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HOBBES: dallo stato di natura allo Stato assoluto

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Hobbes

L’uomo non può vivere da solo: “I bambini – scrive Hobbes – hanno bisogno dell’aiuto altrui per vivere, gli adulti per vivere bene”.[1]

Hobbes come Aristotele? No.

“La maggior parte degli scrittori politici suppongono o pretendono o postulano che l’uomo sia un animale già atto sin dalla nascita a consociarsi (i Greci dicono zōon politikon, animale politico), e su questa base costruiscono le loro teorie politiche […]. Ma questo assioma è falso, benché accettato dai più; e l’errore proviene da un esame troppo superficiale della natura umana”.[2]

Hobbes non lo cita, ma riprende la tesi che Protagora sostiene nella sua interpretazione del mito di Prometeo: anticamente, gli uomini, per salvarsi dalle fiere, fondavano città, ma incapaci di vivere insieme, perché privi di arte politica, si facevano ingiustizie l’un l’altro e subito si disperdevano di nuovo.[3]

La società e lo Stato non sono prodotti umani naturali. Sono imprese culturali, costruzioni dell’ingegno, artifici umani. Richiedono cura particolare: buona conoscenza della natura umana e adeguata educazione.

Protagora, in sintonia con l’età periclea in cui opera, propone un’educazione politica persuasiva, retorica e diretta a promuovere la democrazia.

Per Hobbes, che vive in tempi di guerra civile, l’educazione alla democrazia è pericolosa: la politica non è materia di cui tutti possano occuparsene.

Protagora crede nella possibilità di persuadere con la parola gli uomini a rispettare la legge e a vergognarsi di farsi ingiustizia, Hobbes pensa che solo con la forza si possa tenere a bada la parte negativa e asociale dell’uomo-lupo e la gagliarda baldanza dell’uomo-centauro.

Per Hobbes, la semplicità degli antichi miti, sicura garanzia dell’ordine sociale, è stata travolta dalle tante discussioni filosofiche sulla giustizia e dalle battaglie dei centauri. Per fermare la guerra civile incombente propone un’educazione all’obbedienza fatta di geometriche dimostrazioni e fondata sulla scienza della natura umana.

Il De cive si apre con un elenco delle facoltà umane (la forza fisica, l’esperienza, la ragione, le passioni) che presuppone una loro trattazione precedente, la cui conoscenza è data per acquisita.

“Prendendo le mosse – continua Hobbes – da queste facoltà, diremo in primo luogo quale disposizione d’animo abbiano l’uno verso l’altro gli uomini che sono forniti di esse; e se, e con quale di queste facoltà, siano atti a vivere socialmente e a difendersi contro reciproche violenze; poi, continuando, diremo quali provvedimenti sia stato necessario prendere a tal fine, e quali siano le condizioni necessarie a stabilire una società, ossia la pace tra gli uomini: cioè, in altre parole, dimostreremo quali siano le leggi fondamentali di natura”.[4]

Gli uomini si cercano solo per motivi egoistici, non per un naturale sentimento di simpatia e di socievolezza. “Ogni associazione spontanea di gente – dice Hobbes – nasce o dal bisogno reciproco oppure dal desiderio di soddisfare la propria ambizione […] ogni patto sociale si contrae o per utilità o per ambizione, cioè per amor proprio e non già per amore dei consoci”.

I fini egoistici e la naturale uguaglianza degli uomini portano al conflitto.

“La natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, benché talvolta si trovi un uomo palesemente più forte, nel fisico, o di mente più pronta di un altro, tuttavia, tutto sommato, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole al punto che un uomo possa rivendicare per sé un beneficio cui un altro non possa pretendere tanto quanto lui. Infatti, quanto alla forza corporea, il più debole ne ha a sufficienza per uccidere il più forte, sia ricorrendo a una macchinazione segreta, sia alleandosi con altri che corrono il suo stesso pericolo”.[5] L’uguaglianza delle facoltà mentali è per Hobbes “ancora più grande di quella della forza fisica”. Infatti, “lasciando da parte le arti fondate sulle parole e in particolare quell’abilità di procedere secondo regole generali e infallibili, che si definisce scienza, e che pochissimi possiedono e solo rispetto a poche cose, non essendo questa una facoltà naturale e innata”, egli trova conferma dell’uguaglianza delle facoltà mentali nel fatto che “ciascuno è appagato da quel che [ne] ha”.[6]

La naturale uguaglianza genera in tutti un’uguale “speranza di raggiungere i propri fini. Perciò se due uomini desiderano la medesima cosa, di cui tuttavia non possono entrambi fruire, diventano nemici”.

Tutti, ad esempio, cercano l’onore, ma, questo, “se è per tutti non è per nessuno”. Succede così che anche la ricerca dell’onore, come quella dell’utile, spinga al dominio degli uni sugli altri.[7]

La naturale spinta al dominio genera diffidenza e ostilità: “quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione”, si ha lo stato di guerra “di ogni uomo contro ogni altro uomo”.[8]

In questo stato naturale di guerra, ogni uomo è per l’altro uomo un lupo.

La “vanagloria”, la “esagerata stima delle proprie forze”, la “necessità di difendere i propri averi e la propria libertà”, ma anche il contrasto di opinioni, la reazione al disprezzo e, più spesso, il desiderio delle stesse cose alimentano “la volontà di nuocere” che “è insita in tutti”.

In questo “immenso numero di pericoli di cui gli istinti naturali degli uomini seminano quotidianamente la vita umana … ciascuno è portato alla ricerca di quel che, per lui, è bene, e a fuggire quel che, per lui è male, specialmente poi il massimo dei mali naturali, cioè la morte; il che accade secondo una ferrea legge di natura, non meno rigida di quella per cui una pietra cade verso il basso”.[9]

Nello stato di natura ciascuno ha diritto di fare ciò che secondo la sua ragione giova alla tutela della propria vita e al suo bene individuale.

Per diritto, Hobbes intende “null’altro che la libertà, che ciascuno ha, di usare secondo la retta ragione delle proprie facoltà naturali”.[10]

Hobbes distingue il diritto naturale dalla legge naturale.

“Il diritto consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la legge determina o obbliga a una delle due cose”.[11]

Se nella natura umana ci sono elementi che mettono gli uomini in guerra fra loro, ci sono anche passioni e ragioni che inducono alla ricerca della pace.

“Le passioni che inducono gli uomini alla pace sono la paura della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie a una vita piacevole e la speranza di ottenerle con la propria operosità ingegnosa. E la ragione suggerisce opportune clausole di pace sulle quali si possono portare gli uomini a un accordo. Queste clausole sono quelle che vengono, in altri termini, chiamate le leggi di natura”.[12]

Il diritto naturale nasce dal naturale stato di diffidenza e di guerra tra gli uomini e lo alimenta. Le leggi naturali nascono dal calcolo razionale messo in moto dalla naturale paura della morte e dal desiderio delle cose che solo in pace si possono avere.

L’uomo ha nella propria natura forze che spingono alla guerra, ma anche risorse per uscirne. Tutto dipende dall’uso della ragione: se è al servizio delle tendenze naturali egoistiche e asociali alimenta la guerra; se è al servizio delle altrettanto naturali passioni pacifiche indica le vie per uscirne, detta le leggi naturali. La ragione è per Hobbes attività di calcolo. Può proporre interventi efficaci sulla natura umana e sulle sue passioni, perché tutto è corpo e movimento e può essere trattato come un complesso meccanismo.

Sono frutto della razionalità sia il diritto naturale, che serve a difendersi nello stato di natura, sia le leggi naturali, che ne indicano la via d’uscita.

“La prima e fondamentale legge di natura è che si deve ricercare la pace quando la si può avere; quando non si può bisogna cercare aiuti per la guerra”, scrive Hobbes nel De Cive. Nel Leviatano aggiunge: “La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura che è cercare e perseguire la pace. La seconda contiene l’essenziale del diritto di natura che è difendersi di tutti i mezzi di cui si dispone”.

Le leggi naturali (venti nel De Cive e diciannove nel Leviatano) sono alla portata di tutti gli uomini, sono immutabili ed eterne. Chi le osserva è giusto. Esse invitano a limitare il diritto naturale di tutti su tutto, a rispettare i patti che la ragione suggerisce, ad aiutarsi reciprocamente, a considerare gli uomini tutti uguali, a ricorrere a un arbitro in caso di controversie. In una sintesi “comprensibile anche a un uomo della più modesta capacità”, esse dicono di “non fare a un altro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”.[13]

E’ però improprio, per Hobbes, chiamarle leggi naturali, “poiché esse non sono che conclusioni o teoremi concernenti ciò che conduce alla conservazione e alla difesa degli uomini, mentre la legge è propriamente la parola di colui che detiene per diritto l’impero sugli altri. Ciononostante, se consideriamo i medesimi teoremi in quanto comunicati dalla parola di Dio, che tutte le cose comanda per diritto, allora sono chiamate leggi propriamente”.[14]

Legge, per Hobbes, è solo il comando di chi detiene per diritto il potere.

I dettami della ragione sono eterni e immutabili, ma, privi di forza coercitiva, non riescono a frenare le passioni umane e ad assicurare la pace.

Chi voglia rispettare le leggi naturali pratica sì la giustizia, ma a suo rischio e pericolo: non ha, infatti, alcuna garanzia che gli altri facciano altrettanto e non approfittino, invece, della sua bontà per fare il proprio interesse anche contro di lui. Capita così che la ragione individuale consigli di agire come se gli altri fossero nemici e per nulla intenzionati a rispettare le leggi naturali.

Le leggi naturali, senza un potere che sappia imporne il rispetto, restano vani e pericolosi ideali. Hobbes non subisce minimamente il fascino dell’utopia.

Gli uomini non devono, quindi, limitarsi a farsi dettare dalla ragione le condizioni della pace; devono creare un potere coercitivo che faccia leva su quel forte sentimento naturale che è la paura, “il fratello gemello” di Hobbes. Devono creare un’autorità capace di fare leggi in senso proprio.

La ragione indica nel contratto sociale il solo mezzo per creare tale potere. Attenzione! Non si tratta tanto di dare potere coercitivo alle leggi naturali, trasformandole in leggi in senso proprio. Si tratta di creare il potere di fare leggi e di amministrare la giustizia.

Le leggi naturali, infatti, nella loro astratta universalità, si prestano nei casi concreti a interpretazioni diverse che aprono varchi ai conflitti.

“Le leggi di natura proibiscono il furto, l’omicidio, l’adulterio e tutte le varie specie di torti. Però si deve determinare per mezzo della legge civile, e non della naturale, quel che si debba intendere fra cittadini per furto, per omicidio, adulterio, torto. Infatti non è un furto ogni sottrazione di quel che un altro possiede, ma solo ciò ch’è in proprietà di un altro. Ma determinare quel ch’è nostro e quel ch’è altrui spetta appunto alla legge civile. Così pure non ogni uccisione è un omicidio; ma è omicidio soltanto uccidere persone che la legge ci proibisce di uccidere. Né tutte le unioni sono adultèri, ma solo le unioni che la legge civile proibisce. Infine, la violazione di una promessa costituisce un torto quando la promessa stessa è lecita”; ma “è ancora la legge civile che definisce quel che possiamo e quello che non possiamo promettere”.[15]

Il giusnaturalismo di Hobbes muore nel contratto, dando vita allo Stato. Diventa quel che più tardi si chiamerà positivismo giuridico.

Nello Stato è il potere a definire il giusto e l’ingiusto. Il libero e razionale esame dei cittadini di ciò ch’è giusto o ingiusto muore con lo stato di natura.

Il contratto sociale, infatti, non può limitarsi a essere un accordo di unione (pactum unionis) dei cittadini. Questo è solo un primo passo, necessario, ma non sufficiente: gli uomini devono sì unirsi, ma anche rinunciare a occuparsi di leggi e di giustizia. Se non fanno questo secondo passo e continuano a regolarsi con le leggi naturali aprono varchi pericolosi ai centauri. Devono, pertanto, togliersi dalla testa ogni idea personale di legge naturale e adattarsi a rispettare le leggi del sovrano. Devono perfezionare il contratto con la sottomissione (pactum subiectionis) incondizionata di tutti al potere politico.

Tutti devono cioè rinunciare al loro diritto naturale e cederlo interamente al sovrano, in modo da farne il Leviatano, un potere assoluto, capace di incutere paura anche ai più forti, proprio come il mostro biblico, di cui è detto nel Libro di Giobbe che “quando si alza si spaventano i forti, e per il terrore restano smarriti” e che “su tutte le altezze egli guarda dall’alto”.[16]

Gli individui cedono al sovrano, che può essere un uomo singolo o assemblea, ogni loro diritto. Nasce così lo Stato assoluto, dotato di pieno potere di fare leggi e di infliggere pene, di amministrare la giustizia, di nominare i magistrati e i funzionari, di fare la guerra e di trattare la pace, di praticare la censura e di regolamentare i riti della religione di Stato.

Il sovrano non può essere messo sotto accusa. Il suo potere è irrevocabile.

Il contratto sociale che pone in essere il sovrano non è tra i cittadini e il sovrano, ma tra i cittadini soltanto, i quali decidono per contratto reciproco di trasferire il loro diritto naturale al sovrano. Il sovrano non è parte contraente, ma il frutto del contratto tra i cittadini. Non può pertanto essere richiamato al rispetto di un contratto, che non ha mai stipulato.

“Infatti, ogni cittadino, stipulando il patto con ciascuno degli altri, dice: io trasferisco il mio diritto a questa persona alla condizione che tu pure lo trasferisca alla stessa persona. Con le quali parole si vuol significare che il diritto che ognuno aveva di usare le proprie forze a proprio vantaggio è stato trasferito totalmente in una persona o in un’assemblea a vantaggio della comunità. Così, siccome sono intercorsi, da un lato, i patti con i quali i singoli si sono reciprocamente vincolati, dall’altro è intervenuta pure una donazione di diritti in favore del sovrano da parte dei cittadini che si sono obbligati a rispettarla, ne viene che il potere sovrano si appoggia sopra una duplice obbligazione da parte dei cittadini, l’una nei confronti dei loro concittadini, l’altra nei confronti del sovrano. Perciò i cittadini, qualunque sia il loro numero, non possono legittimamente destituire dal potere il sovrano senza il suo consenso”.[17] Obblighi per i cittadini e potere assoluto al sovrano.

Nel contratto muore anche il contrattualismo: una volta creato il sovrano, con la “donazione” a lui del proprio diritto naturale da parte di tutti, ogni ulteriore possibilità di contrattazione finisce. Restano solo gli obblighi dei cittadini e il potere sovrano pieno e non passibile di contrattazione.

Il dono che perfeziona il contratto sociale estingue il contrattualismo, insieme al giusnaturalismo.

Nello Stato di Hobbes non c’è posto per Antigone.

Non solo: il sovrano non è soggetto neppure alle proprie leggi.

E’ un errore “pernicioso” l’idea di Aristotele che “in uno Stato ben organizzato non sono gli uomini a dover governare bensì le leggi”.[18]

Nello Stato di Hobbes è il sovrano, non le leggi, a governare.

La teoria del governo delle leggi è pericolosa così come il giusnaturalismo: apre, con la discussione pubblica sulla giustizia, ai centauri. Limita il potere di comando del sovrano e condiziona l’obbedienza dei sudditi.

“Nessuno può dare a se stesso qualcosa, perché si suppone ch’egli abbia già quel si potrebbe dare; né obbligarsi verso se stesso, perché l’obbligante e l’obbligato sarebbero una stessa persona, e siccome l’obbligante può liberare l’obbligato dall’impegno, chi obbliga se stesso si potrebbe liberare a proprio arbitrio; ma chi può sottrarsi a un obbligo quando vuole, è già libero di fatto. Da questo risulta che lo Stato non è tenuto all’osservanza delle leggi civili. Le leggi civili sono appunto leggi promulgate dallo Stato; se questo fosse obbligato a rispettarle, resterebbe obbligato verso se stesso”.[19]

Hobbes chiude ogni possibile spiraglio di discussione pubblica sulla giustizia, sia quella che ricorre alle leggi naturali, sia quella che ricorre alle stesse leggi dello Stato per valutare gli atti del potere.

Come insegna il mito di Issione, la giustizia è di esclusiva pertinenza del sovrano.

Hobbes, polemico con Aristotele, è molto lontano anche da Platone: la sua filosofia non cerca il potere, il filosofo non è il medico della città malata, non giudica la città reale comparandola al suo modello ideale; il filosofo dimostra la necessità razionale, scientifica, della sottomissione al sovrano, dell’obbedienza senza riserve, se non quella della propria conservazione in vita. Per Hobbes lo Stato è in buone condizioni di salute se tali sono le condizioni del suo indivisibile potere.

Torino 30 aprile 2012

NOTE


[1] Hobbes, De cive, in Opere politiche 1, Utet 1959, pp. 78.

[2] Ib., pp. 78-80.

[3] Ho scritto di questa tesi in Viaggio nella filosofia europea, Alpina ed. Torino 2006, pp. 27-28.

[4] Ib., pp. 77-78.

[5] Hobbes, Leviatano, Laterza 2011, p. 99.

[6] Ib., pp. 99-100. E’ lo stesso argomento di Cartesio per il buon senso.

[7] Ib., p. 82.

[8] Ib., pp.100-101.

[9] Hobbes, De cive, in Opere politiche 1, Utet 1959, p. 86.

[10] Ib., p. 86.

[11] Hobbes, Leviatano, Laterza 2011, p. 105.

[12] Ib., pp.103-104.

[13] Ib., p.128.

[14] ib., p. 130.

[15] Hobbes, De cive, in Opere politiche 1, Utet 1959, p. 169.

[16] 41, 17 e 26.

[17] Hobbes, De cive, in Opere politiche 1, Utet 1959, p. 175.

[18] Hobbes, Leviatano, Laterza 2011, p. 553.

[19] Hobbes, De cive, in Opere politiche 1, Utet 1959, pp. 166-167.


Giuseppe Bailone

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

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Aggiornamento: 26-04-2015