo gettò ai ceppi condannandolo ad eterni supplizi. Era stato condotto infatti per ordine di Giove sul monte Caucaso ed ivi legato ad una colonna sì che in nessun modo si potesse muovere: vi era poi un’aquila che con il rostro durante il giorno gli strappava e mangiava il fegato, che di notte rinasceva in proporzione della parte divorata, di modo che mai mancasse materia di tormento.”

Per Bacone quella pena rappresenta, per così dire, la malattia professionale di quegli uomini che, come Prometeo, sono preveggenti: l’ansia che angustia l’animo. La pena, infatti, non tocca l’altro personaggio del mito, Epimeteo, privo di senno, né i molti uomini che gli assomigliano.

Scrive Bacone: “I seguaci di Epimeteo non sono preveggenti e non soppesano a lungo le azioni e stimano ciò che a loro piace al presente, e proprio per questo sono incalzati da molte angosce difficoltà e pericoli, e quasi perpetuamente combattono con essi, ma nel frattempo placano le loro inclinazioni, e, per la loro scarsa conoscenza delle cose, rimuginano nell’animo molte vane speranze, nelle quali tuttavia si dilettano come in soavi sogni, celando le miserie della loro vita. I seguaci di Prometeo, uomini assolutamente prudenti, e che guardano al futuro, riescono cautamente ad evitare mali ed infortuni e li scacciano; ma, con questa virtù, va congiunto il fatto che si privano di molti piaceri e del vario diletto della vita e frodano la loro inclinazione e, cosa ancora peggiore, si tormentano e sono tormentati dall’angoscia e da timori remoti. Difatti, legati alla colonna della necessità sono torturati da infiniti pensieri (rappresentati dall’aquila per la loro mobilità) e per di più pungenti, mordaci e corrodenti il fegato. Solo a momenti, specialmente di notte, questi concedono una certa remissione e quiete all’animo, ma di tal fatta che subito ritornano nuove ansietà e timori”.

L’ignoranza ha i suoi saporiti vantaggi e la scienza ha i suoi costi tormentosi.

Per Bacone c’è, però, come insegna il mito, un rimedio.

Ercole libera Prometeo

“Raccontano che a un certo momento il supplizio ebbe fine: Ercole attraversando l’oceano su di una coppa che aveva ricevuto in dono dal sole, giunse nel Caucaso e, trafitta l’aquila con le frecce, liberò Prometeo.”

Ercole rappresenta la forza morale, “la fortezza e la costanza d’animo” di chi, “preparato ad ogni evenienza ed imperturbabile ad ogni sorte, guarda senza timore, agisce senza fastidio, tollera senza impazienza”.

Chi riesce a coniugare sapere e forza morale può “mantenere i vantaggi della prudenza e liberarsi dai mali degli affanni e dei turbamenti”.

Prometeo, dotato solo di astuzia e di sapere, non può liberarsi da solo.

Bacone sottolinea questo aspetto del mito e ne trae l’insegnamento che il sapere non basta all’uomo: ci vuole anche “fortezza e costanza d’animo”, che è altra cosa dal sapere ed è difficile da acquisire.

“Degno d’essere notato è che questa virtù non era innata in Prometeo, ma acquisita e per di più per opera altrui. Infatti nessuna fortezza ingenita e naturale può essere pari a tanta cosa: questa virtù fu portata dal sole e venne dall’estremo oceano. Essa viene infatti dalla sapienza che è come il sole, e dalla meditazione sull’incostanza della vita umana e delle sue onde, che è come un navigare sull’oceano”.

Per porre rimedio agli affanni che il sapere genera ci vuole una profonda e vissuta consapevolezza della fragilità umana.

Bacone, noto per l’affermazione che “sapere è potere”, sostiene la necessità, per l’uomo di scienza, di approfondire il senso della sua fragilità, molto difficile da acquisire e non senza l’aiuto di altri. Infatti sono “pochissimi” gli uomini capaci di “mantenere i vantaggi della prudenza e liberarsi dai mali degli affanni e dei turbamenti”.

“Con somma eleganza – scrive – si aggiunge, per consolare e rassicurare l’animo umano, che questo eroe grandissimo navigasse in una coppa o in una brocca: affinché gli uomini non si scusino o temano troppo le miserie o la fragilità della loro natura”. E aggiunge una citazione di Seneca: «E’ grande cosa avere insieme la fragilità dell’uomo e la fortezza di Dio».

Il gioco con le fiaccole

“Furono poi istituiti presso certuni popoli gare di portatori di lampade in onore di Prometeo. In esse si doveva correre portando una fiaccola accesa: se si spegneva, bisognava dare la vittoria a chi seguiva e ritirarsi, e vinceva chi avesse portato la fiaccola accesa fino al traguardo”.

Ecco l’interpretazione di Bacone.

Quel gioco “si riferisce alle arti e alle scienze, come quel fuoco per la cui memoria e celebrazione questi giochi furono istituiti, e costituisce un assai utile ammonimento: che la perfezione delle scienze non deve essere guardata dalla fiaccola o acutezza di uno solo, ma dalla successione. Infatti quelli che sono velocissimi e validi nel correre e gareggiare, sono forse i meno abili a conservare accesa la fiaccola. Non minore è infatti il pericolo dello spegnimento nella corsa troppo rapida che nella troppo tarda. Queste corse e gare di fiaccole sembrano esser state interrotte già da tempo, poiché vediamo le scienze fiorire soprattutto nei loro primi maestri Aristotele, Galeno, Euclide, Tolomeo, mentre la successione non ha fatto e neppure tentato nulla d’importante. Bisogna auspicare dunque che questi giochi in onore di Prometeo, cioè della natura umana, siano ripresi e che la vittoria dipenda dalla buona fortuna e dalla emulazione e dalla gara e non dalla tremula e agitata fiaccola di una sola persona. Pertanto gli uomini siano ammoniti a svegliarsi e a provare le loro forze e la loro successione e a non affidarsi interamente ai piccoli cervelli e alle piccole animucce di pochi uomini”.

La scienza non è il frutto del lavoro individuale, anche se geniale. Richiede collaborazione e coordinamento degli scienziati.


Note

[1] Francesco Bacone, Scritti filosofici, Utet 2009, p. 446.

[2] Ib. p. 448.

[3] Pp. 492-501 degli Scritti filosofici, Utet 2009.

[4] L’Accademia è la scuola fondata da Platone. La Nuova Accademia comincia con Carneade, nel secondo sec. a. C., ha indirizzo scettico e dura fino a quando Filone di Larissa inizia, nel primo sec. a.C., la IV Accademia d’indirizzo eclettico. L’Accademia dura fino al 529 d. C. quando Giustiniano la chiude, per intolleranza cristiana della filosofia, e ne confisca il patrimonio.

Torino 12 dicembre 2011

Giuseppe Bailone


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Aggiornamento: 26-04-2015