Mandeville: come "il selvaggio venne domato"

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Mandeville: come “il selvaggio venne domato”

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Giuseppe Bailone

La società è un artificio. L’uomo non è per natura portato a vivere insieme agli altri uomini. Nello stato naturale, è l’animale meno socievole. È sì intelligente, ha la ragione, ma questa non ha la forza di dominare le passioni, ed è per lo più al loro servizio. E queste non lo orientano a vivere con gli altri.

Nelle prime righe della Ricerca sull’origine della virtù morale, primo dei saggi di commento al suo apologo, Mandeville scrive: “Senza il freno del governo, nessuna specie di animali è meno capace di vivere a lungo in moltitudini”.

La visione di Mandeville è diametralmente opposta a quella di Shaftesbury.

Costui, scrive Mandeville, “crede che gli uomini possano essere naturalmente virtuosi senza alcuna pena o violenza su se stessi”. Non solo: egli “si immagina che l’uomo essendo fatto per la società, dovrebbe anche essere nato con un tenero sentimento di affetto per il tutto di cui fa parte e con un’inclinazione a ricercare il benessere della società di cui è membro”.[1]

Questa idea, per Mandeville, non solo è “del tutto priva di fondamento”, ma “apre il varco all’ipocrisia, e se diviene un’abitudine ci porta non solo ad ingannare gli altri, ma nello stesso tempo ci rende anche sconosciuti a noi stessi”.[2]

“Senza vizi la superiorità della specie umana non si sarebbe mai manifestata: tutti i personaggi illustri che hanno raggiunto la celebrità nel mondo sono una prova palese contro il gentile sistema di Lord Shaftesbury”.[3]

Nell’ultima pagina dell’ultimo saggio, Indagine sulla natura della società, Mandeville scrive: “Mi vanto di aver dimostrato che né le qualità amabili né i sentimenti che sono naturali nell’uomo né le virtù reali che egli è capace di acquisire con la ragione e la rinuncia sono il fondamento della società, ma che ciò che noi chiamiamo male, sia morale sia naturale, è il grande principio che ci rende creature socievoli, la linfa vitale e il sostegno di ogni commercio e di ogni mestiere, senza eccezione alcuna; che è là che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze e che nel momento in cui il male cessa, la società risulta impoverita, se non totalmente dissolta”. E chiude il libro scrivendo: “Concludo ripetendo l’apparente paradosso il cui concetto è già stato presentato nel titolo e cioè che i vizi privati, attraverso l’accorta amministrazione di un abile politico, possono divenire pubblici benefici”.

L’ultima parola è, come la prima, per la funzione decisiva della politica.

Molte delle pagine che stanno in mezzo sono impiegate a spiegare quale “fu (o almeno potrebbe essere stato) il modo in cui il selvaggio venne domato”, tenuto sotto controllo e spinto a lavorare per il benessere della società.

È la politica a costruire e a tenere insieme la società.

Il processo di socializzazione di quell’animale non socievole che è l’uomo è stato promosso dalla politica, da coloro, cioè, che, imponendosi come primitivi capi politici, hanno sapientemente agito sulle passioni umane.

Tra le passioni, infatti, ce ne sono due per così dire sociali, che, cioè, nascono nella relazione con gli altri. Esse sono l’orgoglio e la vergogna, e sono particolarmente forti.

“In tutti gli animali che non sono troppo imperfetti per manifestare orgoglio, troviamo che in generale ne hanno di più quelli che sono migliori, cioè più belli e più validi rispetto alla loro specie. Anche nell’uomo, il più perfetto degli animali, l’orgoglio è a tal punto inseparabile dalla sua stessa essenza (per quanto astutamente alcuni possano apprendere a nasconderlo o a mascherarlo) che, senza di esso, il composto di cui è fatto mancherebbe di uno degli ingredienti principali”.[4]

Non è stata la religione, bensì la politica a domare l’uomo selvaggio.

La religione degli antichi, ad es., non ha reso gli uomini migliori, bensì ha giustificato e incoraggiato i loro vizi.

“È chiaro allora, scrive Mandeville, che non fu alcuna religione pagana o superstizione idolatra a spingere per prima l’uomo a contrastare i suoi appetiti e sottomettere le sue inclinazioni più care, ma l’abile cura di politici accorti; e quanto più indaghiamo sulla natura umana, tanto più ci convinciamo che le virtù morali sono la prole politica che l’adulazione ha fatto generare all’orgoglio”.[5]

Siamo molto lontano da Vico[6] e dai filosofi che hanno attribuito alla religione la funzione di grande educatrice al vivere civile. La morale è parto politico!

In un momento in cui l’idea di Bayle, che la morale sia indipendente dalla religione, fa scandalo, Mandeville sostiene che essa è figlia della saggezza politica: non solo la politica non dipende dalla morale, ma ne è la madre.

Vediamo allora come Mandeville spiega questo parto.

L’uomo è portato dall’orgoglio a valutarsi più di quanto ne sia degno e dalla vergogna a temere il disprezzo degli altri. I legislatori, i politici hanno agito su queste passioni per educare gli uomini a vivere in società e per promuovere la formazione della moralità. La forza, infatti, non basta per tenere insieme gli uomini: bisogna agire sui loro pensieri e sulla loro immaginazione. L’uomo è “un animale straordinariamente egoista e ostinato oltre che astuto”, e, “per quanto lo si possa sottomettere con una forza superiore, non è possibile con la sola forza renderlo docile e fargli compiere i progressi di cui è capace”.[7] Va incivilito agendo sulla sua mente, prospettandogli vantaggi allettanti.

Non potendo, però, dare ricompense reali e immediate alle rinunce richieste, i capi politici “furono costretti ad inventarne una immaginaria, che servisse in ogni occasione come equivalente generale per la pena della rinuncia, e che, senza costare nulla a loro stessi o ad altri, fosse una ricompensa del tutto accettabile per chi la riceveva. Essi esaminarono a fondo tutta la forza e le debolezze della nostra natura, e osservando che nessuno era così selvaggio da non provare piacere per le lodi, o così vile da sopportare pazientemente il disprezzo, conclusero giustamente che l’adulazione era l’argomento più forte che si potesse usare nei confronti delle creature umane. Facendo uso di questo espediente per ammaliarli, essi esaltarono la superiorità della nostra natura sugli altri animali, ed esponendo con infinite lodi le meraviglie della nostra sagacia ed ampiezza di intelligenza, riversarono mille elogi sulla razionalità delle nostre anime, grazie alla quale potevamo compiere le imprese più nobili. Introdottisi per la scaltra via dell’adulazione nel cuore degli uomini, iniziarono ad insegnare loro i concetti di onore e di vergogna, presentando l’una come il peggiore di tutti i mali e l’altro come il bene più alto cui mortale potesse aspirare. Ciò fatto, mostrarono come fosse sconveniente per la dignità di creature tanto sublimi prestarsi con troppa sollecitudine alla soddisfazione degli appetiti che avevano in comune con le bestie, senza curarsi delle qualità superiori che davano loro la preminenza su tutti gli esseri visibili. Essi in effetti riconoscevano che quegli impulsi della natura erano imperiosi, che era penoso resistere ad essi, e molto difficile assoggettarli completamente. Questo però era usato soltanto come un argomento per dimostrare, da una parte, come fosse glorioso vincerli, e dall’altra, come fosse scandaloso non tentare di farlo”.[8]

Hanno agito come le donne con i bambini, lodandoli oltre misura per le prime incerte prestazioni. Si sono avvalsi “dell’incantesimo dell’adulazione” ed hanno usato “l’aurea moneta della lode”. Hanno, così, fatto del merito un’idea fondamentale, capace di spingere all’azione e di abituare l’individuo a tener conto dell’esistenza degli altri.

Merito, onore e infamia sono i frutti sociali importanti dell’azione politica sulle forti passioni elementari dell’orgoglio e della vergogna.

È vero, riconosce Mandeville, che ci sono persone che praticano una virtù particolarmente pura, alla cui origine non sembra esserci affatto l’orgoglio. “Tuttavia anche in costoro (di cui peraltro il mondo non è mai stato affollato) possiamo scoprire sintomi non trascurabili di orgoglio; e anche l’uomo più umile deve riconoscere che la ricompensa di un’azione virtuosa, che è la soddisfazione che segue ad essa, consiste in un certo piacere che si procura contemplando il proprio valore. Questo piacere, insieme all’occasione che lo ha prodotto, sono segni certi di orgoglio, come impallidire e tremare di fronte a un pericolo incombente sono i sintomi della paura”.[9]


[1] Bernard Mandeville, La favola delle api, a cura di Tito Magri, ed. Laterza 1987, p. 229.

[2] Ib. pp. 234-5.

[3] Ib. p. 237.

[4] Ib. p. 27.

[5] Ib. p. 30.

[6] Della concezione vichiana ho scritto nel “Viaggio nella filosofia. Spinoza, Locke, Leibniz e Vico”, pubblicato dall’Università popolare editore nel 2013, in particolare alle pp. 169-171.

[7] Bernard Mandeville, La favola delle api, a cura di Tito Magri, ed. Laterza 1987, p. 25.

[8] Ib. p. 26.

[9] Ib. p. 34.


Torino 11 novembre 2013

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 26-04-2015