MITI E REALTA' DELLO STALINISMO

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MITI E REALTA' DELLO STALINISMO

Dopo la rivoluzione d'Ottobre si era convinti che in Russia l'edificazione di una nuova società sarebbe dipesa, sic et simpliciter, dalla socializzazione dei mezzi produttivi. A tale scopo furono subito confiscate e nazionalizzate quasi tutte le imprese industriali e commerciali, la quasi totalità delle banche e dei trasporti. Dal censimento del 1920 risulta che fra le imprese nazionalizzate si trovavano, oltre alle grandi unità produttive, più di 1/7 di imprese aventi un solo operaio!

In fondo l'Antidühring di Engels, per i bolscevichi, parlava chiaro: "Con la presa di possesso, da parte della società, dei mezzi produttivi, la produzione mercantile è eliminata e, di conseguenza, il dominio del prodotto sul produttore". E qualunque lavoro - prosegue Engels - diventa immediatamente "lavoro sociale". Non pochi rivoluzionari e teorici del partito bolscevico credettero che le condizioni venutesi a creare con la rivoluzione d'Ottobre corrispondevano perfettamente a quelle descritte nei lavori teorici di Marx ed Engels, e che, pertanto, la realizzazione pratica andava considerata come un compito inderogabile.

Ben presto il commercio si trasformò -in questa concezione bolscevica- in uno scambio "volgare" di merci, e non solo il commercio, ma anche il valore del denaro, dell'oro, dei prezzi, delle banche...: tutto quanto aveva sapore di "capitalismo" o di "commercio" perse ogni credibilità. L'uso della forza, per realizzare questi mutamenti di mentalità, fu inevitabile.

A dir il vero Lenin ha sempre nutrito seri dubbi sulla automaticità di questi processi. Egli si rifaceva a quei passi di Marx ed Engels in cui si affermava che la socializzazione dei mezzi produttivi poteva avvenire in due modi: giuridico (cioè amministrativo, volontarista) ed economico. Quest'ultimo dai classici era considerato il migliore, poiché si riteneva che l'altro causasse dei conflitti tra le forze e i rapporti produttivi. In particolare, Engels sosteneva - sempre nell'Antidühring - che la socializzazione economica diventa inevitabile quando la società si accorge di non poter più gestire in maniera privata i grandi complessi produttivi. Dunque non ogni statizzazione dell'economia è un segno della presenza del socialismo. Se così fosse -diceva Engels- Bismarck, Napoleone e Metternich andrebbero annoverati tra i fondatori del socialismo.

Il fatto è purtroppo che queste sottili ma importanti differenze non venivano colte dalla maggioranza dei bolscevichi rivoluzionari. Socializzazione "forzata" o "economica" venivano continuamente confuse, identificate. E su questo equivoco si costruì il socialismo nel periodo del "comunismo di guerra". Negli anni 1918-21 l'impresa statale perse ogni autonomia socio-economica; ogni altra forma di proprietà venne ridotta al minimo; lo scopo della produzione era diventato quello di produrre dei valori tout-court e non dei valori d'uso, per cui ci si orientava verso gli indici lordi; il denaro si era trasformato in una unità di conto del tutto formale, assolutamente incapace di svolgere la funzione di equivalente universale; il mercato era stato totalmente escluso dal sistema dell'economia nazionale e considerato come l'antitesi principale del socialismo. Ecco in che modo si era convinti di realizzare le idee del socialismo scientifico.

Lenin si accorse subito delle difficoltà insorte nel campo economico e commerciale, cioè in pratica s'accorse che nessuna risoluzione politico-amministrativa avrebbe mai potuto assicurare il passaggio dalla nazionalizzazione, cioè dalla mera espropriazione dei produttori privati, alla socializzazione, poiché quest'ultima, nei fatti, era un processo molto più lento, complesso e difficile (anche se più sicuro). Ecco perché, ad un certo punto, gli sembrò del tutto naturale lasciar coesistere nella società molteplici strutture eterogenee, esprimenti un grado diverso di maturità economica e sociale.

A tale scopo Lenin propose di socializzare la produzione già "socializzata": il che appariva un'assurdità a coloro che si erano limitati a leggere in modo schematico le opere dei classici. Di qui la dura lotta contro la "malattia infantile del comunismo": il gauchisme, che accusava Lenin di revisionismo, di voler rimandare alle calende greche la realizzazione del vero socialismo.

Tuttavia Lenin ebbe la meglio e si poté così dar vita all'esperimento della NEP. Di questa nuova politica economica ancora oggi si ha un giudizio limitato, in quanto si pretende di ridurla al solo settore agricolo. In realtà essa costituì una revisione radicale di tutte le idee relative alla costruzione del socialismo. Si pensi ad es. alla trasformazione dell'impresa statale da oggetto passivo di una direzione dall'alto a soggetto attivo della politica economica, o alla comparsa delle cooperative, delle società per azioni, delle attività professionali individuali. La ripartizione centralizzata dei mezzi materiali e tecnici nell'economia nazionale venne sostituita, in virtù della NEP, dal commercio all'ingrosso. La riforma monetaria del 1922-24, resasi necessaria dal fatto che l'eccesso di moneta svalutata invadeva il mercato, rimpiazzò gli "assegnati" sovietici con una moneta classica: il cervontsy d'oro, cioè in pratica la Banca di Stato, creata nel 1921, aveva il diritto di emissione di banconote convertibili in oro.

Il criterio dell'efficienza di un'impresa divenne il profitto e non la percentuale con cui essa realizzava i piani previsti dallo Stato. La legge del valore e del mercato vennero riconosciuti quali maggiori regolatori-guida dello sviluppo dell'economia socialista. Queste modifiche non vennero considerate da Lenin in maniera antitetica alla teoria marxista, in quanto che egli riteneva "specifiche" le condizioni della Russia.

I risultati non si fecero attendere. Dopo la fame che aveva ucciso migliaia di persone, l'agricoltura si riprese rapidamente, le aree coltivate raggiunsero i livelli pre-bellici, mentre i bovini, gli ovini, i caprini e i suini li superarono. Nel 1923 l'URSS divenne per la prima volta dall'Ottobre esportatrice di grano (come già lo era al tempo degli zar). Dopo quattro anni di NEP il reddito nazionale (diminuito di tre volte durante la guerra civile) raggiunse il suo valore anteriore al 1914. Fra il 1921 e il '24 il prodotto lordo della grande industria statale aumentò più di due volte.

Lenin, finché rimase in vita, seppe ostacolare la tendenza dogmatica, sempre latente nel partito, che andava imponendosi, ma con la sua morte la situazione peggiorò bruscamente. Lo stalinismo rappresentò appunto una variante di questa tendenza, forse la più coerente o la meglio organizzata. Tanto che quando Krusciov, al XX congresso del Pcus, denunciò le repressioni di massa e le enormi violazioni della legalità socialista, condannando altresì il culto della personalità, non mise in dubbio l'appartenenza ideologica di Stalin al marxismo. Ancora oggi, d'altra parte, per molti è così. Stalin -questo vuole il mito- preservò la purezza del marxismo, minacciato da destra e da sinistra, poi per eccesso di zelo versò sangue più o meno innocente. Non va tuttavia dimenticato che lo stalinismo, come forma di pensiero e di azione, va ben al di là del personaggio individuale che lo incarnò.

In realtà Stalin snaturò Marx in una serie di questioni di fondamentale importanza. Anzitutto nell'interpretazione dei problemi della proprietà, secondariamente in quella del ruolo della violenza nell'edificazione del socialismo, infine in quella della valutazione del ruolo della legge del valore per la società socialista. Vediamo ora questi punti nel dettaglio.

Da tempo l'umanità è convinta che la proprietà privata dei mezzi produttivi è fonte di molte ingiustizie. È in effetti su questa forma di proprietà che nascono le contraddizioni fra miseria e opulenza, fra sovralimentazione e fame, con l'oppressione politica, giuridica e militare che ne consegue. Molti filosofi e rivoluzionari del passato ne chiesero l'abolizione.

Come noto, il marxismo riconosce l'iniquità morale della proprietà privata. Tuttavia la via verso l'eliminazione dell'ingiustizia sociale passa, secondo questa ideologia, non attraverso la sua soppressione politica ma attraverso il suo superamento economico. Una formazione economica -diceva Marx- deve prima esaurire tutte le sue potenzialità.

Può dunque il socialismo svilupparsi in presenza della proprietà privata? No, non può, ma questo non significa -ed è l'esperienza che lo ha dimostrato- che la costruzione del socialismo debba necessariamente coincidere con la fine immediata della proprietà privata. Il superamento di questa forma di proprietà deve avvenire gradualmente e il socialismo, in questo senso, dovrebbe offrire la garanzia che la transizione avvenga in maniera indolore. Di per sé la proprietà privata non è una maledizione: anzi, storicamente, rispetto al latifondo feudale, essa costituì un progresso notevole.

L'abolizione radicale della proprietà privata in URSS, subito dopo la rivoluzione, avvenne a dispetto delle idee di Lenin, in maniera del tutto spontanea e istintiva. Nel primo abbozzo delle Tesi d'aprile Lenin aveva intenzione di confiscare soltanto le terre dei grossi proprietari fondiari. Egli non voleva la realizzazione immediata del socialismo, ma piuttosto un passaggio sistematico, graduale, progressivo del controllo della produzione sociale e della divisione dei prodotti dalle mani dei privati a quelle dei soviet dei deputati operai e contadini. In pratica egli si rendeva conto della inadeguatezza della struttura economica russa per l'introduzione del socialismo. Al massimo prevedeva la confisca di quelle proprietà private la cui grandezza rendeva indispensabile un controllo e una gestione collettiva, sociale (ad es. le banche, le ferrovie, i zuccherifici, ecc.).

Questo approccio flessibile di Lenin subì una prima battuta d'arresto con lo scatenarsi della guerra civile, coll'interventismo straniero, col sabotaggio della borghesia (che, politicamente immatura, non seppe collaborare col nuovo regime). Per punire il sabotaggio si usarono appunto gli strumenti della confisca e della nazionalizzazione (queste disposizioni repressive durarono almeno sino al 1921). Peraltro, molte imprese vennero abbandonate dagli stessi capitalisti. Ancora lo Stato non aveva intenzione di estendere il settore pubblico, poiché non era in grado di gestirlo. "Noi abbiamo la ridicola pretesa di voler istruire i managers dei trusts borghesi del nostro Paese" -diceva Lenin, il quale cercava, frenando la fretta di espropriarle, di costruire un rapporto di fiducia con le forze economiche disposte a collaborare. In particolar modo egli escludeva l'uso della coercizione nei confronti del mondo contadino. L'unica "forza" da usare -diceva- doveva essere quella dell'"esempio", cioè della persuasione ragionata basata sulla prassi.

Anche nei confronti della piccola borghesia l'atteggiamento di Lenin era favorevole alle concessioni: non per "limitare" i compiti della rivoluzione -come credevano gli estremisti-, ma "come forma di transizione al socialismo per i diversi settori della piccola borghesia". Già nella primavera del 1918 Lenin aveva elaborato una nuova posizione verso la borghesia, considerata complessivamente. Egli infatti aveva chiesto e ottenuto che alla borghesia s'imponessero soltanto delle tasse periodiche e regolari sul reddito e sugli immobili, senza costringerla a esazioni supplementari.

Appena ristabilita la pace, Lenin volle tornare a cooperare con la borghesia proponendo la svolta della NEP. Egli affermò chiaramente che tale politica economica era in realtà la vecchia politica che i bolscevichi avevano cercato di realizzare subito dopo la rivoluzione e che venne impedita da cause di forza maggiore. Con ciò Lenin non voleva idealizzare l'importanza della proprietà privata, ma solo impedire che la si abolisse con metodi amministrativi, cioè con la forza. Essa piuttosto andava integrata nel processo naturale di transizione al socialismo.

Nel maggio 1918 Lenin arrivò persino a dire che il capitalismo di stato, dal punto di vista economico, era superiore all'economia sovietica di quel tempo. Più tardi egli sostenne che lo sviluppo delle cooperative avrebbe potuto accelerare la socializzazione economica della proprietà privata. Da questo alla parziale denazionalizzazione e alla richiesta di prestiti stranieri il passo fu breve. L'idea di Lenin in sostanza era quella di permettere alle due forme di proprietà di coesistere e di competere pacificamente, lasciando alla storia il compito di decidere quale delle due avrebbe meritato di sopravvivere e quale forma avrebbe assunto il futuro socialismo.

La differenza fra Lenin e gli altri bolscevichi, in questo senso, era considerevole e la ragione, probabilmente, è ancora lungi dall'essere compresa. Infatti la stragrande maggioranza dei leaders di punta del partito era convinta che la rivoluzione avrebbe permesso di edificare il socialismo senza perdere tempo. Viceversa, per Lenin la rivoluzione aveva soltanto inaugurato il lungo e graduale cammino verso il socialismo, nel senso cioè che la socializzazione dei mezzi produttivi non coincideva, stricto sensu, con la loro nazionalizzazione o statalizzazione, sebbene Lenin sia sempre stato convinto che il "vero socialismo" sarebbe nato passando soprattutto attraverso le organizzazioni statali.

Stalin non fece che portare alle estreme conseguenze le convinzioni di questi bolscevichi. A suo giudizio, infatti, la proprietà privata andava eliminata completamente, e non solo nell'industria, nel commercio e nell'edilizia, ma anche nell'agricoltura, ove la maturità socialista delle forze produttive era praticamente inesistente. Qualunque forma di proprietà pubblica veniva considerata, di per sé, migliore di qualunque forma di proprietà privata. Sulla base di questo assioma egli era convinto di poter fare dell'URSS uno dei principali granai del mondo.

Questa svalutazione unilaterale della proprietà privata, Stalin la desunse non dal marxismo, ma da quell'ideologia pseudo-socialista alla Dühring, il cui assoluto disprezzo della proprietà privata dipendeva dalla convinzione ch'essa di per sé fosse il frutto di una violenza dell'uomo sull'uomo, cioè una sorta di "peccato d'origine" che aveva contaminato l'intera umanità. Dühring era convinto che l'abolizione tout-court di questa ingiustizia avrebbe portato la felicità agli uomini.

Le obiezioni di Engels non vennero neppure prese in considerazione da Stalin. Come noto, Engels aveva sottolineato che le ingiustizie della proprietà privata risaltano soprattutto quando il sistema produttivo è in fase discendente, e che le masse sfruttate si sentono tanto più decise a realizzare la transizione al socialismo, non quanto più avvertono il senso di queste ingiustizie, ma piuttosto quanto più le collegano alla fine irreversibile del capitalismo, cioè alla fine delle illusioni sulla riformabilità di questo sistema. Le ingiustizie inerenti alla proprietà privata, in altre parole, non portano di per sé a concludere che sia necessario abolire quest'ultima, in quanto resta sempre da dimostrare ch'essa abbia smesso d'essere un fenomeno "socialmente normale" o che la produzione organizzata sulla base della proprietà sociale sia capace d'assicurare un rendimento superiore.

Viceversa, Stalin fece di tutto per eliminare anche la proprietà privata frutto del lavoro umano, la quale -a suo giudizio- avrebbe potuto generare il capitalismo quotidiano, in modo spontaneo e su vasta scala. La sola supposizione del pericolo era considerata sufficiente per impedire il formarsi di tale proprietà. Stalin, in sostanza, aveva una specie di concezione "a-temporale" della proprietà privata, in quanto applicava le conclusioni giuste di Lenin a condizioni del tutto diverse da quelle cui Lenin si riferiva.

Il realismo di Lenin era così maturo che prevedeva la transizione al socialismo anche attraverso ciò che in apparenza sembrava negarlo, per quanto -è bene sottolinearlo- egli intendesse soprattutto riferirsi a quella proprietà privata organizzata in forma cooperativistica. Il dogmatismo di Stalin invece era così forte ch'egli non solo eliminò ogni forma di cooperazione, ma guardò anche con sospetto gli stessi colcos, pur creati in conformità alle sue concezioni collettivistiche: egli infatti riteneva che i colcos fossero una forma di proprietà non "sociale" ma di "gruppo", e quindi una forma assai transitoria di produzione. Nell'opera Problemi economici del socialismo in URSS, l'esistenza dei colcos viene addirittura vista come un ostacolo al passaggio del Paese verso il comunismo.

La storia s'è poi fatta carico di dimostrare che è impossibile creare una proprietà sociale in forza di un atto amministrativo di socializzazione. Stalin quindi non solo abolì la proprietà "privata" ma anche quella "sociale", che può essere solo il frutto di un'organizzazione consapevolmente accettata dai lavoratori. Egli piuttosto aveva permesso la creazione della proprietà burocratica e statale, facendo così regredire notevolmente sia lo sviluppo economico del Paese, sia lo sviluppo teorico del marxismo.

La crisi (speriamo irreversibile) delle idee e della prassi staliniana è dipesa anche da questa regressione, cioè dalla forte crisi economica che ha colpito tutto il cosiddetto "socialismo reale", a partire dai primi anni '80, inoltre dalla generale insofferenza per i metodi dirigisti e amministrativi, per l'insensatezza di una proprietà statale che è insieme di "tutti" e di "nessuno", per il rigido dogmatismo ideologico, infine dalla costatazione che il capitalismo è un sistema capace di evolversi, di svilupparsi sotto la spinta delle pressioni esterne, grazie soprattutto alla rivoluzione tecnologica e a nuove modalità di sfruttamento neo-coloniale. Non solo quindi i fautori del socialismo devono abituarsi all'idea di dover convivere col capitalismo per un tempo indefinito, ma possono anche interiorizzare l'idea che una cooperazione economica e commerciale col capitalismo può tornare a vantaggio dello stesso socialismo.

Vediamo ora l'interpretazione del ruolo della violenza. Senza dubbio Lenin si appellò alla violenza nella sua politica. Dopo aver confiscato le terre ai grossi proprietari fondiari e ai monasteri, le diede ai contadini. I comitati dei contadini poveri, organizzatisi nell'estate del 1918, usarono la coercizione per espropriare ai kulaki 50 milioni di ettari (su 75-80 milioni di cui disponevano), ivi compresa l'attrezzatura tecnica e il bestiame. Moltissimi kulaki vennero addirittura eliminati nel corso della guerra civile. Ma in tutti questi casi si trattò di una violenza necessaria, inevitabile, una violenza "minore" per impedirne una "maggiore": i kulaki non avrebbero mai rinunciato spontaneamente allo sfruttamento di milioni di contadini.

Stalin invece, ispirandosi all'idea che una qualunque socializzazione è una forma di socialismo, iniziò verso la fine degli anni '20 una campagna senza precedenti di concentrazione dei contadini nei colcos, non esitando a sterminare fisicamente, civilmente e moralmente quanti si mostravano poco entusiasti verso questi provvedimenti. Naturalmente egli giustificava l'inasprimento della lotta di classe asserendo che nella società vi erano ancora degli elementi borghesi ostili al socialismo. Stalin fece suo il principio trotskista secondo cui quanto più si sviluppa il socialismo, tanto più aumenta la lotta di classe.

Come un rullo compressore egli distrusse almeno 3 milioni di nuclei familiari contadini (l'11-12% del totale), determinando un crollo incredibile della produzione: ad es. nel 1933 i bovini erano passati dai 58,9 milioni del 1916 ai 38,6 milioni; gli equini erano passati da 35,1 milioni a 16,6 milioni; gli ovini e i caprini da 115,2 milioni a 50,6 milioni; i suini da 20,3 milioni a 12,2 milioni. Una terribile fame cominciò immediatamente a decimare milioni di persone. Ufficialmente si disse che questo fu un prezzo necessario al progresso della società (dati e statistiche erano ovviamente manipolati).

Non che, in effetti, mancassero dei successi qualitativi e quantitativi nel campo industriale, ma, molto probabilmente, essi si sarebbero verificati anche senza lo stalinismo: anzi c'è da credere che lo sarebbero stati in misura assai maggiore e comunque senza un prezzo così alto da pagare. Peraltro è da poco che si sono cominciati a confrontare i risultati dell'industrializzazione sovietica sotto Stalin con quelli dei Paesi che in quegli stessi anni registravano importanti successi economici: prima ci si limitava a confrontare i risultati sotto lo stalinismo con il livello di sviluppo della Russia del 1913. Ebbene, se si guardano anche soltanto i valori della produzione pro-capite del ferro, dell'acciaio e dell'elettricità di Paesi come USA, Gran Bretagna e Germania, nell'arco di tempo che va dal 1913 al 1937, si noterà che gli indici corrispettivi dell'URSS registravano un incremento del tutto irrisorio.

In tutti i Paesi del mondo, l'acciaio, il ferro, il petrolio, il cemento non vengono prodotti, normalmente, per un fine in sé, ma per incrementare la ricchezza generale del Paese, fissata dal valore del reddito nazionale (il che ovviamente non impedisce la speculazione capitalistica). Stalin invece non amava questo indice sintetico dell'attività economica. Di "crescita del reddito nazionale" o non ne parlava affatto, oppure ne parlava usando formule assai vaghe, in virtù delle quali era impossibile mettere in discussione gli incredibili incrementi sostenuti in sede ufficiale. Facciamo un esempio: secondo calcoli scientifici, il reddito nazionale in URSS è aumentato di 6-7 volte dal 1928 al 1985; secondo i calcoli staliniani il reddito era incrementato del 50% dal 1929 al 1941! I dati ufficiali, peraltro, non prevedevano alcun indice per verificare l'effettiva qualità dei progressi.

Guardato più da vicino, il modello staliniano non solo era poco efficiente ma anche molto dispendioso. Esso si è retto in piedi sia con l'uso smisurato della violenza, sia con la grande quantità di risorse naturali dell'URSS. Praticamente la miseria veniva giustificata con le enormi spese per la difesa e l'industrializzazione. Quest'ultima, in definitiva, non aveva altro scopo che se stessa, non la ricchezza del Paese. In che modo infatti può arricchire una nazione se ad es. la produzione di legumi non marcia di pari passo con la loro trasformazione agro-industriale? L'assillo fondamentale dello stalinismo era lo stoccaggio, cioè le riserve alimentari degli ammassi, ove metà circa della produzione finiva col deteriorarsi, e una parte dell'altra metà veniva esportata per ottenere valuta pregiata con cui finanziare l'industrializzazione. Questo era il modo di vincere la fame!

Nell'interpretazione del ruolo della violenza -per tornare all'argomento in oggetto- Stalin era debitore di Dühring, per il quale "le condizioni politiche sono la causa decisiva della situazione economica", mentre l'opposto ha un valore secondario. L'elemento primario sta nella "forza politica immediata", diretta, e non tanto nel "potere economico indiretto".

Non a caso per Stalin la coerenza di un'idea politica meritava d'essere applicata anche con la forza, se necessario. Egli non riuscì mai a comprendere i diversi gradi di maturità della proprietà privata e ne distrusse tutte le forme senza preoccuparsi di sapere se esse avevano fatto il loro tempo. Proprio come Dühring, Stalin aveva una visione feticistica del socialismo, utile per realizzare una giustizia astratta, extratemporale.

Engels era sicuramente più realista. Per dimostrare che lo stato economico di una nazione non può dipendere anzitutto dalla violenza politica, scelse come esempi quello di Federico Guglielmo IV, il quale, dopo il 1848, non riuscì, malgrado il suo potente esercito, a eliminare le corporazioni medievali nel suo Paese e altre sopravvivenze romantiche a vantaggio delle ferrovie, delle macchine a vapore e della grande industria; nonché quello dello zar di Russia, coevo dell'imperatore tedesco, che, pur essendo ancora più potente, non era capace di pagare i debiti del suo Paese, ed anzi aveva bisogno dell'appoggio finanziario dell'Europa occidentale per poter continuare a usare la propria violenza. A giudizio di Engels, questi esempi dovevano essere sufficienti per dimostrare che la politica economica fondata sulla violenza conduce solo al fallimento.

Stalin era così ignorante in materia economica che, a suo giudizio, l'indice principale dello sviluppo del socialismo non era la produttività del lavoro, il benessere sociale o il grado di democrazia raggiunto dalla società, bensì il livello di socializzazione amministrativa della produzione, per la quale contavano assai poco le qualità professionali. Nel 1936 egli dichiarò apertamente al congresso straordinario dei soviet, che era stata realizzata la prima fase (quella inferiore) del comunismo, ovvero il socialismo, nei suoi aspetti essenziali. In pratica egli aveva decretato il "socialismo" giuridicamente, consacrandone la sua riuscita nella Costituzione dello stesso anno. La proprietà socialista (statale, colcosiana e cooperativistica) costituiva il 98-99% di tutta l'economia nazionale. Non era neppure il caso di parlare -come faceva Lenin- di transizione al socialismo con il concorso indispensabile del proletariato internazionale. Un socialismo come quello staliniano, rozzo e primitivo, poteva benissimo essere edificato in un solo Paese.

Il mercato e la legge del valore smisero immediatamente d'essere i regolatori della produzione. Il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà in pratica si era già realizzato contro la tesi di Marx, secondo cui "il regno della libertà comincia soltanto là dove si smette di lavorare per necessità e condizioni imposte dall'esterno; e, come tale, esso si pone, per natura, al di là della sfera di produzione materiale propriamente detta".

L'atteggiamento negativo di Stalin verso la legge del valore e il mercato è chiaramente riscontrabile nella sua opera, già citata, Problemi economici del socialismo in URSS, apparsa nel 1952, ma anche nel Manuale d'economia politica, edito nel 1954, da lui ispirato, al pari del Breve corso di storia del Pc (b) del 1939. Nel testo sui Problemi economici, Stalin attaccò gli economisti Venger e Sanina, accusandoli di non comprendere il significato della circolazione delle merci sotto il socialismo, che va considerata incompatibile con la transizione al comunismo.

Quanto al manuale d'economia, esso afferma categoricamente che il lavoro già riveste nel socialismo un carattere immediatamente sociale, per cui la legge del valore non si applica all'economia socialista allo stesso modo dell'economia capitalista. La nozione di "valore" -secondo tale manuale- è troppo "immateriale" per essere utilizzabile. Infatti il calcolo del valore d'una merce socialista è una semplice operazione tecnica. È sufficiente calcolare -dice il manuale- le spese materiali di un determinato prodotto, dividere poi la somma ottenuta per il numero dei prodotti e il gioco è fatto. Il problema dell'equilibrio dell'offerta e della domanda non sussiste, poiché nel socialismo si ha una certezza a-priori che tutto quanto viene prodotto viene anche consumato nei tempi previsti, a prescindere dalle esigenze del consumatore.

Il risultato fu -come ben noto- una situazione d'impasse quanto alla formazione dei prezzi (troppo bassi, ad es., per quelli alimentari, per cui il mercato ufficiale era caratterizzato da cronica penuria e da file interminabili davanti ai negozi, mentre naturalmente prosperava quello in nero, a prezzi altissimi); enormi quantitativi di merci non acquistate perché ritenute di scarso valore qualitativo; ridottissime possibilità di scelta dei prodotti per il consumatore, ecc.

Oggi la perestrojka ha dimostrato che nel determinare il valore di una merce, il principio di sommare l'insieme delle spese individuali non ha senso laddove esiste un mercato. I prezzi non possono riflettere solo le singole spese, ma anche quelle "socialmente necessarie", altrimenti i prezzi finiranno col coprire spese superflue e coll'incoraggiare l'incuria, divenendo parte organica del meccanismo dello spreco. In fondo il socialismo amministrato è servito anche a dimostrare sul piano pratico l'impossibilità teorica verificata da Marx di dedurre il prezzo di una merce dal suo costo di produzione.

Le contraddizioni inerenti alla merce: tra valore d'uso e valore di scambio, tra lavoro astratto e lavoro concreto, tra lavoro individuale e sociale... non possono essere risolte semplicemente perché vengono ufficialmente abolite. Certo è che, perché il prezzo sia equilibrato al valore, cioè non troppo alto (altrimenti si rischia la sovrapproduzione), né troppo basso (altrimenti si rischia la recessione), occorre un rapporto paritetico tra fornitore e acquirente, un rapporto che non può essere gestito per via amministrativa o imposto dall'alto (non a caso fino ad oggi nel socialismo di stato il produttore ha sempre dominato il consumatore, anche se nei limiti stabiliti dal partito-Stato). Occorre in sostanza che i "collettivi", cui produttore e consumatore fanno parte, perseguano finalità analoghe e non contrapposte, come ad es. nel capitalismo, ove l'interesse del produttore è quello di indurre falsi bisogni nell'utenza per realizzare superprofitti con prezzi da monopolio.

Non solo, ma l'errata visione stalinista del carattere del lavoro condusse anche a un generale livellamento dei salari e degli stipendi. La valutazione del lavoro non era assolutamente legata al volume del prodotto finito, alla sua qualità e fruibilità. Si preferiva invece affermare che la settimana lavorativa di ogni rappresentante di una qualunque professione andava considerata più o meno uguale quanto al "valore", mentre ai mestieri più difficili si applicavano dei coefficienti particolari.

In sostanza, come la negazione della contraddizione esistente tra valore d'uso e valore tout-court della merce, rendeva teoricamente inutile la sua commercializzazione, così l'identificazione di lavoro concreto e astratto rendeva inutile la moneta, o comunque la sua caratteristica di equivalente universale. L'intero management dell'economia veniva basato su questa concezione non-mercantile. Stalin era categoricamente avverso a quell'uso dei rapporti mercantili-monetari che andasse al di là di una mera funzione di contabilità (salvo poi contraddirsi, in teoria, come quando al XVII congresso del partito criticò coloro che profetizzavano la fine graduale del commercio e la trasformazione del denaro a semplice unità di conto).

È sintomatico, in questo senso, il fatto che le sezioni del Capitale dedicati alla merce caddero subito in discredito. La tesi marxiana del doppio carattere del lavoro fu appunto sostituita da quella del carattere immediatamente sociale del lavoro nell'ambito del socialismo. Idea, questa, che ancora una volta trovava in Dühring la sua paternità. Fu lui infatti che per primo pensò di combinare la produzione immediatamente sociale con l'uso della legge del valore e delle relazioni merce-moneta, stabilendo il valore "giusto" o "reale". Una tesi che poi Engels giudicherà assurda.

Dühring in sostanza chiedeva di fissare un prezzo unico per ogni tipo di merce che corrispondesse alle spese medie di produzione, e prevedeva che, per la determinazione del valore e del prezzo, i cosiddetti "costi di produzione" avrebbero giocato il ruolo di stima della quantità necessaria di lavoro.

Stalin ereditò sia queste idee, formulate intorno agli anni '70 del secolo scorso, sia quelle egualitaristiche che Dühring elaborò relativamente alla distribuzione secondo il lavoro. Dühring diceva che in un contesto di socializzazione i salari dovevano essere più o meno equivalenti, a prescindere dall'effettiva produttività del lavoratore.

Al massimo Dühring prevedeva una "moderata dotazione supplementare" per il consumo a quei lavoratori che si distinguevano particolarmente per le loro capacità. Anche le sue idee riguardanti il denaro -quale mezzo di mera contabilizzazione di uno scambio naturale- vennero bene assimilate da Stalin. Persino l'idea di poter costruire il socialismo in un unico Paese era già stata formulata da Dühring.

Relativamente al denaro, già Engels avevano messo in guardia dai tentativi di realizzare l'idea folle di Dühring secondo cui il denaro si poteva trasformare in un mezzo per assicurare unicamente un consumo più o meno uguale, dopo aver abolito la sua funzione di equivalente universale. Engels aveva previsto che il denaro, considerato soltanto come un certificato per confermare il numero di ore che un individuo ha lavorato e che gli assicura il diritto di acquistare quella quantità di prodotti in cui s'è materializzata una quantità uguale di lavoro, non sarebbe stato un denaro destinato a durare nel tempo. "Il celibe che vive come un lord -dice Engels con un esempio nell'Antidühring-, felice e contento con i suoi 8 o 12 scellini al giorno, mentre il vedono, con 8 figli a carico, trova molto difficile campare con quella stessa somma... Ecco dunque l'occasione e il motivo di risparmiare da una parte e d'indebitarsi dall'altra... E siccome colui che risparmia è nella posizione di estorcere ai bisognosi un interesse, ecco... l'usura è ripristinata proprio con la moneta metallica funzionante come denaro". Engels spiegò inoltre che il risparmiatore "socialista" pretenderebbe, prima o poi, di veder trasformato il proprio denaro in una moneta convertibile.

Engels diceva che leggendo Dühring aveva l'impressione che del capitalismo andasse cambiato solo il modo di distribuzione e non anche quello di produzione. I criteri di "distribuzione", infatti - diceva Engels - si prestano di più alla fantasia dei teorici, danno di più l'impressione che la volontà politica possa fare qualunque cosa.

Per concludere, lo stalinismo ha insegnato, senza volerlo, all'umanità che, anche in presenza di una proprietà "sociale" vi possono essere diversi tipi di socialismo. Non è assolutamente sufficiente, per garantire la presenza del socialismo democratico, limitarsi alla nazionalizzazione dei beni di produzione e di distribuzione. Proprietà "statale" non vuole affatto dire proprietà "sociale", cioè di tutti e di ciascuno in particolare. Vi era la proprietà "statale" dei mezzi produttivi anche nei regimi di Pol Pot e di Ieng Sary, eppure chi si sentirebbe di dire che in Cambogia si cercò di realizzare il socialismo democratico? Si può forse imporre la "verità" del socialismo negando agli uomini ogni forma di libertà? E di quale "verità" si può parlare se proprio mentre la si applica la si nega?

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015

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