Voltaire: le Lettere filosofiche

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Voltaire: le Lettere filosofiche

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Giuseppe Bailone

Il 10 giugno 1734, il Parlamento di Parigi pronuncia una sentenza contro un libro “scandaloso, contrario alla Religione, ai buoni costumi e al rispetto dovuto ai Poteri”, un libro che va “lacerato e bruciato nella corte del Palazzo di Giustizia, ai piedi della grande scalinata, dall’Esecutore dell’Alta Giustizia”.

Si tratta delle Lettere filosofiche,con le quali Voltaire, ormai quarantenne e celebre scrittore teatrale e satirico, apre la battaglia culturale che farà di lui l’esponente più famoso e più autorevole del movimento illuminista francese.

Voltaire, nome d’arte di François-Marie Arouet, nasce a Parigi nel 1694 in una famiglia borghese, nella Francia del re Sole e di un’aristocrazia ormai ridotta nei suoi poteri politici, ma ancora in possesso dei suoi privilegi sociali. Il padre, giansenista, è notaio e, grazie all’acquisto d’importanti uffici fiscali, occupa una posizione elevata nella burocrazia del regno. Voltaire frequenta una delle migliori scuole di Parigi, il collegio gesuita “Louis le Grand”, dal quale escono i quadri della classe dirigente. La passione per la letteratura, però, lo porta a deludere le speranze del padre, che sogna per lui un grande avvenire in campo giuridico e nell’amministrazione dello Stato. Il giovane Voltaire frequenta i salotti parigini e manifesta presto una forte inclinazione per la vita brillante dell’alta società. L’incontro con esponenti del mondo libertino ed epicureo segna profondamente la formazione della sua visione del mondo. Poco più che ventenne conosce il successo per le sue prime opere letterarie di tipo tragico. Diventa celebre, viene esaltato come successore del grande Racine, e i migliori ambienti aristocratici se lo contendono; ma impara presto, e duramente, quanto venga considerato a Parigi un borghese, anche se geniale, nell’opinione della nobiltà. Nel 1726, uno dei massimi gentiluomini di Francia, il cavaliere di Rohan, ritenutosi offeso da una sua battuta sarcastica, lo fa bastonare dai suoi servi; Voltaire reagisce d’impulso e sfida a duello il nobiluomo, violando la norma che vieta a un semplice borghese, per quanto famoso per meriti letterari, di mettersi al livello di un aristocratico in una sfida al duello; il potente aristocratico lo fa imprigionare. Non è la prima volta che Voltaire finisce alla Bastiglia: già nel 1717 aveva soggiornato nella celebre prigione per due epigrammi velenosi che alludevano ai costumi dissoluti del reggente con sua figlia. Adesso, la sua fama letteraria gli alleggerisce di molto la detenzione: il direttore del carcere, suo ammiratore, lo vuole tutti i giorni alla sua tavola e gli garantisce condizioni di studio sereno; ma, può uscire dal carcere solo a condizione di lasciare Parigi per tre anni, per non dare fastidio al cavaliere di Rohan.

Voltaire, non volendo vivere in provincia, decide di andare in volontario esilio in Inghilterra, “una nazione di filosofi” dove “si pensa liberamente e valorosamente, senza essere trattenuti da servili paure”, come scrive a un amico nell’estate del 1726.

A Londra compie esperienze decisive per la sua formazione, già orientata dall’incontro giovanile con la cultura libertina: conosce un sistema politico e sociale molto più dinamico e libero di quello francese; verifica il potere dell’opinione pubblica, ancora latente in Francia, e si rende conto di quanto sia importante tenerne conto per le battaglie culturali e politiche; familiarizza con una filosofia che ha in Bacone, in Locke e in Newton i suoi modelli.

Nel 1728, tornato in Francia, condensa nelle Lettere filosofiche le riflessioni maturate nel corso di quell’esperienza. Queste, pubblicate nel 1734, orientano il pensiero illuminista non solo francese.

Di queste Letterela pagina più celebre è quella che, nella sesta lettera, illustra la Borsa di Londra, sottolineando il legame tra la tolleranza religiosa e la libertà economica che caratterizza quella nazione e che a lui sembra il fondamento di una convivenza civile esemplare.

“Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corti; vi trovate riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le nazioni. Là, l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta; là, il presbiteriano si fida dell’anabattista, e l’anglicano accetta la cambiale del quacchero. Uscendo da queste libere e pacifiche riunioni, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; questo va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; quello fa tagliare il prepuzio di suo figlio e fa mormorare sul bambino parole ebraiche che non comprende; altri vanno nella loro chiesa col cappello in testa ad attendere l’ispirazione divina, e tutti sono contenti.

Se in Inghilterra ci fosse una sola religione, ci sarebbe da temere il dispotismo; se ce ne fossero due, si scannerebbero a vicenda; ma ce n’è una trentina, e vivono felici e in pace”.

“Questo – scrive nella lettera V – è il paese delle sette. Un inglese, in quanto uomo libero, sale in Cielo seguendo la via che preferisce”. E questa libertà, come spiega nella lettera X, ha radici solide: “Il commercio, che ha arricchito i cittadini inglesi, ha contribuito a renderli liberi, e questa libertà ha a sua volta sviluppato il commercio; da ciò si è formata la grandezza dello Stato”.

Con la lettera VIII, Sul parlamento, descrivendo il sistema politico britannico, Voltaire completa la presentazione del suo ideale borghese, aggiungendo al legame fra tolleranza religiosa e libertà economica il principio di una giustizia uguale per tutti.

Un confronto tra l’antica Roma e l’Inghilterra, scrive, risulta “interamente favorevole a quest’ultima: il frutto delle guerre civili a Roma è stata la schiavitù, quello dei torbidi inglesi la libertà. La nazione inglese è la sola al mondo che sia riuscita a disciplinare il potere dei re, resistendogli, e che, sforzo dopo sforzo, abbia alla fine stabilito questo saggio governo in cui il principe, onnipotente per fare il bene, ha le mani legate per fare il male, in cui i nobili sono grandi senza insolenza e senza vassalli, e in cui il popolo partecipa al governo senza confusione”. Tutti sono soggetti a una sola giustizia e a imposte in rapporto alla loro ricchezza. “Stabilire la pace in Inghilterra è costato indubbiamente fatica; l’idolo del potere dispotico è stato annegato in mari di sangue, ma gli Inglesi non pensano di aver acquistato buone leggi troppo a caro prezzo. Le altre nazioni non hanno conosciuto minori sconvolgimenti, né hanno versato meno sangue di loro; il sangue che hanno sparso per propria libertà però non ha fatto altro che rinsaldare la loro schiavitù. […] Le guerre civili in Francia sono state più lunghe, più cruente, più feconde di delitti di quelle inglesi, ma di tutte queste guerre civili, nessuna ha avuto come obiettivo una saggia libertà. […] Quello che viene maggiormente rimproverato in Francia è il supplizio di Carlo I, che venne trattato dai suoi vincitori come lui stesso li avrebbe trattati se avesse vinto. In definitiva, pensate da un lato a Carlo I sconfitto in campo aperto, imprigionato, giudicato, condannato a Westminster, e dall’altro all’imperatore Enrico VII avvelenato mentre faceva la comunione dal suo cappellano,1a Enrico III assassinato da un monaco,2strumento del furore di tutto un partito, trenta attentati progettati contro Enrico IV, molti compiuti, e l’ultimo che infine priva la Francia di quel grande re.3Soppesate questi delitti, e poi giudicate”.

È valsa la pena, per gli Inglesi, pagare il carissimo prezzo di una rivoluzione.

Nel confronto tra il sistema inglese e quello francese Voltaire non esita a schierarsi con quello britannico.

Nella lettera XIII, Locke è lo “spirito più saggio, più metodico, logico e coerente”, è colui che “ha chiarito all’uomo la ragione umana, come un eccellente anatomista spiega i meccanismi del corpo umano”; Cartesio, invece, “nato per scoprire gli errori dell’antichità, per poi sostituirvi i propri” è “spinto da quello spirito sistematico che acceca gli uomini migliori”.

La lettera XIV è dedicata a “due grandi uomini”, Cartesio e Newton, “molto diversi nei loro comportamenti, nel loro destino e nella loro filosofia”.

“Descartes era nato dotato di un’immaginazione forte e vivace, che fece di lui un uomo originale nella sua vita privata così come nel suo modo di ragionare; quell’immaginazione non poté tenerla nascosta nemmeno nelle opere filosofiche, nelle quali s’incontrano a ogni momento paragoni ingegnosi e brillanti; la natura aveva fatto di lui quasi un poeta […]. Provò per qualche tempo il mestiere della guerra, e in seguito, consacratosi interamente alla filosofia, non ritenne indegno darsi alla galanteria. Ebbe dalla sua amante una figlia di nome Francine, che morì giovane e di cui egli rimpianse molto la perdita; cosicché egli sperimentò tutto ciò che concerne l’umanità”. Andò in Olanda in cerca della verità, ma anche lì ebbe persecuzioni e “subì accuse di ateismo, estrema risorsa dei calunniatori”.

Newton “ visse ottantacinque anni, sempre tranquillo, felice e onorato nella sua patria. La sua grande fortuna è stata non solo di essere nato in un paese libero, ma in un’epoca in cui, bandite le stupidaggini scolastiche, solo la ragione veniva coltivata, e il mondo non poteva essere altro che suo allievo, e non suo avversario. […] Nel corso di una vita tanto lunga, non ha conosciuto né passioni né debolezze; non ha mai avuto nessuna donna: circostanza che mi stata confermata dal medico e dal chirurgo tra le braccia dei quali è morto. Si può per questo ammirare Newton, ma non si deve biasimare Descartes.

In Inghilterra l’opinione dominante sui due filosofi è che uno era un sognatore, l’altro un saggio”.

Per Voltaire il giudizio degli Inglesi su Cartesio è ingiusto perché non gli riconosce i grandissimi meriti in matematica e quello d’aver introdotto “lo spirito di geometria” nelle scienze. Tuttavia Voltaire non nega i suoi molti errori: “La geometria era una guida che egli stesso aveva in certa misura formato, che sicuramente lo avrebbe guidato nelle sue ricerche di fisica; ma alla fine egli si allontanò da quella guida e si abbandonò allo spirito di sistema. Da allora la sua filosofia non fu altro che un romanzo ingegnoso, e tuttalpiù verosimile per gli ignoranti. […] Spinse gli errori metafisici fino a pretendere che due più due fa quattro soltanto perché Dio ha voluto così. Ma non è esagerato dire che egli era degno di stima anche nei suoi spropositi: si sbagliò, ma almeno ciò avvenne con metodo, e con coerenza; distrusse le assurde chimere con cui s’imbonivano i giovani da duemila anni; insegnò agli uomini del suo tempo a ragionare, e a servirsi delle sue armi anche contro di lui. […] Descartes diede la vista ai ciechi; questi videro gli errori dell’antichità e anche i suoi. Il cammino che egli aprì è divenuto, dopo di lui, immenso”.

Voltaire, nonostante la forte anglofilia, riconosce a Cartesio il grande merito di aver avviato quella che è adesso la sua battaglia per il trionfo della ragione.

L’ultima lettera, la più lunga, è dedicata all’altro grande genio francese del secolo precedente, Pascal. In essa, Voltaire critica alcuni dei suoi Pensieri.

“Mi sembra – scrive come premessa alla sua analisi critica – che, in generale, l’animo con cui Pascal scrisse i Pensieri fosse di mostrare l’uomo sotto una luce odiosa. Si accanisce a dipingerci come se fossimo tutti cattivi e infelici. Scrive contro la natura umana all’incirca come contro i gesuiti: imputa all’essenza della nostra natura quanto appartiene soltanto ad alcuni uomini; con eloquenza scaglia ingiurie contro il genere umano. Io oso prendere le difese dell’umanità contro questo sublime misantropo; oso sostenere che non siamo né così cattivi né così infelici come dice lui”.

La battaglia illuminista è incompatibile con il pessimismo antropologico giansenista di Pascal: “L’uomo – scrive Voltaire a commento di un pensiero di Pascal sulla natura incomprensibile dell’uomo – non è un enigma […]. L’uomo sembra essere al suo posto nella natura, superiore agli animali, cui assomiglia per quanto riguarda gli organi; inferiore ad altri esseri cui probabilmente assomiglia a causa del pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, composto di male e di bene, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni”. Se avesse ragione Pascal, l’impegno illuminista sarebbe vana presunzione e illusione.

A Voltaire, nato in ambiente giansenista, l’antropologia pascaliana doveva essere familiare, anche se il giansenismo del padre, François Arouet, doveva essere piuttosto elastico e compatibile col suo desiderio di affermarsi nel mondo in posizione sociale elevata e di inserirvi con successo anche il figlio: non gli ha, infatti, impedito di mandare il figlio alla scuola dei “nemici” gesuiti.

Forse, in questi conti che Voltaire fa con la filosofia di Pascal ci sono, almeno in parte, anche quelli con la cultura familiare.

Pascal è, del resto, un autore con il quale Voltaire si è misurato presto: nelle giovanili Annotazioni su Pascal egli respinge la condanna pascaliana dell’amor proprio e del divertissement. Sono le passioni che Pascal condanna a spingere l’uomo ad agire e a realizzarsi in questo mondo. Voltaire si oppone a quel distacco dalle cose tanto caro a Pascal: “La nostra condizione è precisamente quella di pensare agli oggetti esterni con i quali abbiamo un rapporto necessario. È falso che si possa distogliere un uomo dal pensare alla condizione umana; giacché a qualsiasi cosa egli applichi il suo spirito, l’applica a qualcosa che si connette alla condizione umana. Pensare a sé, facendo astrazione dalle cose naturali, è non pensare a niente: io dico assolutamente niente, si badi bene”. Per Pascal la ricerca di Dio esige il distacco dal mondo, per Voltaire l’idea di Dio impegna l’uomo a realizzare in questo mondo l’ordine della ragione.

Note

1 In realtà Enrico VII morì per febbre a Buonconvento, presso Siena nel 1313.

2 Il partito è quello della Lega cattolica creata nel 1576 e capeggiata dai Guisa.

3 Voltaire aveva già espresso la sua ammirazione per Enrico IV, che mise fine alle guerre di religione e fece il famoso editto di Nantes nel 1598, nel poema epico L’Enriade(1727).

Torino 3 marzo 2014

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

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Aggiornamento: 26-04-2015