ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


Elementi per un'ecologia socialista

I - II - III - IV

Capitolo 2 

Sviluppo sostenibile, ideologia borghese

2.1. Origine delle ipotesi di sviluppo sostenibile

La crisi ecologica, è divenuta elemento di controverse valutazioni soltanto a partire dalla crisi petrolifera degli anni ’70, allorché fu possibile cogliere inequivocabilmente - qualora ve ne fosse realmente bisogno - i limiti di alimentazione a spese delle risorse naturali del modo di produzione capitalistico, non in grado di consentirsi un’autonoma rigenerazione. Prima di allora era opinione diffusa, anche nell’immaginario collettivo, che il concetto di "finitezza" della terra fosse intrinsecamente legato solo allo scontro atomico tra le due superpotenze, evenienza non scartabile e di cui si ammetteva l’irreversibilità della soluzione finale.

La dura realtà dell’esplosione di una contraddizione così forte nel cuore stesso del sistema, ha indotto le forze borghesi ad ipotizzare una rimodulazione dello sviluppo - come era stato del resto necessario fare in altre fasi storiche -, su di un substrato teorico di tutela per il mercato che riuscisse a garantirne l’autoriproduzione in un rapporto con l’ambiente naturale. L’idea centrale di questo sforzo teorico si fondava comunque sullo "sviluppo", cioé sulla crescita "a prescindere".

La definizione di "sviluppo sostenibile" fece rapidamente il giro del mondo sul finire degli anni '80, giungendo in Italia non proprio come un fulmine a ciel sereno ma come risultato di una linea di tendenza già tracciata da diverso tempo e che aveva il suo manifesto nel lavoro del Club di Roma I limiti dello sviluppo. Veicolo del messaggio, in questo caso, fu il lavoro della World Commission Environment and Development, Our common future, Ginevra, 27 aprile 1987, tradotto in italiano con il titolo Il futuro di noi tutti. Rapporto della Commissione per l’ambiente e lo sviluppo, Bompiani, Milano 1988. L’elemento nuovo in questo lavoro, era dato dalla definizione di "sostenibilità" dello sviluppo che ne identificava la natura nella capacità di garantire il soddisfacimento dei bisogni delle attuali generazioni, in modo da rendere disponibili per le generazioni future, risorse e condizioni tali da soddisfare i propri. In contrapposizione, per "insostenibilità", in termini ecologici, si indicherebbe quindi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali non rinnovabili (petrolio, minerali ecc.), determinandone un esaurimento in tempi brevi, ed una sottrazione talmente rapida di quelle rinnovabili (foreste, risorse idriche, suolo coltivato ecc.) dall’ambiente, così da superarne la capacità rigenerativa.

In presenza di un incremento demografico nella misura di 80 milioni di nuovi abitanti sul pianeta in un solo anno, si sarebbe realizzata una crescita, in definitiva, insostenibile, sia per i suoi aspetti ecologici, sia perché potenzialmente ritenuta capace di scatenare guerre tra stati per l’accaparramento delle risorse residue e flussi migratori massicci ed incontrollabili. D’altro canto, la crescita esponenziale della popolazione mondiale era già un dato acquisito da tempo. "Il terzo quarto del XX secolo ha assistito a una radicale trasformazione delle tendenze demografiche via via che il tasso di mortalità globale scendeva decisamente, mentre rimaneva alto il tasso di natalità. Durante i primi quindici secoli dell’era cristiana la popolazione mondiale aumentava dal 2 al 5% per secolo. Prima della seconda guerra mondiale erano pochi i paesi che avevano mai sperimentato un tasso di aumento naturale superiore all’1% all’anno. Oggi in alcuni paesi il tasso è compreso fra il 3 e il 4% all’anno, valore molto vicino al massimo biologico.

La crescita demografica al ritmo verificatosi dopo la seconda guerra mondiale è così recente che non abbiamo ancora avuto il tempo sufficiente per valutarne le conseguenze Occorre richiamare qui la legge della crescita esponenziale e la variazione delle conseguenze a lungo termine di tassi anche relativamente modesti di crescita della popolazione. Una popolazione che aumenti dell’1% all’anno aumenta del 270% in un secolo. Una popolazione che aumenta del 3% all’anno aumenta del 1900% in un secolo.

Il grande rischio è che l’umanità non riesca a prevenire le conseguenze della continua e rapida crescita di popolazione abbastanza presto per dominarla prima che si verifichi una catastrofe globale di qualche tipo. Anche chi è esperto in matematica spesso non arriva a valutare appieno la meccanica dei tassi di crescita esponenziale". (Lester R. Brown, Nell’interesse dell’umanità. I limiti della popolazione mondiale. Una strategia per contenere la crescita demografica. Biblioteca della Est Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori. Milano 1974).

2.2. Teorie sui limiti dello sviluppo; l’egoismo borghese di Malthus

Il concetto di "sviluppo sostenibile" trova legittimazione nella dimensione non "illimitata" delle risorse, cui corrisponde un aumento vertiginoso della popolazione. Storicamente il problema inizia a porsi non appena i primi uomini rinunciarono al nomadismo, divenendo stanziali e confrontandosi, come condizione per questa nuova scelta, con i limiti di rigenerazione naturali del territorio presso cui si stabilivano. Secondo Malthus, la limitata disponibilità di risorse naturali, la cui riproducibilità avveniva secondo un andamento aritmetico, cui corrispondono i ritmi geometrici di crescita della popolazione, pone la questione dell’esistenza di una "scarsità assoluta" delle risorse naturali (anche se riproducibili, come vegetali commestibili, animali d’allevamento, suolo fertile ecc.), indicate come variabili indipendenti, cui si contrappone la variabile dipendente rappresentata dall’incremento demografico.

La posizione di Malthus, tuttavia, non aveva neanche in origine una sua ragione ecologica, ma era tutta all’interno delle paure borghesi di ritrovarsi defraudati da altre classi sociali di quello che avevano strappato a monarchi e nobili. Se i poveri fossero aumentati troppo, avrebbero finito per accaparrarsi, nell’eterna lotta per la sopravvivenza, le risorse necessarie al mantenimento del benessere della borghesia. Quindi, per Malthus, si poneva la necessità di porre un freno all’incremento demografico, in particolare quello che riguardava i poveri.

Il diverso clima culturale della metà dell’800, in qualche modo, aveva determinato una critica feroce a Malthus ed all’egoismo borghese incarnato nel suo pensiero. Le conclusioni non intaccavano però la validità dei concetti biologici espressi da Malthus che furono anzi ulteriormente avvalorati da quelli di Justus von Liebig con la sua "legge del minimo". Per Liebig in un sistema ecologico i processi vitali vengono irrimediabilmente interrotti dalla mancanza di anche uno solo dei fattori essenziali per il loro mantenimento. Anche Darwin trae spunto dalle nozioni apprese da Malthus per evidenziare il ruolo della disponibilità delle risorse nel contesto evoluzionistico. "(...) la lotta per l’esistenza fra tutti i viventi ed in tutto il mondo, scaturisce necessariamente dalla loro elevata capacità di moltiplicarsi in ragione geometrica. E’ questa la dottrina di Malthus applicata all’intero regno animale e vegetale. Gli individui di ciascuna specie, che nascono, sono molto più numerosi di quanti ne possano sopravvivere e quindi la lotta per l’esistenza si ripete di frequente" (Charles Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale).

Ciò che comincia a delinearsi nelle convinzioni di molti è che l’equilibrio ecologico risponda a determinate leggi, prime fra tutte quella della capacità di carico e quella del minimo che, se valgono per i sistemi naturali, sono validi anche per i sistemi sociali ed economici che con l’ambiente hanno un rapporto di interscambio costante.

Se si considerano popolazioni umane primitive, dedite alla raccolta ed alla caccia con strumenti molto approssimativi, la capacità di riproducibilità di un territorio è funzione del tempo di stazionamento della comunità antropica. Tale riproducibilità è anche funzione delle risorse, che rappresentano la variabile indipendente, all’esaurimento delle quali gli uomini dovevano spostarsi, vivendo, quindi, una condizione nomade. Il territorio abbandonato aveva la possibilità di rigenerarsi in modo naturale, in quanto lo stile di vita nomade degli uomini poteva depauperarlo considerevolmente ma molto raramente ne intaccava la resilienza, cioè la capacità dell’ambiente di riprodurre le condizioni originarie. Per un dato territorio, anche molto vasto, che rimane stabile nella sua estensione, e per un gruppo umano primitivo, nel quale predomina l’evoluzione esclusivamente genetica e quindi il mantenimento di una ben precisa nicchia ecologica, le leggi di Malthus possono essere considerate valide. Tali leggi sono ancora valide quando ci si riferisce a società precapitalistiche, in cui non si pratica più la semplice raccolta ma forme più avanzate di nomadismo, come la pastorizia nomade e l’agricoltura estensiva itinerante. Anche per i membri di queste società era infatti impensabile ipotizzare di poter rimanere più a lungo di un certo periodo in una data area senza incorrere nella limitatezza delle risorse naturali. Abbandonata l’area, il ripristino delle condizioni di naturalità, ed il suo successivo ed eventuale ripopolamento, erano affidate interamente ad elementi naturali che potevano fare il loro corso in tempi relativamente brevi.

Non appena l’incremento della popolazione e la limitata disponibilità di aree nuove impediva che si realizzasse una rotazione delle colture, con pause nello sfruttamento del suolo sufficientemente lunghe per il ripristino di condizioni idonee alla realizzazione di un buon livello di vita (maggese), le comunità umane abbandonarono il nomadismo per divenire stanziali. Sempre per Malthus, a questo punto, l’incremento demografico, in quanto variabile dipendente, si sarebbe dovuto arrestare. Così non è stato. In realtà il passaggio dal nomadismo alla stanzialità fu reso possibile da un’evoluzione nelle tecniche di coltivazione sempre più rapida.

2.3. Le critiche a Malthus; la pressione antropica sull’ambiente

A mettere in relazione l’incremento demografico con l’evoluzione delle tecniche agricole è E. Boserup, che ritiene, a differenza di Malthus, che l’aumento della popolazione produca uno sfruttamento delle risorse più razionale ed un incremento di produttività del suolo. In altre parole, secondo Boserup, una condizione di crisi stimolava l’introduzione di nuovi strumenti tecnici sempre più sofisticati, producendo un incremento della produzione di beni di sussistenza delle donne e degli uomini, che seguiva l’andamento esponenziale dell’incremento demografico, talvolta superandolo. Il valore eccedente il prodotto che la comunità era in grado di smaltire, offriva la possibilità di creare nuove attività, come il commercio e la trasformazione. La visione ottimistica di Boserup, propone che l’incremento demografico produca di conseguenza anche un corrispondente incremento della produttività.

Sulla spinta delle nuove tecnologie, l’ambiente inizia a subire un processo di trasformazione importante, per consentire che un dato territorio aumenti la sua capacità di carico in risposta al notevole incremento demografico ed alle esigenze di miglioramento della qualità della vita. Molte specie animali e vegetali vengono semplicemente allontanate o direttamente distrutte dall’azione dell’uomo sugli ecosistemi attraverso due tipi principali di intervento:

a) azione diretta sulle specie, attraverso la caccia e la raccolta di vegetali commestibili a scopo alimentare, per ricavarne materia prima per la costruzione di utensili e manufatti sempre più perfezionati (avorio, ossa, pelli) e per proteggere le coltivazioni e gli allevamenti (abbattimento di animali erbivori, predatori carnivori, eliminazione di specie vegetali parassite di quelle commestibili o in competizione con queste);

b) azione indiretta, attraverso modificazioni radicali dell’ecosistema, come con il disboscamento, opere di canalizzazione e di deviazione del corso dei fiumi a scopi irrigui, costruzione di abitazioni, stalle, luoghi di stoccaggio per le derrate, opere di estrazione della pietra e di metalli.

Queste trasformazioni fisiche e biologiche delle realtà ambientali determinano a loro volta alcuni modelli di reazione naturale: la fuga degli animali dai luoghi a forte antropizzazione, in cui non si realizzano più le condizioni naturali idonee alla sopravvivenza della specie; la moltiplicazione spropositata di alcune specie animali e vegetali per la soppressione o l’allontanamento del predatore naturale; nel lungo periodo il manifestarsi di mutazioni genetiche che codificano per caratteri che rendono idoneo il permanere di specie animali e vegetali in ambienti non più naturali.

Le società sottoposte ad un rapido incremento demografico, divengono estremamente complesse e l’ottimismo di E. Boserup finisce col non essere più sufficiente a spiegare le trasformazioni rapidissime in atto. In particolare, la promessa di migliori condizioni di vita, spinge molta parte delle popolazioni delle campagne a concentrarsi nelle città a più alta industrializzazione, abbandonando le colture e provocando, come conseguenza, un degrado delle campagne. Quelle aree ancora coltivate vengono sempre più meccanizzate con due effetti principali: la riduzione drastica della manodopera bracciantile; la concorrenza devastante dei grandi proprietari terrieri che, in possesso di risorse economiche per introdurre tecnologie di meccanizzazione spinta delle colture e degli allevamenti, avrebbero determinato il rapido declino delle economie agricole a conduzione familiare. Le megalopoli crescono a dismisura attorno ai poli industriali e ad ogni possibile fluttuazione verso l’alto dei salari degli operai, coincide un adeguamento tecnologico che riduce la manodopera con un aumento esponenziale del plusvalore per unità di tempo lavorata ed un incremento consequenziale, a parità di ore lavorate, dei tassi di profitto, di accumulazione e di sfruttamento. Gli operai licenziati, in seguito all’introduzione di nuove tecnologie, andranno a costituire l’armata industriale di riserva che popolerà le grandi periferie urbane e suburbane, vivendo una condizione di povertà disperata.

Marx, valuta positivamente l’incremento demografico nelle società primitive perché questo corrisponde all’abbandono dello stile di vita tribale, ad una riorganizzazione sociale ed alla suddivisione dei compiti e del lavoro, ma poi, consapevole dei limiti di una crescita smisurata del modo di produzione capitalistico, pose l’accento sulla necessità di un riequilibrio città-campagna e di uno più complessivo alternativo agli obiettivi dalla società industriale capitalista: "Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula nei grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo (...) - e prima di ringraziare in nota Liebig per i suoi meriti immortali Marx continua - Ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità" (XIII cap. IV sez., I Libro del Capitale). Marx introduce quindi elementi di forte critica verso le ipotesi di sviluppo illimitato della società borghese, tanto più discutibili quanto più finalizzate alla produzione di merci, come già sottolineato, spesso inutili al soddisfacimento di bisogni sociali e collettivi.

2.4. Le società stazionarie

Il concetto di una società stazionaria o che, comunque, non si ponesse come unico obiettivo la crescita "a tutti i costi", veniva presentato come necessità oggettiva da Mill nel 1848. Secondo Mill la società deve rimanere stazionaria, non può, cioè, crescere oltre un certo limite di popolazione, così come i beni materiali vanno distribuiti in modo equo per impedire una loro crescita eccessiva che di fatto metterebbe a rischio gli equilibri sociali. Una società come quella industriale, era per Mill, un modello organizzativo che non poteva durare così com’era. "Io spero sinceramente per amore della posterità che, se la terra dovesse perdere quella beltà che deve alle cose, che un accrescimento illimitato di ricchezze e di popolazioni farebbe estirpare onde alimentarne una quantità maggiore, cosa aderirebbe a rimanersi stazionaria assai prima che la necessità ve la obbligasse. E’ superfluo osservare che una condizione stazionaria di capitale e di popolazione non implica uno stato stazionario di miglioramenti umani. Vi sarebbe sempre un altro scopo per ogni specie di cultura mentale, e pei progressi morali e sociali; vi sarebbe luogo, come prima, a perfezionare l’arte della vita e vi sarebbe eziandio più facilità per farlo". (John Stuart Mill, Principi di economia politica con alcune delle sue applicazioni alla filosofia sociale). Mill pone, quindi, il problema di quale "crescita", individuando fattori possibili di sviluppo estranei all’ideologia borghese dell’accumulazione, e non quantificabili monetaristicamente.

In questo contesto di critiche, sia alla crescita monetaristica, sia alle concezioni borghesi malthusiane, Marx ed Engels, nel Manifesto, affermano: "Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento di interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo: quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? La società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate." In poche righe Marx ed Engels pongono, con rara capacità di sintesi, la necessità di ricondurre al proprio valore fondamentale le variabili temporali sottolineando la vera essenza del concetto di sfruttamento. Introducono, quindi, un elemento centrale della questione, quello delle forze produttive, non ipotizzandone una distruzione assoluta in seguito alla violenza luddista, ma stimolando la ricerca di una separazione della tecnologia - e quindi della scienza - dal potere economico, perché possa assolvere al compito storicamente attribuitole di soddisfacimento dei bisogni sociali, consentendo un ridimensionamento della produzione di merci che non siano strettamente necessarie. Gli economisti capitalisti, considerano invece un bene l’incremento del tasso di accumulazione e valuteranno come conseguenza della ineluttabilità delle leggi naturali della "scarsità assoluta delle risorse" (Malthus), il peggioramento complessivo delle condizioni di vita.

Le ineluttabili leggi naturali vengono quindi contrapposte alle leggi storiche che regolano i modi di produzione. Si riscopre in modo ideologico e fazioso una presunta validità delle teorie malthusiane, soprattutto da parte di quegli economisti che si rifanno al modello Neoclassico, con la sua natura atomistica e meccanicistica. Il modello del liberismo neoclassico è infatti atomistico perché considera disgiunti tutti gli elementi del ciclo produttivo inteso in senso allargato. Risorse naturali, materie prime, forza lavoro, tecnologia, capitale, merci, domanda, offerta, scarti e rifiuti di produzione, vengono cioè interpretati come fattori del tutto indipendenti gli uni dagli altri. Questa visione contrasta in modo decisivo con l’evidenza di un rapporto intrinseco tra le attività umane ed il livello di trasformazione dell’ambiente, il grado di interdipendenza tra bioma e biotopo come elemento fondamentale nel mantenimento della condizione di equilibrio degli ecosistemi, la inelasticità dell’offerta (Keynes), e lo sviluppo tecnologico che è funzione delle mutate condizioni sociali, economiche e, non ultime, politiche e sovrastrutturali. Ma la natura meccanicistica dell’ipotesi neoclassica è altrettanto irrazionale ed inaccettabile perché non esiste possibilità alcuna di consentire una reversibilità del processo produttivo. "... l’uomo non può ne creare ne distruggere materia o energia.

Questa però è solo una metà della storia, la metà raccontata dalla meccanica, modello prediletto dalla maggior parte degli studiosi di scienze sociali: le risorse naturali, però, non sono costituite da sola materia e sola energia, ma da materia organizzata in strutture ben precise, e da energia disponibile. La materia-energia che costituisce le risorse naturali è qualitativamente diversa da quella che forma lo scarto: quella delle risorse naturali è organizzata secondo schemi ordinati o, come dicono i fisici, ha bassa entropia: negli scarti troviamo solo disordine, cioè alta entropia. E non è tutto: la seconda legge della termodinamica ci dice che tutto l’universo è soggetto a una degradazione qualitativa continua: l’entropia aumenta, e tale aumento è irreversibile. Di conseguenza, le risorse naturali possono attraversare il processo economico solo una volta: lo scarto rimane irreversibilmente uno scarto" (N. Georgescu-Roegen).

L’introduzione dell’elemento entropico, cioè della misura del disordine secondo la Termodinamica, risulta decisiva nello smantellare le teorizzazione neoclassiche circa la possibilità che un semplice sistema di prezzi, estranei alla contabilità ecologica (fondata sugli equilibri e non sulla crescita come nei sistemi economici mercantili), possa riequilibrare le situazioni di "crisi" nelle società a capitalismo avanzato. Una società fondata sulle regole dell’economia mercantile, e quindi sulle logiche di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, può essere gestita soltanto attraverso strumenti coercitivi di natura sia fisica che ideologica.

2.5. La scarsità delle risorse

Di tanto in tanto il dibattito che contrappone società stazionaria e sviluppismo rientra in gioco come in una sorta di fenomeno carsico, sino alle ultimissime elaborazioni sullo sviluppo sostenibile di cui si è fatto cenno e che, di fatto, riproducono il modello capitalistico di crescita, limitandosi ad introdurre alcuni correttivi di tipo ecologico. In questo momento, tuttavia, occorre chiedersi se un livello organizzativo sociale, politico ed economico mercantile può sopportare una crescita illimitata. Ciò che è opportuno fare è qualificare le risorse necessarie ai processi produttivi per comprendere, in ultima analisi, come sia possibile applicare a queste il concetto di sviluppo sostenibile. Dobbiamo innanzitutto fare una distinzione tra risorse permanenti e risorse non permanenti.

Si definiscono risorse permanenti quelle risorse che non diminuiscono nel tempo nonostante vengano utilizzate per le attività umane. Il prelievo di una risorsa permanente può avvenire in eterno, di essa ve ne sarà sempre disponibilità, di conseguenza non sarà mai il fattore limitante né di un processo economico né di uno ecologico. Tra queste possiamo annoverare l’energia solare, quella eolica, delle maree... Le risorse non-permanenti invece non sono sottoponibili ad un prelievo indiscriminato perché rischierebbero di esaurirsi e per esse vale la "legge del minimo" di Liebig.

Le risorse non-permanenti possono essere suddivise in non-permanenti riproducibili e non riproducibili. Le prime sono quelle che l’ambiente naturale può riprodurre durante processi di rigenerazione (foreste, fertilità del suolo, risorse ittiche); le altre sono quelle su cui si è incentrato maggiormente il dibattito in quanto elementi potenziali di crisi sia del sistema economico, sia di quello ecologico (le miniere, i combustibili fossili, fauna e flora in via di estinzione). Riferito alle risorse, il concetto di scarsità individua la loro disponibilità in rapporto al consumo previsto che se ne farà in un determinato arco di tempo, anche considerando alcune variabili, non quantificabili ma prevedibili, come la tendenza dei processi produttivi alla dematerializzazione, le migliorate condizioni di prospezione mineraria, la possibilità che una merce ottenuta con determinate materie prime possa essere soppiantata da altre prodotte con materie prime più comuni, l’ottimizzazione degli impianti...

Di particolare importanza sono i processi di dematerializzazione delle merci. La tecnologia informatica ed in genere tutte le innovazioni tecnologiche, hanno consentito di risparmiare molto sui materiali: se confrontassimo un’automobile di vent’anni fa con una di categoria simile di oggi, ci accorgeremmo dell’enorme differenza di peso; se poi pensiamo che fino a qualche anno addietro occorrevano migliaia di tonnellate di cavi telefonici per telefonare dall’altra parte dell’oceano ed oggi, invece, è sufficiente un satellite del peso poco superiore ai due quintali, ci rendiamo conto di come tra gli sviluppisti si sia complessivamente diffuso un certo ottimismo nel voler considerare praticabile un’ipotesi di crescita secondo le leggi del mercato, al riparo cioè dai vincoli posti dagli elementi naturali. In questa valutazione ottimistica, alcuni dei fattori di cui non si tiene assolutamente conto sono la limitatezza delle risorse alimentari e il già sottolineato fattore entropico, aspetti che verranno dettagliati in seguito in questo stesso lavoro.

2.6. Le ambiguità dello sviluppo sostenibile

Una delle cose più chiare in questo contesto è la non chiarezza del termine sviluppo, che non rappresenta un principio strategico o un programma attuativo, ma piuttosto un modo di pensare. Pensare lo sviluppo è possibile attraverso la conoscenza, la cui detenzione è esclusivamente nelle mani del potere. Il dibattito sullo sviluppo, comunque si voglia interpretarlo, ha, cioè, precisi attori sociali procedendo ad escludendum degli altri. Gli "altri" sono di converso i non-detentori del potere, le classi sociali non-borghesi ed i popoli dei P.V.S. che non hanno libero accesso né ai luoghi deputati alla decisione, né, tantomeno, alla conoscenza. Una delle cose che però colpisce maggiormente del concetto di "sviluppo", è la sua capacità storica di inglobare illimitatamente, prospettandone una soluzione, tutto ciò che di volta in volta viene ad essere indicato come "il problema". In passato questa operazione ha dimostrato tutto il suo valore mistificante, il suo vuoto siderale.

La crisi delle campagne, il peggioramento complessivo delle condizioni di vita dei contadini, avevano messo in moto le ipotesi sviluppiste che si sono concretizzate, nei primi anni ’70, con l’elaborazione delle strategie di "sviluppo rurale". E’ utile ricordare che da quelle teorizzazioni lo squilibrio città-campagna si è accresciuto enormemente, soprattutto perché per "sviluppo rurale" si concepì il trasferimento tout court del modo di produzione urbano nelle campagne. Prima di allora comunque si era discusso di "sviluppo sociale", poi miseramente naufragato nelle concezioni riformiste del "welfare state", di "sviluppo uguale", ecc. In presenza di eventi drammatici ed anticipatori di catastrofi inaudite, gli sviluppisti tirano fuori dal loro cilindro magico, un nuovo concetto, lo "sviluppo sostenibile", la cui consacrazione definitiva è avvenuta a Rio nel 1992.

In altre parole si riproduce un’operazione già fatta: al manifestarsi di un peggioramento complessivo delle condizioni in un campo, se ne definisce quello come limite e si rielabora la strategia sviluppista per superare l’empasse. Il suo continuo rincorrersi, il suo mostrarsi contemporaneamente come causa del male e terapia, è anche la causa del suo definitivo naufragio. Ma questo aspetto della questione, a quanto pare, non è così semplice da cogliere se ormai non c’è ambientalista che non si ponga come obiettivo primario della sua pratica la rincorsa allo "sviluppo sostenibile" o, per i palati più fini ed esigenti che affollano i salotti dell’ambientalismo, allo "sviluppo eco-compatibile".

Già il termine sviluppo presenta in sé elementi di acuta perversione perché identifica l’ineluttabilità della crescita economica ovvero ribadisce il dogma borghese crescita=benessere che ha caratterizzato le teorizzazioni meccanicistiche neo-classiche. Ribaltando i termini della questione e spostando l’attenzione dai rapporti di produzione alla sostenibilità del mercato, gli sviluppisti tendono ad accettare che l’unica contabilità utile sia quella mercantile, come emerge da Enzo Tiezzi (Il capitombolo di Ulisse, Idee/Feltrinelli, Milano 1991): "riconversione ecologica dell’economia significa allora: aggiustare i prezzi sulla base dei costi globali e a lungo termine, includendo l’incertezza (...)". Il significato che si coglie è preciso ed inquietante al tempo stesso, sia perché è quello che sembra aver trovato maggiore consenso nell’arcipelago ambientalista, sia perché, ancora una volta, pone una correlazione tra contabilità economica e contabilità ecologica, subordinando la seconda ad esigenze evidenti di mercato.

2.7. Le differenze tra sistemi economici e sistemi ecologici

I sistemi economici e quelli ecologici coincidono per il prodotto: entrambi infatti mirano alla produzione, di merci, gli uni, di biomassa, gli altri. Gli obiettivi sono invero estremamente differenti: nei sistemi economici l’obiettivo è la crescita quantificata con parametri teorici e virtuali di carattere monetario; in quelli ecologici è invece l’equilibrio verificabile in parametri materiali concreti come l’inquinamento, la biodiversità, la resistenza, la resilienza ecc., non quantificabili secondo sistemi monetaristici. Ciò che si cela dietro questa richiesta di contabilizzazione monetaria del degrado ambientale, è subdolamente necessario al mercato per almeno due motivi: scaricare la tensione dell’opinione pubblica; creare nuovi campi d’investimento, anche perché qualunque sprovveduto è in grado di comprendere che i costi aggiuntivi della cosiddetta tutela delle generazioni future, nascondono la volontà di far pagare ai consumatori il costo di scelte popolari ma in ambito mercantile ovviamente svantaggiose.

E’ quanto accade negli Stati Uniti d’America dove il BOD (biological oxigen demand) cioè uno dei parametri con cui si misurano gli effetti dell’inquinamento, viene suddiviso in obbligazioni che le industrie possono acquistare per poter svolgere attività inquinanti. Quindi, pagando, si può continuare ad inquinare, scaricando i costi aggiuntivi sui consumatori, e consentendo a chi ha più soldi di poter inquinare di più godendo della possibilità di rifarsi dell’investimento ricavandone anche un buon ritorno d’immagine - e quindi maggiori vendite, maggiore produzione, maggiore fatturato e maggiore inquinamento - perché vengono rispettate le norme sull’inquinamento. Le stesse normative della Comunità Europea in materia di Valutazione d’Impatto Ambientale (V.I.A.) tengono esclusivamente conto dei fattori quantificabili monetariamente per dare l’assenso ad un insediamento antropico su un’area. Il problema di cosa si produce, perché si produce e per chi si produce non tocca minimamente gli interessi della gran parte degli eco-economisti, troppo presi a far quadrare i conti ed a trovare criteri monetaristici per quantificare il danno ambientale. "Così, oggi, dire sviluppo sostenibile, senza mettere in discussione i rapporti di produzione che generano un modello di sviluppo fondato su un distorto rapporto città/campagna, non significa nulla.

Ogni formazione economico-sociale, infatti, ha i suoi limiti nello sviluppo, che sono determinati dai rapporti di produzione; conseguentemente, lo sviluppo quantitativo, dentro la formazione economico-sociale crea o le condizioni del suo superamento oppure il caos, il disordine, l’inquinamento, insomma l’entropia, come flusso, superiore alla negaentropia". (Giuseppe Amata, Lo sviluppo perverso CUECM, Catania 1992).

2.8. Antropocentrismo e utilitarismo nello "sviluppo sostenibile"

In definitiva lo "scatolo vuoto" dello sviluppo finisce per inglobare la sfida ambientalista, quindi, poi si spiega come sia possibile che chi era stato segretario di una delle più grandi associazioni ambientaliste italiane, possa divenire, successivamente, il presidente dell’ENEL, svolgendo il suo incarico in assoluta continuità con le amministrazioni precedenti.

Anche volendo attribuire un significato aperto allo "sviluppo sostenibile", la sua definizione ne rafforza l’immagine antropocentrica, ponendosi l’obiettivo di trasferire anche alle generazioni future l’utilitarismo umano. Dal punto di vista strategico quest’impostazione spiazza prima e quindi taglia fuori dall’arcipelago ambientalista le correnti naturaliste. La natura, le sue risorse, assumono precipuamente il carattere di variabili per consentire la crescita, giammai elementi da salvaguardare a prescindere. Parole d’ordine come "l’oasi motore dello sviluppo" o "il parco come occasione di crescita", sono divenute slogan insostituibili di campagne elettorali e di enunciazioni di tristi programmi politici.

Fonte: ISTITUTO DI STUDI COMUNISTI Karl Marx - Friedrich Engels - Contatto - www.istcom.it

Altre fonti


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019