Grozio: anche se Dio non esistesse…

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Grozio: anche se Dio non esistesse…

I - II

Ugo Grozio

Cartesio fonda la scienza moderna sulla volontà onnipotente e perfetta di Dio. Negli stessi anni, Ugo Grozio (1583-1645), filosofo del diritto, propone, invece, un’idea di verità fondata su se stessa, valida anche se Dio non esistesse o non si occupasse delle faccende umane.

Grozio parte da posizioni simili a quelle cartesiane, ma l’esperienza dei conflitti religiosi che lo travolgono lo allontana da esse di 180 gradi.

Grozio vive la giovinezza in un’Olanda agitata dalla lotta religiosa tra le sette calviniste degli Arminiani e dei Gomaristi, divisi da una diversa interpretazione della predestinazione e della grazia. Educato al calvinismo, ma con  una formazione culturale umanistica, si schiera tra gli Arminiani, per i quali la predestinazione non è assoluta e la grazia non è irresistibile, anche se necessaria: l’uomo ha, cioè, bisogno della grazia per la salvezza, ma resta libero nei suoi atti e, quindi, responsabile.

Il sopravvento dei Gomaristi (1618) gli procura la condanna del carcere a vita. Dopo due anni evade romanzescamente e ripara in Francia, dove nel 1625 pubblica la sua opera principale, il De iure belli ac pacis.

Le vicende personali rendono Grozio particolarmente sensibile al tema della pace che l’Europa ha perso inabissandosi nelle guerre di religione. Nel corso di queste vicende matura una conversione analoga a quella di Agostino davanti al sacco di Roma e nella polemica con Pelagio, ma di segno opposto: Agostino passa dal primitivo razionalismo umanistico stoico-ciceroniano al volontarismo, Grozio fa il percorso inverso e passa dal volontarismo occamistico e calvinista, chiaramente espresso nel giovanile De iure praedae,[1] scritto prima della galera, al razionalismo del De iure belli ac pacis, scritto dopo la galera.

Nell’opera giovanile scrive: “Non tanto Dio vuole qualcosa per il motivo che è giusto, quanto ciò è giusto perché Dio lo vuole”; “Diritto è ciò che Dio abbia fatto sapere che egli vuole”. Anche nel De imperio summarum potestatum circa sacra, scritto intorno al 1614 c’è la stessa impostazione volontaristica.[2]

L’esperienza lacerante del conflitto religioso e la formazione umanistica promuovono in lui un radicale cambiamento, fino a indicargli nella ragione la sola possibilità di uscire dallo stato di guerra in cui è precipitata l’Europa.

Pelagio, alla fine del mondo antico, appariva ad Agostino come il pericolo mortale del cristianesimo: se la ragione indica ciò ch’è giusto e l’uomo trova in se la forza morale per fare il bene, il sacrificio salvifico di Cristo risulta superfluo. Per questo Agostino ha rovesciato le sue precedenti posizioni umanistiche e razionalistiche, elaborate contro i Manichei.[3] Dopo dodici secoli, però, le divisioni fanatiche del mondo cristiano e l’invocazione dello stesso Dio da parte delle sette in conflitto fanno apparire a Grozio il logos, la ratio, la ragione di Pelagio come l’ancora di salvezza del mondo moderno. La formazione umanistica, caratterizzata in filosofia dalla concezione aristotelica dell’uomo come essere razionale e sociale, aiuta Grozio a liberarsi dal volontarismo calvinista e ad approdare al razionalismo giusnaturalistico.

Il diritto naturale è il dettato della recta ratio ed è fondato sulla natura umana. Non può essere modificato da nessuna volontà, neppure da Dio: “Come neppure Dio può far sì che due per due non faccia quattro, così non può far sì che ciò che per intrinseca natura (intrinseca ratione) è male non sia male”.[4]

La risposta di Grozio al dilemma dell’Eutifrone è nettamente platonica.[5] La forza, anche quella divina, si ferma davanti alla verità matematica e al bene.

Così la pensa anche Galileo: Dio è ragione ed ha creato il mondo in caratteri matematici e noi, con la ragione, possiamo conoscerlo. Le verità matematiche valgono per l’uomo come per Dio. La ragione umana, nei suoi stretti limiti, è uguale alla ragione divina, infinitamente più estesa; è una scintilla, come dicevano gli Stoici, del logos divino.

Grozio e Galileo sono razionalisti: la verità ed il bene s’impongono anche a Dio e la ragione umana è uguale a quella divina, anche se la sua estensione è molto limitata. Tommaso d’Aquino e Pelagio la pensavano come loro.

E’ su questa identità della ragione umana e della ragione divina che si fonda la famosa ipotesi ateistica, che starebbe alla base del giusnaturalismo moderno secondo una consolidata interpretazione.

In realtà, però, l’ipotesi ateistica non è una novità moderna.

Ha la sua prima formulazione in Marco Aurelio Antonino (121-180).

“Se gli Dei – scrive l’imperatore filosofo – hanno deliberato intorno a me, e intorno alle cose che mi devono accadere, hanno deliberato certo bene; un Dio che non sapesse deliberar bene, non sarebbe neppure facile immaginarselo! A farmi del male, poi,  per quale ragione potrebbero decidersi? Quale vantaggio ne verrebbe a loro stessi, o alla comunità universale che sta loro massimamente a cuore? Se poi non hanno deliberato in particolare sopra di me, intorno alle cose tutte universalmente in ogni modo hanno deliberato; ed allora io sono tenuto ad accogliere volentieri ed amare le conseguenze tutte dell’ordine universale; e quindi anche gli avvenimenti particolari che capitano a me. E se, addirittura non deliberassero intorno a nulla? A dire il vero, credere questo è cosa empia … Ma in ogni modo, anche in questa dannata ipotesi che gli Dei nulla deliberino intorno a ciò che ci riguarda, pure a me resta sempre possibile deliberare intorno a me stesso, e ricercare quale sia la mia vera utilità! Ma utile è, per ciascuno, ciò ch’è conforme alla sua costituzione, alla sua natura; e la mia natura è razionale e socievole.

Come Antonino ho la mia città e la mia patria in Roma; come uomo nel mondo. Le cose utili a queste due città sono dunque (e sono esse soltanto) utili e buone per me”.[6]

In Marco Aurelio l’identità metafisica stoica della ragione umana e divina garantisce l’autonomia razionale umana: se la ragione umana, sia pure in limiti stretti, funziona come quella divina, basta a se stessa e basterebbe anche se Dio non ci fosse o non si occupasse delle cose umane.

La filosofia stoica agisce profondamente sulla formazione del pensiero cristiano. Non sorprende, quindi, che l’ipotesi ateistica ricorra, nel pensiero tardo-medievale, anche in teologi di orientamento occamista e volontarista. Essa, infatti, si trova nelle pagine di Gregorio da Rimini (1300-1358)[7] ed è ripresa con le stesse parole Gabriele Biel (1425-1459).[8]

Poco prima di Grozio, Gabriele Vásquez (1551-1604) afferma che il bene e il male sono tali per solo giudizio della ragione umana, anche nell’ipotesi assurda che Dio ne desse un giudizio errato.[9]

Pochi anni dopo Grozio, l’ipotesi ateistica viene ripetuta dal gesuita Rodrigo de Arriaga.[10]

Anche l’altra tesi “rivoluzionaria” di Grozio, quella che il diritto naturale, per il suo carattere intrinsecamente razionale, non può essere modificato neppure da Dio, proprio come le verità matematiche, si trova in Tommaso d’Aquino e in altri teologi medievali, come Guglielmo di Auxerre.[11]

“Niente vi è nelle parole di Grozio – scrive Guido Fassò – che sia più accentuatamente «laico» di ciò che era in quelle dei teologi medievali intellettualisti, san Tommaso innanzi a tutti: il cui pensiero era in effetti fondamentalmente «laico», ma non certo in senso polemico. Se intenzione polemica v’è nelle proposizioni razionalistiche groziane, questa è rivolta – proprio come nel caso degli Scolastici intellettualisti – contro il volontarismo; oltre che, marginalmente, contro il relativismo che egli personifica in Carneade.

Che le affermazioni razionalistiche di Grozio – ispirate in definitiva a Cicerone ed allo stoicismo – fossero rivolte contro il volontarismo calvinistico-gomaristico lo confermano i passi dei Prolegomena al De iure belli ac pacis in cui Grozio ha cura di precisare che il diritto naturale non va identificato, come alcuni (cioè i calvinisti di stretta osservarza) fanno con l’ Antico Testamento e quindi con la legge mosaica: e ciò perché molti dei precetti di questo «provengono dalla libera volontà di Dio», e sono percò non diritto naturale, ma diritto volontario divino. Distinzione, questa fra diritto naturale e diritto volontario divino, anch’essa scolastica e risalente a quella di san Tommaso fra lex naturalis e lex divina, che l’occamismo prima, e poi luteranesimo e calvinismo avevano respinto, identificando invece il diritto naturale con la legge positiva di Dio”.[12]

Niente di nuovo, dunque. Perché, allora, si è visto in Grozio la nascita del giusnaturalismo moderno? Lo spiega bene Guido Fassò:

“Il razionalismo di Grozio non è dunque, per se stesso, più laico o più rivoluzionario di quello di un gesuita come Gabriel Vásquez … e se la dottrina di Grozio circa il diritto naturale ha potuto  agire profondamente sullo sviluppo dell’etica e della filosofia del diritto posteriori, ciò è stato non per i suoi intrinseci caratteri filosofici, ma per il momento storico e per l’ambiente culturale in cui si diffuse. Mentre infatti l’opera di un Vásquez o di altri teologi razionalisti tomisti non usciva dalle scuole e dall’ambiente ecclesiastico della Controriforma, il libro di Grozio fu subito noto nel mondo rinnovato dall’umanesimo, agitato dalla Riforma, e ricco di fermenti economici e politici, che era quello dei paesi divenuti i nuovi protaqgonisti della storia, Olanda, Francia, Inghilterra, Germania; e fu interpretato nello spirito della cultura moderna, che fece del giusnaturalismo groziano il proprio programma etico-giuridico così come fece il proprio programma metodologico e scientifico del pensiero di Bacone, di Cartesio e di Galileo. Nel giusnaturalismo razionalistico così come lo trovò esposto nel De iure belli ac pacis la cultura del Seicento vide lo strumento per l’affrancamento dello spirito umano dai vincoli del dogma e la fondazione dell’etica su basi puramente umane. Letto così, Grozio, contro ogni sua intenzione, e ben al di là di quanto avrebbe comportato il reale valore filosofico della sua opera, diventò l’iniziatore di una nuova epoca della filosofia etico-giuridica, e conseguentemente politica. E, in sede storica, noi non possiamo non riconoscerlo come tale; anche se egli si limitò a ripetere vecchie tesi stoiche e scolastiche, è innegabile che la filosofia del diritto moderna fa capo a lui, involontario ma effettivo «padre» – secondo  l’opinione tradizionale che sotto questo aspetto non si può dire errata – di quello che viene considerato il giusnaturalismo moderno”.[13]


Note

[1] Nel 1603, ventenne (ma si era laureato in legge a soli quindici anni), nella sua funzione di avvocato della Compagnia olandese delle Indie orientali, deve affrontare una controversia per la quale non esiste ancora un quadro di leggi cui fare riferimento: un galeone portoghese è stato catturato dalla Compagnia nel mar cinese meridionale e lui deve difendere quell’atto. Da quel lavoro nasce lo scritto sul diritto di preda, di cui viene pubblicato nel 1608 solo il capitolo Il mare libero. Grozio sostiene la libertà di commercio e di navigazione e respinge le pretese portoghesi (e spagnole) di monopolio, sostenute semplicemente in base al fatto di chi per primo ha occupato quei mari a cui guarda con molto interesse il commercio olandese. Escludendo gli olandesi dai commerci orientali i portoghesi hanno violato leggi naturali e, non esistendo un giudice superiore cui ricorrere, la Compagnia olandese ha fatto bene a rifarsi dei danni subiti catturando il galeone portoghese. Insomma, un atto di guerra, ma di guerra giusta. Grozio, infatti, riprende, nella sua opera più importante, la teoria della guerra giusta e la rielabora con spirito restrittivo, teso cioè a limitarne i casi e a porre molti freni al suo svolgimento: pochi sono i casi di guerra giusta e, soprattutto, in guerra non tutto è lecito.

[2] Grozio, De iure praede, II, 1. Ho tratto le citazioni da Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, II L’età moderna, ed. Laterza 2001, p. 75.

[3] Di questa conversione di Agostino ho scritto nel quaderno Da Plotino a Tommaso d’Aquino, pp.66-74.

[4] De iure belli ac pacis, I, I, X, 5

[5] Di questo dilemma ho scritto nel primo quaderno dell’università popolare, Viaggio nella filosofia greca, a p. 77.

[6] Ricordi, VI, 44.

[7] Di questo ho parlato nel quaderno Da Duns Scoto a Giordano Bruno, nel cap. Il volontarismo medievale, pagg. 32-39.

[8] In Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, II L’età moderna, ed. Laterza 2001, pp. 9-10.

[9] Ib., p. 67.

[10] Ib., p. 82.

[11] Ib., p. 82.

[12] Ib., pp. 82-83.

[13] Ib., pp. 83-84.

Torino 9 aprile 2012

Giuseppe Bailone


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Aggiornamento: 26-04-2015