Mandeville: piccole comunità e grandi nazioni

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Mandeville: piccole comunità e grandi nazioni

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Giuseppe Bailone

Il poemetto, pubblicato nel 1705, non è “una satira della virtù e della moralità”, scritta “per incoraggiare il vizio”. È stato frainteso. Per questo l’edizione del 1714, non solo ha molte note di spiegazione, ma anche una breve, molto importante, prefazione per chiarire lo spirito con cui è stato scritto e invitare a fare attenzione alle dimensioni dell’alveare come elemento fondamentale dell’apologo.

Mandeville è un medico. Nel 1711 pubblica un Trattato sulle malattie isteriche e ipocondriache. In esso individua la causa organica di quei disturbi nel cattivo funzionamento dello stomaco, ma dedica molta attenzione alla personalità del paziente, alle sue idee ossessive e alle sue fantasie. È convinto che la vita psichica interagisca con la causa organica e che la riflessione su di essa possa giovare. Scrive, infatti: ”Nelle malattie, da cui è interessata soprattutto l’immaginazione, gli uomini, senza altri rimedi, possono spesso ragionare fino a recuperare la salute”.[1] Cura, quindi, i suoi pazienti anche con la parola, ha poca fiducia nei farmaci e ne prescrive il meno possibile.

Per vivere bene, l’uomo deve riflettere sulla propria natura e sulle proprie passioni. Le idee confuse e gli errori compromettono la ricerca della felicità.

La riflessione deve partire da un dato: la natura umana è immodificabile.

“Poiché la natura umana – scrive – continua ad essere identica a come è stata per tante migliaia di anni, non abbiamo buone ragioni per aspettarci un suo cambiamento futuro finché dura il mondo”.[2]

Vanno quindi studiate attentamente le passioni dell’uomo e le loro dinamiche reciproche, per imparare “la differenza fra le azioni che procedono da una vittoria sulle passioni, e quelle che sono soltanto il risultato della vittoria di una passione sull’altra: cioè fra la virtù reale e la virtù simulata”.

L’impresa non è facile: deve, infatti, fare i conti con l’amore di sé.

Mandeville cita, a proposito, una massima di La Rochefoucauld (“Sebbene siano state fatte molte scoperte nella terra dell’amore di sé, vi è ancora molta terra incognita da scoprire”) e aggiunge che “siamo tutti così disperatamente innamorati dell’adulazione, che non riusciamo ad apprezzare una verità umiliante”.[3] L’impresa è, cioè, difficile, interminabile e i suoi risultati spesso sgradevoli. Per questo Mandeville non si aspetta “l’approvazione della moltitudine”, non scrive “per i molti, e cerca solo il consenso dei pochi che sanno pensare astrattamente e hanno una mente elevata”.[4]

La conoscenza di sé deve includere quella sull’ambiente sociale, la cui natura grande o piccola, complessa o semplice, implica rapporti umani molto diversi. Anche i corpi sociali hanno, come quelli degli esseri viventi, i loro mali, le loro malattie psichiche, e Mandeville li studia avvalendosi della sua esperienza professionale.

“Le leggi e il governo, sono per i corpi politici delle società civili quello che gli spiriti vitali e la vita stessa sono per i corpi naturali delle creature animate; e come coloro che studiano l’anatomia dei cadaveri possono vedere che gli organi più importanti e le molle più delicate, immediatamente necessarie a tenere in movimento la nostra macchina, non sono dure ossa, forti muscoli e nervi, né la pelle bianca e liscia che li ricopre in modo così bello, ma fini e sottili membrane e piccoli canali che l’occhio ineducato non coglie o considera trascurabili; così coloro che esaminano la natura dell’uomo, astraendo dall’arte e dall’educazione, possono osservare che ciò che lo rende un animale socievole non è desiderio di compagnia, buon carattere, pietà, affabilità e altre grazie di bell’aspetto, ma che le qualità più vili e odiose sono i talenti più necessari per renderlo adatto alle società più grandi e, secondo il mondo, più felici e fiorenti”.[5]

Chi ha criticato il suo poemetto non ha capito la sua natura di dissezione anatomica della società. Non ha capito che la sua satira “non è volta ad offendere e attaccare persone particolari, ma soltanto a mostrare la bassezza degli ingredienti che tutti insieme compongono la salutare mistura di una società bene ordinata, per potere esaltare il potere meraviglioso della saggezza politica, grazie alla quale una macchina così bella sorge dalle origini più disprezzabili”.[6]

L’apologo, cioè, è un’analisi razionale della società moderna e un inno alla “saggezza politica”, spesso misconosciuta per «ipocondria politica», cioè, per la tanto diffusa tendenza a lamentarsi, senza ragione, dei propri governanti e della propria condizione politica.

I vizi sono il motore delle grandi società, ma queste non nascono da quelli senza la “saggezza politica”. Non c’è automatismo. Mandeville dedica pagine importanti, nelle note, a illustrare l’opera d’incivilimento, di educazione svolta nella storia dai grandi capi politici. È “grazie ad un abile governo” che i vizi privati diventano “utili alla grandezza e alla felicità mondana” della società.

Ecco quindi la prima lezione morale dell’apologo: prima di lamentarsi dei propri governanti, gli uomini riflettano sulla funzione decisiva della politica.

La lezione successiva è l’invito a prendere seriamente in considerazione la radicale differenza tra la vita in una grande nazione e quella in una piccola comunità, e decidere quale delle due si preferisce.

In una piccola realtà sociale il rapporto tra bene privato e bene pubblico è diretto e la moralità degli individui è la condizione del benessere collettivo: le virtù private sonopubblici benefici. I rapporti tra i singoli e il tutto di cui fanno parte è come in una grande famiglia o in una comunità di persone unite dalla volontà di stare bene insieme. La mediazione politica si riduce in rapporto alle dimensioni della società. La politica tende a diventare questione morale.

In una grande società, più grandi sono le sue dimensioni, più complessa è la sua articolazione, e meno lo spirito che la informa può essere quello di far parte di una comunità morale. Il suo principio non può che essere quello della cooperazione interessata, che spinge ciascuno a realizzare i propri fini individuali lavorando per gli altri. Il rapporto tra il bene privato e quello pubblico si fa indiretto, in parte divergente e perfino in conflitto. La mediazione politica diventa essenziale per armonizzarli. Attenzione, però! L’arte politica è importante, ma non può diventare controllo hobbesiano delle attività sociali. Il suo potere è limitato, non solo sul modello della monarchia inglese della “Gloriosa Rivoluzione”, ma anche nel senso che una grande nazione commerciale non si presta a un controllo dirigistico della sua economia. Una grande società commerciale non si presta a diventare un’impresa collettiva organizzata. L’idea di una programmazione economica da parte della politica è impensabile: neanche il tiranno più “inumano e privo di rimorsi” potrebbe pretendere di costringere i suoi sudditi agli sforzi e ai rischi che naturalmente compiono gli individui per realizzare i propri fini in condizioni di libertà economica, nella quale ognuno lavora per se stesso e non per la comunità, si muove per il proprio bene, senza pensare al bene pubblico.[7]

L’azione politica deve modellarsi sulla cultura della vite.

“Non dobbiamo il vino alla vite secca, misera e contorta? Fin quando i suoi germogli erano trascurati, soffocava le altre piante, e non dava che legna, ma ci allietò con il suo nobile frutto, non appena fu legata e potata”.

Ecco la metafora della saggia azione politica: legare e potare le passioni.

Se “la semplice virtù, non può far vivere le nazioni nello splendore”, neppure il semplice vizio produce nulla di buono. Perché il vizio produca pubblici benefici deve essere “sfrondato e contenuto dalla giustizia”.

Si potrebbe dire che Mandeville si oppone diametralmente all’ottimismo di Shaftesbury ed esalta l’abilità, l’arte, la virtù politica.

Più che a Hobbes viene da pensare a Machiavelli: la virtù di un capo politico, di un uomo di Stato, non è la stessa dei singoli individui; cambia l’orizzonte in cui egli si muove e la differenza diventa radicale, fino a farsi opposizione.

L’alveare del poemetto è grande e rappresenta qualsiasi “nazione grande, ricca e guerriera, felicemente governata da una monarchia limitata”.

Mandeville ha scelto di vivere a Londra, la capitale sporca e maleodorante di un grande impero in formazione, retto da una monarchia costituzionale, non in una piccola comunità agreste.

“Ma – scrive – se mi si chiedesse, senza considerare l’interesse o la felicità della città, in quale luogo io consideri più piacevole passeggiare, non si può dubitare che alle strade maleodoranti di Londra preferirei un giardino profumato o un boschetto ombroso. Allo steso modo, se mettendo da parte ogni grandezza e vanità mondana, mi si chiedesse dove penso che gli uomini abbiano maggiore probabilità di godere di vera felicità, anteporrei una piccola società pacifica in cui gli uomini, né invidiati né stimati dai loro vicini, vivono contenti del prodotto naturale del luogo in cui abitano, ad una grande moltitudine ricca e potente, sempre intenta a fare conquiste con le armi fuori delle frontiere, e a corrompersi con il lusso straniero in patria”.[8]

Chi si lamenta della condizione sociale e politica in cui vive, farà bene a chiarirsi le idee sul tipo di società in cui vorrebbe vivere. Il ritorno alla mitica età dell’oro dei poeti ha il suo grande fascino, ma chi vuole muoversi in quella direzione, sappia che “deve tenersi pronto per le ghiande come per l’onestà”.

Volere il trionfo sociale della virtù in una nazione grande e prospera è come volere il vino sradicando la vite “secca, misera e contorta”.


[1] Citato a pag. VI dell’introduzione di Tito Magri a La favola delle api, ed. Laterza 1987.

[2] Bernard Mandeville,La favola delle api, a cura di Tito Magri, ed. Laterza 1987, p. 154.

[3] Ib. p.155.

[4] ib. pp. 155-6.

[5] Sono le prime righe della prefazione all’edizione del 1714, a p. 3 dell’ed. sopra citata.

[6] Ib. p. 4.

[7] Ib. p. 257.

[8] Ib. p. 7. Quando le citazioni non hanno indicazioni delle pagine da cui sono tratte, è perché sono passi dell’apologo.


Torino 28 ottobre 2013

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 26-04-2015