ECONOMIA E SOCIETA' |
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Elementi per un'ecologia socialista
Capitolo 4 Energia e ambiente; Il dualismo città/campagna 4.1. L’impatto ambientale del modo di produzione dell’energia Nelle condizioni attuali, l’elemento che sembra maggiormente decisivo nel determinare modificazioni traumatiche sull’ambiente e, quindi, il suo allontanamento dalle condizioni di equilibrio naturale, è l’approvvigionamento energetico. Se da un lato il progresso tecnologico, cui consegue l’ottimizzazione degli impianti, il miglioramento delle tecniche di prospezione mineraria e il processo di dematerializzazione delle merci, sembrano aver allontanato, almeno per il momento, lo spettro dell’esaurimento delle risorse naturali, dall’altro si profila come unica risorsa assolutamente scarsa l’energia, la cui produzione deve fare i conti anche con l’impatto ambientale negativo dei meccanismi utilizzati per la sua produzione. La questione energetica riguarda molteplici aspetti tra i quali i più importanti sono: a) l’impatto negativo sull’ambiente dei modi di produzione dell’energia; b) l’aumento di entropia; c) i modi di organizzazione sociale e le dinamiche internazionali conseguenti al tipo di approvvigionamento energetico prescelto. Allo stato attuale esistono due modi principali di produzione di energia, quello che utilizza combustibili fossili e quello legato alla fissione nucleare. E’ abbastanza scontato rimarcare come entrambi i modelli nascondano, insiti nella propria natura, i rischi di una contaminazione dell’ambiente naturale, con fenomeni di inquinamento variabili in relazione alla tipologia dell’impianto. Le ricadute negative sull’ambiente sono amplificate in relazione alla delocalizzazione degli impianti rispetto alla provenienza delle materie prime che li alimentano. Trasportare, ad esempio, petrolio dal Golfo Persico in Italia produce un impatto ambientale negativo. 4.2. Energia e processi vitali ed ecologici L’energia non è soltanto funzionale ai sistemi economici ed al modo di produzione, ma anche alla vita stessa. La comparsa delle prime forme viventi sulla Terra e la loro evoluzione, sono state determinate dalla radiazione solare, prima fonte energetica per tutte quelle reazioni chimiche che, circa 3 milioni di anni fa, determinarono la formazione, nel brodo primordiale, delle prime molecole organiche complesse e dei primi aggregati macromolecolari (coacervati) progenitori degli esseri viventi. Le spoglie degli organismi morti vengono decomposte e, nel corso delle ere geologiche, la loro materia organica, che conserva l'energia solare accumulata in vita sotto forma di legami chimici, si trasforma in carbone, petrolio, gas naturale, divenendo fonte primaria di energia per i sistemi produttivi industriali più diffusi. Anche l’energia idroelettrica è secondaria rispetto a quella solare perché il ciclo dell’acqua, così come i venti, si realizza comunque per effetto della irradiazione solare. L’energia solare, così come tutte le altre fonti di energia, è soggetta alle Leggi della Termodinamica: la prima afferma che l’energia né si crea né si distrugge ma soltanto si trasforma; la seconda afferma che durante questa trasformazione una parte dell’energia viene irrimediabilmente perduta sotto forma di "entropia" (Clausius). Queste due leggi possono essere lette in chiave ecologica affermando che gli organismi vegetali trasformano l’energia solare in energia chimica di legame per mezzo della "fotosintesi clorofilliana"; l’energia chimica di legame viene poi liberata nell’espletamento delle funzioni metaboliche degli organismi viventi, venendo in parte trasformata in calore. A partire dagli organismi vegetali, che immagazzinano nei loro tessuti, in forma di molecole complesse, l’energia solare, è possibile delineare il passaggio di energia da un livello trofico all’altro attraverso la catena alimentare:
La perdita di energia che si ha quando si passa da un livello trofico a quello successivo è altissima: in realtà soltanto un decimo della biomassa di un livello trofico può essere utilizzata dal successivo per ricavarne energia. L’energia che rimane nella biomassa non utilizzata, non viene perduta, ma il suo bilancio complessivo deve rimanere costante. Essa si trasforma in una forma degradata, cioè nella condizione di non potere essere utilizzata per produrre un lavoro metabolico, ed in materia decomposta a basso contenuto entropico. 4.3. L’entropia La tendenza dell’energia a "degradarsi" viene definita da una grandezza fisica, l’entropia, che è inversamente proporzionale alla quantità di energia "pregiata" disponibile, cioè utilizzabile per un lavoro. L’entropia viene anche definita come misura del disordine perché definisce la propensione delle energie pregiate a raggiungere la forma termica ovvero la condizione massima di energia cinetica, cioè con il massimo del movimento caotico - quindi disordinato - delle particelle. I processi naturali tendono spontaneamente a raggiungere il massimo grado di entropia cioè di disordine. Ma gli esseri viventi vivono condizioni di bassa entropia perché riescono a canalizzare l’energia pregiata proveniente dal sole, liberando calore ed aumentando l’entropia del sistema esterno. Tutti i sistemi viventi isolati (piante, animali...) e organizzati (un bosco, un lago, un fiume, il mare...) così come i sistemi economici e gli aggregati umani (villaggi, città, fabbriche...), tendono a dissipare energia e quindi ad aumentare l’entropia complessiva del sistema. Per mantenersi a bassa entropia e poter continuare ad esistere hanno, quindi, la necessità di un apporto continuo di energia pregiata. La stessa Terra nel suo complesso può essere considerata un sistema dissipativo, mantenuto in vita, e perciò a bassa entropia, dal continuo afflusso di energia proveniente dal sole. La differenza sostanziale tra i sistemi dissipativi naturali e quelli umani è nell’utilizzo quasi esclusivo, da parte dei primi, di energia solare e, per i secondi, di materia a bassa entropia. I sistemi dissipativi umani, quindi, non soltanto producono alta entropia, ma distruggono per continuare ad esistere, quantità sempre più alte di materia a bassa entropia divenendo, cioè, dissipativi due volte. 4.4 La produzione di energia nella transizione Karl Marx scriveva in Il Capitale, vol. 1, cap. 5, "il lavoro è un processo che si volge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione media, regola, controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura; contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite ed assoggetta il gioco delle loro forze al proprio potere". L’uomo preistorico poteva contare, per le sue esigenze, unicamente sull’energia muscolare, alimentata attraverso il cibo. La scoperta del fuoco determinò un salto culturale enorme che non ha più avuto paragoni nella storia umana. Con il fuoco l’uomo iniziò a provvedere al riscaldamento degli ambienti presso cui viveva, a cucinare il cibo migliorandone la digeribilità, ad estrarre dalle rocce i metalli, passando, quindi, dall’età della pietra a quella del bronzo e a quella del ferro. L’uomo utilizzava il fuoco anche per la caccia, incendiando i boschi per canalizzare la fuga delle sue prede. Sin dal primo utilizzo di una fonte energetica egli determinò, cioè, un impatto ambientale negativo delle sue attività. Al periodo di apprendistato nella gestione del fuoco, seguì quello di una comunità umana organizzata socialmente in modo più definito. Iniziarono le prime forme di agricoltura e l’allevamento di animali che, oltre a fornire cibo, garantivano, con la loro forza muscolare, anche un nuova fonte energetica (l’"animale-macchina" di Cartesio). Sino alla Rivoluzione Industriale, le fonti energetiche dell’uomo non erano cambiate di molto e rimanevano comunque tutte rinnovabili, dall’energia muscolare umana ed animale, alla combustione con legna, dallo sfruttamento con ruote e mulini della caduta gravitativa dell’acqua, alla forza del vento che alimentava le vele delle navi e le pale dei mulini a vento. La vera rivoluzione fu nel 1769 con l’introduzione della macchina a vapore di Watts, in grado di scatenare un’energia, per quel periodo storico, sorprendente. I combustibili fossili con cui era alimentata erano disponibili un po’ ovunque in gran quantità, potevano facilmente essere trasportati e non era necessario attendere che si rigenerassero. L’enorme energia pregiata potenziale che contenevano, iniziava così ad essere dissipata nella forma degradata del calore. Una maggiore quantità di energia disponibile poteva essere utilizzata per trasportare ed estrarre dalle viscere della terra ancor più combustibili fossili (carbone), che servivano ad alimentare la spaventosa mole di processi produttivi, nati in seguito a quella improvvisa ed immensa disponibilità energetica. L’invenzione del generatore elettrico, alla fine del secolo scorso, consentì di disporre di energia facilmente trasferibile, che contribuì a dare ulteriore slancio a nuovi processi produttivi. L’uomo iniziò, quindi, a trasformare, con rapidità sempre crescente, quello che la natura aveva immagazzinato in forme a bassa entropia nel corso di milioni di anni, aumentando la quantità di disordine del sistema Terra. In più, la soppressione di condizioni di naturalità di pezzi sempre più estesi del pianeta, restringeva l’area in cui poteva realizzarsi la produzione di materia a bassa entropia. Ragionare solo sulla produzione dell’energia non è sufficiente. L’energia prodotta serve infatti a mantenere in vita la produzione di merci che, nelle società a capitalismo avanzato, è altamente energivora, consuma cioè alte quantità di energia. "Ho ritenuto in passato, e ancora ritengo, che la legge dell’entropia sia la radice profonda della scarsità economica: in un mondo in cui non vigesse tale legge sarebbe possibile utilizzare tutta l’energia, compresa quella del ghiaccio delle calotte polari, trasformandola in lavoro meccanico, e gli oggetti materiali non si consumerebbero; ma certamente non esisterebbe neppure la vita. Nel nostro mondo, tutto ciò che per noi ha una certa utilità è costituito da bassa entropia, ed è per questo che il processo economico è entropico in tutte le sue fibre materiali" (Geogescu-Roegen). Ogni qualvolta una materia prima a bassa entropia viene inserita in un processo produttivo, essa viene trasformata in merci, ad entropia ancora bassa ma che tende ad aumentare con la loro usura, ed in rifiuti ad alta entropia. I processi produttivi aumentano cioè l’entropia complessiva oltre i limiti sopportabili. I meccanismi naturali riescono a mantenere bassa l’entropia del sistema, ma occorrono millenni se non milioni di anni perché si realizzino. I meccanismi di produzione industriale consumano, invece, in pochi istanti ciò che la natura ha fatto in moltissimi secoli, contribuendo ad aumentare l’entropia complessiva del sistema Terra. L’entropia che questo sistema può sopportare, non deve mai essere tanto alta da superare il valore >1 nel suo rapporto con la negaentropia, cioè la misura dell’ordine. Non ha nessun senso ragionare in termini di "cambio di rotta" verso energie cosiddette alternative, se non si modificano anche gli obiettivi dei processi produttivi. Limitare la produzione di merci ad utilità bassa e individuale, privilegiando merci che soddisfino i bisogni collettivi, può allontanare lo spettro di una modificazione traumatica di questo rapporto, le cui conseguenze sarebbero spaventose. In altre parole "non esiste un problema energetico, perché di energia è possibile averne più di quanto il nostro pianeta riesca a sopportarne; esiste invece un problema entropico, perché l’inquinamento generale e complessivo causato dagli esorbitanti consumi energetici è ormai tale da far temere una crisi generale economico-ecologica irreversibile" (G. Amata, S. Notarrigo, Energia e ambiente, una ridefinizione della teoria economica, C.U.E.C.M., Catania, 1987). 4.5. Le dinamiche sociali ed internazionali Fermo restando che il modo di produzione capitalistico ha come obiettivo la produzione di merci, prescindendo dalla loro utilità sociale, l’unica ragione per cui viene privilegiata una certa modalità di approvvigionamento energetico, piuttosto che un’altra, è legata anche a "convenienze" di natura sociale e politica oltreché economica. Molti paesi occidentali, Stati Uniti in testa, praticano ad esempio politiche di approvvigionamento energetico rivolgendosi ai P.V.S. per le materie prime, pur avendone a disposizione una grandissima quantità. Con questo sistema si garantiscono un controllo politico ed economico di tipo imperialista sui paesi non industrializzati ma in possesso di ampi giacimenti di combustibili fossili, controllando contemporaneamente anche i flussi energetici dei paesi economicamente concorrenti. Ma, in aggiunta, si garantiscono una riserva consistente del loro patrimonio di risorse naturali che, nell’evidenza della finibilità delle risorse dei P.V.S., sarà utile per salvaguardare un’egemonia imperialista per un periodo ancora molto lungo, in un quadro di garanzia per la forma della propria sovrastruttura interna. Sulla scorta di queste considerazioni venne proposta anche una suddivisione della Terra in quattro mondi così articolati: il Primo Mondo era composto da quei paesi, come USA e URSS che possedevano sia tecniche di trasformazione avanzate, sia abbondanti giacimenti di materie prime; del Secondo Mondo erano parte quei paesi, come l’Italia e il Giappone, che, pur in possesso di un buon apparato produttivo e tecnologico, non disponevano però di giacimenti di materie prime; erano paesi del Terzo Mondo quelli sprovvisti di un adeguato sviluppo tecnologico industriale ma ricchi di risorse naturali (paesi Arabi, Sudafrica, India...); infine erano paesi del Quarto Mondo, quelli privi sia di una qualsiasi forma di sviluppo industriale, sia di risorse naturali. Questa suddivisione, ancora oggi utilizzata, alla luce dei nuovi equilibri internazionali mostra tutta la sua vacuità. Ipotizzare una sorta di impero USA-URSS, ormai è puro delirio, così come non ha senso parlare di paesi del Quarto Mondo come privi di risorse perché, le politiche imperialiste dei paesi occidentali fruiscono a piene mani, con uno sfruttamento bestiale, della manodopera a basso costo che vi si può reperire. Tuttavia, fatte salve alcune valutazioni oggettive sul complicarsi dei rapporti Nord-Sud, alla ricerca di un controllo sulle fonti energetiche, val la pena sottolineare come il modo con cui si sono realizzati i processi di approvvigionamento energetico sono organici all’affermazione di una logica di gestione assolutista della società, anche all'interno dei paesi industrializzati. E’ facile rendersi conto della correlazione diretta tra le scelte politiche dei governi e le strategie economiche delle multinazionali dell’energia. Basti pensare alla capacità di mobilitare un esercito ed un armamento senza precedenti nella storia dell’uomo, per il controllo dei flussi di energia, in occasione della Guerra del Golfo. Il costo di quella operazione non ammette che vi siano concessioni al ripensamento dei meccanismi di produzione energetica e nell’indirizzare i consumi verso il petrolio e, più in generale, verso i combustibili fossili: occorre infatti ammortizzare gli enormi costi di quella missione. La dipendenza energetica dei paesi dalle multinazionali dell’energia è il mezzo di controllo e di ricatto più formidabile che esista. Non si può ritenere plausibile nessun tentativo che miri ad un ribaltamento dei rapporti di forza che non parta da questa constatazione. La produzione di energia avviene oggi in centrali enormi soggette al controllo di una borghesia tecnocratica che attraverso di esse esercita il suo dominio di classe non consentendo il decentramento (per l’ovvia difficoltà ad assicurare approvvigionamenti energetici alle "periferie", a partire dagli impianti a combustione o nucleari) e determinando il drammatico abbandono della campagna (che peraltro, per quanto già detto, viene abbandonata per la meccanizzazione della produzione). Coerentemente con questa visione assolutista e totalitaria dell’approvvigionamento energetico si sviluppano strategie di ricerca soltanto in alcuni campi: ottimizzazione degli impianti di combustione, sfruttamento dell’energia idrica nei fiumi con la costruzione di gigantesche dighe e il nucleare, bandito dall’Italia, ma su cui continua la sperimentazione in tutto il mondo. In questa fase, non ha alcun riscontro un’ipotesi di produzione di energia a partire da radiazioni solari, energia eolica e maree. Le ragioni di queste scelte sono di duplice natura: la prima è, ovviamente, non deprivare le multinazionali del potere coercitivo sulla popolazione mondiale, esercitato con il controllo monopolistico dei combustibili fossili e garantito dal sostegno politico dei governi occidentali (quasi sempre espressione delle stesse multinazionali) e delle borghesie rapaci (o dei militari) che controllano i PVS; la seconda opposizione allo sviluppo della ricerca scientifica nel campo delle energie alternative, è tutta interna alla tipologia degli impianti che, per propria natura, devono essere il più possibile decentrati, potenzialmente funzionali, cioè, ad uno smantellamento delle megalopoli e, quindi, fattori di crisi per la sovrastruttura centralizzata che trova legittimazione nel modo di aggregazione delle grandi città. Gli impianti ad energia solare richiedono grandi spazi per la loro messa in opera e quindi sono idonei per piccoli aggregati sociali, come potrebbero essere le comunità rurali. Rivolgersi a questa tipologia energetica significa in pratica riproporre un modello organizzativo della società che rimetta completamente in discussione gli equilibri interni alla sovrastruttura, quelli internazionali, le regole economiche e i rapporti sociali e, in parte, anche i rapporti di produzione. L’energia solare giunge infatti su tutto il pianeta in modo relativamente uniforme, con una maggiore irradiazione, semmai, in quei paesi del Sud del mondo che devono la loro condizione di sottosviluppo al modo con cui si è realizzato, da parte dell’imperialismo occidentale, lo sfruttamento delle materie prime di cui dispongono. Gli impianti di energia non possono essere delocalizzati rispetto all’irradiazione e non hanno alcuna conseguenza diretta sull’ambiente perché, in ogni caso, le radiazioni solari giungono sulla Terra in quantità enormemente più alta di quelle che possono essere utilizzate, e comunque il loro destino complessivo è segnato. Le sue applicazioni sono innumerevoli perché può fornire calore per riscaldare acqua ed ambienti, può essere trasformata in energia elettrica tramite cellule fotovoltaiche e può alimentare piccoli mezzi di trasporto. E tutto questo ad un livello di perfezionamento degli impianti ancora molto basso. Il suo sfruttamento avrebbe il senso di un’emancipazione da parte dei paesi del Sud del mondo dalle tecnologie di produzione dell’energia mutuati da quelli del Nord e della campagna, dalla città. I paesi del Nord si arricchiscono saccheggiando brutalmente materie prime ai paesi del Sud che rimangono quindi in un deficit di sviluppo mantenuto dagli attuali meccanismi di produzione dell’energia. Poi l’energia ricavata dalle materie prime saccheggiate, viene utilizzata al Nord per la fabbricazione di merci spesso di bassissima utilità sociale, mentre al Sud non vengono soddisfatte nemmeno le necessità vitali. La tendenza attuale non pone affatto la questione di un’inversione di rotta, al contrario, le ricerche scientifiche sull’approvvigionamento energetico hanno oggi una nuova chimera, la fusione nucleare. Lungi dall’essere realizzata, ancora in fase di sperimentazione - senza sicurezza del risultato finale -, questa forma di produzione di energia ha sottratto risorse spaventose alla ricerca nel campo delle energie alternative. Ma nasconde un’ulteriore elemento di perversione: l’impianto tipo previsto è di tali dimensioni e dovrebbe produrre una tal quantità di energia da lasciar supporre una subordinazione totale di tutta la società ai tecnocrati che lo fanno funzionare. Il quadro è di tipo orwelliano, inquietante e paradossale nel contempo. Certo, occorre sottolineare ancora una volta, come non sia sufficiente delineare il modo alternativo di produzione energetica, perché, comunque, il modo di produzione capitalistico si indirizza sempre verso la produzione di merci a basa utilità sociale, altamente energivore, quindi, a contenuto entropico alto, prescindendo dal modo con cui viene ricavata energia. Cioè, non ha senso parlare di energia solare, o eolica, a limitato impatto ambientale, se poi questa stessa energia viene utilizzata per alimentare processi produttivi che la degradano. 4.6. Il dualismo città/campagna La scelta del modo di produzione dell’energia va inserita in un contesto più ampio che è quello di un’accentuazione del dualismo e della distanza tra città e campagna a tutto vantaggio della prima. Abbiamo già detto che la localizzazione degli impianti di produzione dell’energia nelle aree industriali delle megalopoli, produce, oltreché un impatto ambientale negativo su un territorio limitato, di cui sono state abbondantemente superate le capacità di resilienza, anche un abbandono della campagna. Questo ovviamente non può significare che la campagna, con il suo potenziale di produzione di mezzi di sostentamento alimentare, divenga improvvisamente inutile per la città. Ma piuttosto che i flussi di materia ed energia dalla campagna alla città, impediscono, come dice Marx, il ritorno alla terra di ciò che si è consumato e quindi il loro riciclo naturale. La strutturazione della città di grande dimensione ha una ragione storica nella necessità delle classi dominanti di garantirsi, in condizioni economiche congiunturalmente differenti, un controllo sociale verticistico sulle donne e sugli uomini. Secondo G. Amata (Lo sviluppo perverso, C.U.E.C.M., Catania 1992) esistono tre grandi periodi nella storia del rapporto città campagna: a) la nascita ed il declino della città nel mondo antico; b) la rinascita della città artigianale tardo-medievale ed il suo assorbimento nel modo di produzione feudale; c) lo sviluppo della città industriale in metropoli prima ed in grande conurbazione territoriale ai giorni d’oggi con massimo inquinamento, devastazione ambientale e depauperamento agricolo. Nella prima fase la città nasce come entità autonoma ed autosufficiente negli snodi di grande traffico commerciale ed in prossimità dei luoghi di provenienza delle materie prime pregiate che vengono lavorate e trasformate in merci negli aggregati urbani. La sovrastruttura di queste "città-stato" risente di questa condizione storico-economica e dei rapporti di produzione così come si realizzano in questa fase. Esse godono di una notevole autonomia e la loro potenza si esprime nella capacità di garantirsi un approvvigionamento sufficiente, soprattutto nei momenti di conflitto militare, che è in relazione con le dimensioni del territorio da esse dipendente, e nella capacità di proteggere questo territorio con opere di fortificazione. Il tipo di impianto urbano che si sviluppa in questa fase, a partire dalle grandi città babilonesi ed assire, sino ai periodi di massimo splendore di Atene e Roma, consta di due elementi fondamentali: la magnificenza dei palazzi, molto elevati ed inseriti in un tessuto urbano con pianta ortogonale, e la possanza delle mura. Entrambi questi fattori contribuivano a rendere autonoma la città dalla campagna, fondandone la capacità autogenerativa sugli embrionali valori di scambio che iniziavano a delinearsi. Avevano anche il compito di circoscrivere la popolazione in ambiti sempre più stretti - la fabbricazione di palazzi e case a più piani era uno degli strumenti - per consentirne una sottomissione alla gerarchia cittadina, escludendo le attività economiche che si svolgevano liberamente nelle campagne e determinandone il rapido declino. Una prospettiva di controllo sulla popolazione trovava un altro utile strumento nella creazione di spazi di aggregazione all’interno delle mura cittadine: nascevano l’Agorà, il teatro, e a Roma, le terme, il circo ed altre strutture ricreative originali o mutuate dall’architettura e dall’urbanistica greca o ancora precedente. Con Atene prima e poi con Roma comincia a divenire supremo regolatore della vita della città il valore di scambio e la campagna viene sostanzialmente colonizzata e subordinata alle esigenze della città per alimentarne le attività commerciali. Nel periodo di espansione dell’Impero Romano, il modello viene esportato con grande successo anche nei territori occupati e garantito da un apparato statutario efficiente e poderoso e dal ricorso sistematico allo schiavismo come condizione per lo sfruttamento dei territori annessi. La crisi dell’impero e, quindi, della concezione che si era delineata della città, coincide con la crisi del modo di produzione schiavistico e con il contemporaneo affermarsi della "villa romana" come entità capace di rendersi autonoma dal punto di vista produttivo, e con l’emancipazione della campagna e della provincia dalla capitale. Si comincia a delineare, in alternativa al modo di produzione schiavistico, quello servile, come embrione dei rapporti di produzione di epoca feudale. La gestione delle terre ed il loro passaggio di proprietà, era definito entro ambiti giuridici prefissati in codici rigidi. In particolare la proprietà della terra era legata alla proprietà degli schiavi e dei coloni. La progressiva emancipazione degli schiavi e la nascita della popolazione rurale servile che ne conseguì, insieme alla delocalizzazione di molte attività produttive nelle ville dell’immensa provincia dell’impero, presso cui si stabiliva un’aristocrazia insofferente alla vita sociale e politica decadente di Roma, spostarono in periferia l’asse di riferimento per i valori di scambio, lasciando la capitale non in grado di reagire ed adattarsi a questa nuova condizione. Da questo il declino dell’ultima grande città dell’evo antico, e non certo dalla ferocia delle invasioni barbariche, come semplicisticamente e superficialmente viene spesso riferito Per rivedere un "rifiorire" della città occorrerà attendere lo sviluppo delle attività artigianali, della bottega come unità produttiva e la sconfitta della concezione feudale che si opponeva alla crescita delle piccole attività produttive cittadine. Cuore del modello produttivo artigianale era il Comune presso cui si consumava anche il conflitto con gli interessi della feudalità. Nel XII e XIII secolo le città-stato cominciano ad aumentare la propria popolazione mentre gli artigiani smettono la vecchia usanza di coltivare, per le proprie esigenze personali, piccoli appezzamenti di terra, specializzandosi nella produzione di manufatti. E’ il periodo rinascimentale che tonifica le città, modificandone l’impianto urbano ed adattandolo alle nuove esigenze produttive, con sistemi di fortificazioni efficaci ed un sistema viario che consentisse di raggiungere ogni bottega in tempi brevi. Crescendo il loro potere economico, gli artigiani iniziano ad assumere personale in forma di apprendisti, determinando una forma inedita di sfruttamento della manodopera. Le condizioni bestiali cui sono soggetti i lavoratori dipendenti creerà le condizioni di violenti scontri di classe. A questi gli artigiani-padroni risponderanno con alleanze con i feudatari che, d’altro canto, pur vivendo preferenzialmente nei loro castelli delle campagne, e curando prevalentemente il latifondo, non avevano tutti abbandonato le città. La nuova alleanza tra borghesia artigianale e aristocrazia creerà una sovrastruttura che ha la sua espressione nella Signoria, nel Ducato o, nel caso di Roma, nello Stato Pontificio. Questi nuovi poteri, sostitutivi di quelli relativamente più partecipati dei Comuni, impediscono uno sviluppo progressivo della città, presso cui si realizza un processo di decadenza delle strutture urbanistiche. Un fenomeno che determina il nuovo proiettarsi degli interessi economici verso la campagna, dove le grandi famiglie tornano a stabilirsi, riorganizzando, tra il ‘500 e il ‘600, la vita rurale intorno a residenze sontuose e ai vecchi castelli. Le condizioni di vita delle città, sovraffollate e senza un adeguamento sufficiente delle infrastrutture, finiscono per deteriorarsi, producendo il riassorbimento del modo di vivere urbano in una nuova fase feudale. Con l’avvento della Rivoluzione Industriale il ruolo della campagna decade rapidamente, sostituito da un nuovo impulso all’aggregazione urbana. Il ritorno alla città, questa volta non segue alcuna regola razionale ma si realizza in modo convulso, anarchico, con il sorgere di vaste periferie degradate intorno ai nuovi insediamenti industriali. Questo processo è sostenuto dalla riconversione di ampie aree agricole a pascolo ovino, per produrre la lana necessaria alle industrie tessili. Il valore di scambio diventa fondamentale, innescando il processo di speculazione edilizia che fa levitare il prezzo delle case. L’avvento dei mezzi di trasporto meccanici ingigantisce il fenomeno dell’urbanizzazione selvaggia a discapito delle terre coltivabili e la città acquista una fisionomia che ne denota la divisione in classi, con zone residenziali dotate di servizi efficienti e, via via, attraverso aree intermedie, con zone periferiche che ospitano l’armata industriale di riserva. Man mano che questo processo si realizza e le città diventano sempre più ampie - grandi città, metropoli, megalopoli -, le aree urbane cominciano ad accavallarsi e si formano le grandi conurbazioni. Qui si realizzano certamente effetti devastanti di degrado ambientale, la città produce rifiuti che riversa su se stessa e sulle aree agricole limitrofe, ma anche fattori di degrado sociale con un’incidenza altissima di fatti delittuosi risolti esclusivamente, da Hobbes in poi, con l’attribuzione del monopolio assoluto della violenza allo stato. Le città divengono luogo di tensioni sociali che la borghesia tenta di risolvere blindando la sovrastruttura e centralizzando gli strumenti decisionali al suo interno. Il decentramento viene guardato con sospetto dalle istituzioni borghesi per una serie di ragioni: la prima è che un ritorno alla campagna renderebbe autonomi molti consumatori cittadini dalle grandi reti di distribuzione e potrebbe persino, almeno per certe merci, come le derrate alimentari, escluderli completamente dal mercato; verrebbe a decadere la logica ricattatoria della garanzia della protezione contro la violenza cittadina, in cambio di consenso politico; il decentramento seguirebbe a strutture amministrative delocalizzate con sempre maggiori poteri a discapito della sovrastruttura centrale; non avrebbe più luogo la concentrazione di masse diseredate in grandi periferie suburbane da sottoporre a ricatto occupazionale; aumenterebbe l’occupazione per la necessità di decentrare alcune funzioni sociali, moltiplicandone il numero, e quindi diminuirebbe il tasso di povertà che gli economisti liberisti ritengono essere necessario per garantire il mercato. Fonte: ISTITUTO DI STUDI COMUNISTI Karl Marx - Friedrich Engels - Contatto - www.istcom.it Altre fonti
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Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"