Cartesio: il corpo e il mondo

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Cartesio: il corpo e il mondo

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Cartesio

Nella “Sesta meditazione” Cartesio si misura con le idee del proprio corpo e delle cose esterne.

La “grandissima propensione a credere” all’esistenza di cose esterne al pensiero viene da Dio. Dio, in quanto perfetto, non può ingannare. “E pertanto bisogna confessare che le cose corporee esistono”.[1]

“Ed innanzi tutto non v’ha dubbio che tutto ciò che la natura m’insegna contiene qualche verità. Poiché per natura, considerata in generale, io non intendo altra cosa che Dio stesso, oppure l’ordine e la disposizione che Dio ha stabilito nelle cose create. E per mia natura particolare non intendo altro che il complesso o la riunione di tutte le cose che Dio m’ha dato.

Ora, non v’è niente che questa natura m’insegni più esplicitamente e più sensibilmente, se non che ho un corpo che è mal disposto quando sento dolore, che ha bisogno di mangiare e di bere quand’ho le sensazioni di fame  e di sete, ecc. E perciò non debbo dubitare che in ciò vi sia qualche verità.

La natura m’insegna anche, per mezzo di queste sensazioni di dolore, di fame, di sete, ecc., che io non soltanto sono alloggiato nel mio corpo, come pilota nel suo battello, ma che gli sono strettissimamente congiunto, e talmente confuso e mescolato da comporre come un sol tutto …

Oltre ciò, la natura m’insegna che parecchi altri corpi esistono intorno al mio, tra i quali io debbo cercare gli uni e fuggire gli altri”.[2]

La sesta e ultima meditazione si chiude, non a caso con la netta distinzione tra la veglia e il sonno, dubitando della quale Cartesio aveva avviato l’esperimento del dubbio metodico. “Ed io – scrive – debbo rigettare tutti i dubbi dei giorni passati come iperbolici e ridicoli, e particolarmente quella incertezza così generale riguardante il sonno che non potevo distinguere dalla veglia: perché adesso vi trovo una notevole differenza, in quanto la nostra memoria non può mai legare e congiungere i nostri sogni gli uni agli altri e con tutto il seguito della nostra vita, come, invece, è solita congiungere le cose che ci accadono stando svegli”.[3]

In verità, quest’argomento Cartesio avrebbe potuto farlo valere anche all’inizio del dubbio, ma, allora, non avendo ancora il decisivo sostegno della veridicità di Dio, poteva metterlo in dubbio insieme alle verità matematiche.

“E non debbo in nessun modo dubitare della verità di quelle cose, se, dopo aver fatto appello a tutti i miei sensi, alla mia memoria e al mio intelletto per esaminarle, da nessuno di essi mi è riportato nulla che ripugni con ciò che mi è riportato dagli altri. Dalla veracità di Dio segue infatti che io non sono affatto ingannato”.[4]

Dio non fa scherzi. Noi uomini, però, siamo sempre esposti all’errore: “Poiché la necessità della pratica ci obbliga spesso a decidere prima di aver avuto il tempo di un così attento esame, bisogna confessare che la vita dell’uomo è soggetta ad errare spessissimo nelle cose particolari, ed infine bisogna riconoscere la infermità e la debolezza della nostra natura”.[5]

Si sbaglia spesso, ma la certezza dell’esistenza di Dio ci assicura che possiamo fidarci della nostra tendenza a credere di avere un corpo e di essere in un mondo di corpi. Possiamo fidarci dei sensi quando ci segnalano l’esistenza di corpi. Dobbiamo, però, diffidare dei sensi quando puntiamo alla conoscenza scientifica di questi corpi.

“Il tatto – spiega Cartesio nell’opera Il mondo o Trattato della luce – è ritenuto il meno ingannevole, anzi il più certo, di tutti i nostri sensi; ritengo quindi che, se vi dimostro come anche il tatto ci faccia concepire parecchie idee in nulla simili agli oggetti che le producono, non troverete strano se vi dico che altrettanto può fare la vista. Ora nessuno ignora che le idee di solletico e di dolore, che si formano nel nostro corpo in occasione del contatto con corpi esterni, non hanno nessuna somiglianza con questi. Se si struscia dolcemente una piuma sulle labbra di un bambino che si addormenta, il bambino avverte il solletico: secondo voi, l’idea del solletico da lui concepita somiglia a qualcosa che è in questa piuma? Un soldato ritorna da uno scontro: quando la battaglia divampava avrebbe potuto restar ferito senza accorgersene; ma ora che il suo ardore si va sedando avverte un dolore e crede di essere ferito: si chiama un chirurgo, si spoglia il soldato delle armi, lo si sottopone a visita; si trova infine che si trattava solo di una fibbia o di una cinghia impigliata sotto le armi in modo da esercitare una pressione fastidiosa. Se il tatto, nel dargli la sensazione della cinghia, ne avesse impressa l’immagine nel suo pensiero, non ci sarebbe stato bisogno del chirurgo per spiegargli la causa della sua sensazione.

Ora, secondo me, nessuna ragione ci obbliga a credere che qualcosa negli oggetti da cui ci viene la sensazione della luce somigli a questa sensazione più di quanto la sensazione di una piuma o di una cinghia somiglia al solletico o al dolore. Tuttavia non ho addotto questi esempi per farvi credere assolutamente che altro è la luce negli oggetti altro nei nostri occhi; ma solo per indurvi a supporlo e perché, rinunciando a preoccuparvi del contrario, possiate ora esaminare meglio con me come stanno realmente le cose”.[6]

L’esperienza, legata alla percezione sensibile, non mette in rapporto diretto con gli oggetti. Non è, quindi, affidabile. Per conoscere con rigore scientifico le proprietà dei corpi non possiamo basarci sull’esperienza; dobbiamo avvalerci solo delle idee chiare e distinte presenti nella nostra mente da sempre, innate. Per essere scientifica, rigorosa, la fisica deve essere costruita mentalmente su basi solo razionali, su principi innati e applicando la causalità meccanica.

Per aiutare il lettore a mettersi nello spirito di capire la sua scienza fisica, Cartesio gli propone un esperimento mentale, una ricostruzione puramente teorica della creazione del mondo, sul modello dei procedimenti matematici, realizzata immaginando una nuova creazione.

E, “perché il mio lungo discorso non diventi troppo noioso – scrive – ho deciso di esporne una parte sotto forma di favola, sperando che la verità ne traspaia con sufficiente vigore e in forma non meno gradevole che se la proponessi nella sua nudità.

Lasciate dunque che per poco il vostro pensiero esca da questo mondo per venirne a vedere un altro nuovissimo, che farò nascere in suo cospetto negli spazi immaginari”.[7]

Alla base della costruzione a priori della fisica cartesiana c’è l’idea che la caratteristica fondamentale di tutti i corpi sia l’estensione.

Non a caso, Cartesio usa l’espressione res extensa per indicare i corpi e afferma la loro sostanziale differenza dalla res cogitans: le sostanze pensanti sono prive di estensione, indivisibili e libere, quelle estese sono divisibili, non pensano e sono meccanicamente necessitate.

Cartesio immagina che Dio abbia creato la materia inerte ed estesa in ogni parte del mondo senza lasciare alcun vuoto e che vi abbia immesso una quantità determinata di moto, che, data l’immutabilità di Dio, si mantiene inalterata. Da questa ipotesi iniziale Cartesio ricava le leggi fondamentali della fisica e un universo-macchina che, una volta avviato, procede secondo meccanica necessità.    

L’esperimento mentale di Cartesio prospetta una creazione divina molto lontana da quella descritta nel libro della Genesi, ma la sua natura puramente ipotetica attenua il rischio di uno scontro con la Chiesa.

Viene subito in mente l’espediente di Osiander, in prefazione all’opera di Copernico, quello stesso che Bellarmino aveva consigliato a Galileo.

Quando, però, a Cartesio arriva la notizia della condanna di Galileo, quella precauzione non gli basta più e chiude definitivamente nel cassetto Il Mondo o Trattato della luce.

Nel Discorso sul metodo, Cartesio parla di quell’autocensura, ma riassume Il mondo o Trattato della luce. In quel riassunto ricorda la favola geometrica.

“Decisi … di parlare soltanto – scrive – di ciò che accadrebbe in un mondo nuovo, se Dio creasse ora in qualche luogo degli spazi immaginari abbastanza materia per la sua composizione, e agitasse variamente e senza un ordine le diverse parti di questa materia, sì da farne un caos tanto confuso quanto possono raffigurarselo i poeti, e, in seguito, si limitasse a offrire alla natura il suo ordinario concorso, lasciandola operare secondo le leggi che egli ha stabilito … Dopo di ciò, mostrai come la maggior parte della materia di questo caos, in forza di queste leggi, dovesse disporsi e ordinarsi in un certo modo che la rendesse simile ai nostri cieli; come, nel corso di tutto ciò, alcune parti dovessero comporre una terra, altre dei pianeti e delle comete, altre ancora un sole e delle stelle fisse. A questo punto, poi, soffermandomi a lungo sulla luce, spiegavo per disteso quale luce dovesse trovarsi nel sole e nelle stelle, e come di là traversasse in un istante gli immensi spazi dei cieli, e dai pianeti e dalle comete riflettesse i suoi raggi verso la terra. Aggiungevo anche parecchie cose relative alla sostanza, alla posizione, ai movimenti e a tutte le diverse qualità di questi cieli e di questi astri, dimodoché pensavo di aver detto abbastanza per far intendere che nei cieli e negli astri del nostro mondo non si rileva nulla che non debba, o almeno non possa, presentarsi con caratteristiche affatto simili nei cieli e negli astri del mondo che descrivevo. Di lì venni a parlare in particolare della Terra …

Tuttavia, da tutto ciò non volevo inferire che il nostro mondo sia stato creato nella maniera da me proposta; è molto più verosimile che, fin dall’inizio, Dio lo abbia fatto tale e quale doveva essere. Ma è certo, ed è opinione comunemente accettata tra i teologi, che l’azione mediante cui attualmente lo conserva è proprio uguale a quella di cui si è servito per crearlo. Perciò, ancorché non gli avesse conferito all’inizio altra forma se non quella del caos, se, stabilite le leggi della natura, prestasse alla natura il suo concorso perché agisca come di solito agisce, senza sminuire il miracolo della creazione si può credere che, senza bisogno d’altro, tutte le cose puramente materiali avrebbero potuto, col tempo, divenire quali le vediamo attualmente. Ed è molto più facile concepire la loro natura vedendole nascere a questo modo un po’ alla volta, che non considerandole bell’e realizzate.”[8]

Tra la completa autocensura e il rischio della pubblicazione, Cartesio sceglie una pubblicazione ridotta e con la rinnovata cautela del carattere puramente ipotetico della sua teoria.

L’idea cartesiana di scienza fisica è molto lontana dall’idea di scienza di Bacone e anche da quella galileiana. In Cartesio l’esperimento entra in gioco solo quando nella spiegazione dei fenomeni naturali, condotta a partire da principi generalissimi, si giunge a più e diverse conclusioni, equivalenti dal punto di vista teorico: il ricorso, allora, all’esperimento decide quale tra le spiegazioni a priori si accordi coi fatti.

“… ripercorrendo mentalmente – scrive Cartesio nella sesta parte del Discorso del metodo – tutti gli oggetti che si erano presentati ai miei sensi, oso ben dire che nulla vi ho notato che non potessi piuttosto agevolmente spiegare coi principi che avevo trovato. Ma devo anche confessare che la potenza della natura è così ampia e vasta, e i suoi principi così semplici e generali, che non mi accade quasi più di notare qualche effetto particolare senza capire subito che può essere dedotto in parecchi  modi diversi, e che, di solito, la mia più grande difficoltà sta nel trovare in quale di queste maniere ne dipende. Infatti, in proposito, non vedo che un espediente: cercare di stabilire nuove esperienze i cui risultati siano diversi secondo che ne siano dedotti in un modo piuttosto che nell’altro”.[9]

Se in Galileo e in Bacone l’esperimento serve a convalidare un’ipotesi di spiegazione elaborata con la riflessione razionale sull’esperienza, in Cartesio esso serve a scegliere tra diverse spiegazioni a priori egualmente possibili.

Come Galileo, Cartesio distingue nei corpi le qualità oggettive (grandezza, figura, movimento, situazione, durata, numero) dalle qualità soggettive (colore, odore, sapore, suono ecc.).

All’interno della macchina mondo ci sono le macchine-piante e le macchine-animali. Cartesio, allontanandosi abissalmente da Montaigne, nega agli animali anche la sensibilità, riducendola all’insieme di reazioni puramente meccaniche.

L’uomo è l’insieme di anima e corpo, l’unione di macchina-corpo e di anima razionale. L’uomo ha una natura doppia, fatta di due sostanze diverse.

La totale eterogeneità delle due sostanze, il dualismo che caratterizza l’antropologia cartesiana pone il problema dei rapporti reciproci tra l’anima e il corpo. L’esperienza ci dice che la volontà, di natura spirituale, può mettere in movimento il corpo o alcune sue parti; che le sensazioni corporali promuovono idee. Com’è possibile?

Cartesio ne parla nell’opera sulle passioni dell’anima.

In quest’opera egli distingue due funzioni dell’anima:

le azioni, che sono atti della volontà e dipendono solo dall’anima;

le passioni, che sono le percezioni che l’anima riceve dai sensi o dall’interno dei corpi, come la fame e il dolore fisico, e i moti dell’anima, come la collera e la gioia. Esse sono dovute a quelli che Cartesio chiama spiriti animali, cioè le parti più vive e sottili del sangue che riescono a penetrare nei minuscoli fori di accesso al cervello.

Per Cartesio l’anima risiede nella ghiandola pineale, interna al cervello. Attraverso la ghiandola pineale la volontà agisce sul corpo e i movimenti corporei agiscono sull’anima.

Se, però, l’anima è di natura diversa dal corpo, se è spirituale e inestesa, come si può pensarla in un luogo del corpo e attribuirle rapporti col corpo?

Il problema resta aperto e spinge alcuni seguaci di Cartesio a rifiutare questa teoria della ghiandola pineale come ponte tra l’anima e il corpo e a pensare nuove, sorprendenti, soluzioni.


[1] Cartesio, Opere filosofiche 2, Laterza 2009, p. 74.

[2] Ib., p. 75.

[3] Ib., pp. 82-83.

[4] Ib., p. 83.

[5] Ib., p. 83.

[6] Il Mondo o Trattato della luce, cap. primo, in Opere filosofiche 1, Laterza 1986, p. 127.

[7] Ib., p. 143.

[8] Ib., pp.318-320.

[9] Ib., p. 333.


Torino 19 marzo 2012

APPENDICE

Cartesio: i giudizi di Voltaire e di Bertrand Russell

“Descartes era dotato d’immaginazione forte e vivace, che fece di lui un uomo originale nella vita privata così come nel suo modo di ragionare; quell’immaginazione non poté tenerla nascosta nemmeno nelle sue opere filosofiche nelle quali s’incontrano a ogni momento paragoni ingegnosi e brillanti; la natura aveva fatto di lui quasi un poeta”.

Voltaire fa un interessante confronto tra Cartesio e Newton, “il distruttore del sistema cartesiano”. Enumera i molti errori di Cartesio, ma gli riconosce il grande merito di aver introdotto “lo spirito di geometria e d’invenzione” nella cultura moderna. Scrive: “La geometria era una guida che egli stesso aveva in qualche misura formato, che sicuramente lo avrebbe guidato nelle sue ricerche di fisica; ma alla fine egli si allontanò da quella guida e si abbandonò allo spirito di sistema. Da allora la sua filosofia non fu altro che un romanzo ingegnoso. […] Ma non è esagerato dire che egli era degno di stima anche nei suoi spropositi: si sbagliò, ma almeno ciò avvenne con metodo, e con coerenza; distrusse le assurde chimere con cui s’imbonivano i giovani da duemila anni; insegnò agli uomini del suo tempo a ragionare, e a servirsi delle sue armi anche contro di lui. Se non ha pagato con buona moneta, è già molto che abbia screditato quella falsa.

Non credo, in verità che si abbia l’ardire di paragonare in nulla la sua filosofia con quella di Newton; la prima è un tentativo, la seconda un capolavoro. Ma colui che ci ha indirizzato sulla via della verità vale forse tanto quanto colui che in seguito è giunto fino in fondo a quella strada.

Descartes diede la vista ai ciechi; questi videro gli errori dell’Antichità  e i suoi. Il cammino che egli aprì è divenuto, dopo di lui, immenso”.

Voltaire, Lettere filosofiche, XIV

“E’ il primo pensatore d’alta capacità filosofica, il cui modo di vedere sia profondamente influenzato dalla nuova fisica e dalla nuova astronomia. E’ pur vero che egli conserva molto di scolastico, tuttavia non accetta le fondamenta poste dai suoi predecessori, e si sforza di costruire ex novo un edificio filosofico completo. Questo non accadeva più da Aristotele in poi, ed è un sintomo della nuova fiducia degli uomini in se stessi, generata dal progresso scientifico. C’è una freschezza, nel suo lavoro, che non si trova in nessun filosofo precedente, anche notevole, dopo Platone. I filosofi, in questo periodo di tempo, erano stati dei maestri, con l’atteggiamento di superiorità professionale che questo attributo porta con sé. Cartesio invece non scrive come un maestro, ma come uno scopritore e un esploratore, ansioso di comunicare ciò che ha trovato. Il suo stile è facile e non pedantesco, rivolto a tutti gli uomini intelligenti del mondo, piuttosto che a degli alunni. E’, per di più, uno stile veramente eccellente. E’ una fortuna per la filosofia moderna che il suo pioniere abbia avuto un così ammirevole senso letterario”.

Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale 3, Longanesi 1967, p. 731

Giuseppe Bailone


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Aggiornamento: 26-04-2015