ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


Elementi per un'ecologia socialista

I - II - III - IV

Capitolo 3

Bioetica, biodiversità e la questione della democrazia

3.1. La sovrastruttura democratico-borghese dinnanzi alle sfide della scienza

Gli sviluppi tecnologici e scientifici, nel campo della medicina, della biologia e della genetica, pongono, con rapidità straordinaria, quesiti inediti alle donne e agli uomini che su questi temi sono chiamati a pronunciarsi ed a decidere. I problemi sul tappeto possono essere articolati in due grandi questioni:

la questione della democrazia, ossia la questione direttamente connessa alla dislocazione dei luoghi dell’evento decisionale ed alla legittimità di un mandato, scaturito in una condizione differente da quella prodotta dallo sviluppo scientifico;

la questione della bioetica, ovvero ciò che concerne la legittimità dello sviluppo scientifico, la sua moralità, applicazione e, di conseguenza, la possibilità di un divieto parziale o assoluto della sperimentazione e dell’applicazione dell’evoluzione scientifica nei campi delle scienze naturali e mediche.

In realtà le molteplici ricadute del progresso scientifico e tecnologico finiscono con l’intersecarsi sino a determinare la totale sovrapposizione dei campi d’azione delle due questioni. Quelli legati alla questione della democrazia, ad esempio, vengono incorporati nel campo bioetico per l’incapacità della sovrastruttura democratico-borghese, con la sua incredibile vaghezza ed i suoi confini difficilmente definibili,.di confrontarsi, sul piano della democrazia, con i possenti sviluppi indotti dalle nuove tecnologie.

Dare risposte esaustive in merito all’ambito proprio della questione della democrazia è decisamente complesso e richiederebbe un dibattito problematico, articolato nelle differenti fasi con cui si sono realizzati i rapporti di produzione e le formule sociali che da questi sono scaturite. Al centro del dibattito vi è sicuramente quella necessità irrevocabile di rompere, verificatane la disastrosa natura fallimentare, la semplicistica linearità culturale delle impostazioni ideologiche borghesi. Il conseguimento di questo obiettivo primario parte, quindi, dalla riacquisizione degli strumenti di analisi propri del materialismo storico e dialettico, con l’obiettivo - da sviluppare - di contrapporre alle stantie ed inefficienti istituzioni democratico-borghesi, modelli sociali e di aggregazione in cui sia massima la partecipazione decisionale delle donne e degli uomini alle dinamiche evolutive della scienza e della tecnica.

3.2. La questione della democrazia

La struttura delle istituzioni non è neutrale, libera da condizionamenti, indipendente, ma deriva in modo diretto, sia dalla natura delle forze produttive temporaneamente attribuite ai paesi nelle varie fasi della storia umana, sia dal contesto sociale e culturale degli stati in cui si realizzano determinati rapporti di produzione. Non è cioè un elemento astratto, eterno ed immutabile, è invece esattamente il frutto delle condizioni storiche, del rapporto tra forze produttive e modo di produzione. L’oggettiva inadeguatezza delle attuali forme di democrazia pone quindi il problema della costruzione di un’altra democrazia.

Le attuali forme di democrazia rappresentativa sono in effetti mutuate, a partire dal XVII sec. - anche se non necessariamente tout court -, dalle democrazie nobiliari-feudali che dovevano però confrontarsi con ben altri rapporti di produzione rispetto all’oggi. La loro obsolescenza, se da un lato ostacola la liberazione delle forze produttive nella direzione del soddisfacimento di bisogni sociali e collettivi, dall’altro deriva direttamente dall’azione frenante, quando addirittura non regredente, esercitata dalle forze capitalistiche per imbrigliarne l’evoluzione positiva fuori degli attuali confini asfittici. Nel contempo occorre aver ben chiaro il concetto che l’affermazione di nuove forze produttive necessita dell’azzeramento della precedente sovrastruttura.

Il fattore frenante forse più violento e coercitivo, esercitato dalla borghesia a tutela dei propri modelli sovrastrutturali, è l’introduzione di elementi culturali diffusi e radicati che impongono di considerare come coincidenti, la democrazia e le sue forme realizzative burocratiche, amministrative, elettorali, istituzionali, partitiche ed organizzative in genere. Il risultato dello spostamento del problema è che non si coglie completamente la natura di necessità - oggettiva - della democrazia. Tale natura si realizza in forme e modi differenti non codificati all’interno di progetti assoluti ma in relazione al particolare contesto storico. Proprio per la sua natura materiale la democrazia non ammetterebbe di delegare un proprio compito fondamentale ad una escrescenza ectoplasmica del suo apparato. "L’apparato centralizzato dello stato che, con le sue strutture militari, burocratiche, ecclesiastiche e giudiziarie onnipresenti e complicate, rinchiude il corpo vivente della società civile come un boa constrictor, fu forgiato per la prima volta nell’epoca della monarchia assoluta come arma della moderna società borghese in sviluppo nella sua lotta di emancipazione dal feudalesimo. I privilegi feudali dei signori, della città e del clero del medioevo vennero trasformati in attributi di un singolo potere statale, che sostituì i dignitari feudali con funzionari statali stipendiati e tolse le armi ai servitori medioevali dei signori feudali e delle corporazioni urbane per darle ad un esercito permanente; l’anarchia variamente colorata dei poteri medioevali in conflitto tra loro venne sostituita dall’ordinato programma di una autorità statale, con una sistematica e gerarchica divisione del lavoro. (...) Ogni minore interesse particolare prodotto dalla interrelazioni fra gruppi sociali, è stato separato dalla società stessa, fissato, reso indipendente da essa e ad essa posto in contrapposizione, in nome dell’interesse dello stato, amministrato dai sacerdoti dello stato con funzioni gerarchiche precisamente determinate. (...) Tutte le rivoluzioni hanno solo perfezionato la macchina statale, invece di rovesciare quest’incubo soffocante. Le fazioni e i partiti delle classi dominanti che alternativamente hanno lottato per la supremazia, hanno considerato il possesso e la direzione di questo immenso apparato di governo come il bottino principale della vittoria. La loro attività era rivolta fondamentalmente alla creazione di immensi eserciti permanenti, di una schiera di parassiti di stato e di un’enorme debito pubblico. (...) Il potere del governo, con il suo esercito permanente, la sua burocrazia onnipotente, il suo clero abbrutente e il potere giudiziario ad esso asservito, era divenuto così indipendente dalla società stessa che (...) non appariva più come uno strumento della dominazione di classe, sottoposto ad un ministero parlamentare o ad una assemblea legislativa. Umiliava sotto il suo dominio perfino gli interessi delle classi dominanti, di cui sostituiva la parodia parlamentare con dei corpi legislativi che eleggeva direttamente e con senatori che esso stesso pagava; sanciva la sua assoluta autorità con suffragio universale e con la necessità riconosciuta di mantenere l’"ordine", e cioè il dominio del proprietario fondiario e del capitalista sul produttore; nascondeva, sotto i randelli di una mascherata del passato, le orge di corruzione del presente e la vittoria della parte parassitaria degli strozzini finanziari. (...) A prima vista sembrava che fosse la vittoria finale del potere del governo sulla società, mentre era in realtà l’orgia di tutti gli elementi corrotti di questa società". (Karl Marx, Il carattere della Comune)

3.3. La questione della bioetica

La bioetica diventa quindi il contenitore ideale per le questioni irrisolte o irrisolvibili che, in quanto contraddizioni all’interno dello stesso sistema, finiscono per essere scaricate su un piano più basso e ad un livello in cui i valori e i significati sono comunque non oggettivi. Le istituzioni, cioè i luoghi delle decisioni vincolanti, si chiamano fuori dalla questione perché hanno individuato una dinamica di scontro su un piano in cui appare prepotentemente la necessità di introdurre elementi di limitazione all'espansione del capitale in settori strategici. D'altro canto non è neanche ipotizzabile la reintroduzione di modelli quali lo "stato etico". Venendo costituiti come strutture del tutto prive di potere vincolante, e comunque come ectoplasma inerme di sovrastrutture autoritarie, comitati e commissioni bioetiche si configurano perciò come lo strumento perverso attraverso il quale si impedisce una partecipazione allargata al processo decisionale, nel merito dell’evoluzione scientifico-tecnologica. Il termine "bioetica", poi, è a sua volta, debole anche nella sua essenza. Addirittura contraddittorio se sottoposto ad un’analisi esegetica, perché ci riferisce della natura "oggettiva" delle questioni legate alla vita ed alla morte, attribuendo ad esse le proprietà del tutto convenzionali e idealiste della scienza della morale. La struttura voluta per la bioetica è inefficace, per la sua natura dogmatica, nel dare risposte a situazioni a cui non è possibile applicare principi immutabili, proprio per la spaventosa rapidità con cui si trasformano.

Le condizioni nuove, create dall’evoluzione scientifica in campo medico e biologico, impongono invece riflessioni rigorose sui tre temi della "responsabilità verso le generazioni future", dell’"ecologia", del "consenso informato". L’ultimo di questi temi può essere ricondotto nella più complessa e generale questione della democrazia, configurandosi come una forma specifica della partecipazione al processo decisionale nell’ambito della sovrastruttura. La responsabilità verso le generazioni future inerisce invece una valutazione attenta e prudente sugli effetti a lungo termine, ancorché positivi nelle condizioni attuali, dell’applicazione di nuove e rivoluzionarie metodologie in campo medico e biologico. Pone, cioè, la necessità di ripensare il rapporto uomo-natura, ossia l’intero processo di produzione e ri-produzione, all’interno di un quadro gestionale organico, superando gli attuali limiti settoriali e le specializzazioni proprie della sovrastruttura borghese. "La rapidità dello sviluppo materiale del mondo è aumentata. Esso sta accumulando costantemente sempre più poteri virtuali mentre gli specialisti che governano le società sono costretti, proprio in virtù del loro ruolo di guardiani della passività, a trascurare di farne uso. Questo sviluppo produce nello stesso tempo un’insoddisfazione generalizzata ed un oggettivo pericolo mortale, nessuno dei quali può essere controllato in maniera durevole dai leader specializzati" (Guy Debord, I Situazionisti e le nuove forme dell’arte e della politica, relazione al VI Congresso dell’Internazionale Situazionista tenutosi ad Anversa dal 12 al 15 novembre del 1962, cit. Casa Editrice Nautilus, Torino 1993).

Il realizzarsi di una centralità dell’ecologia, infine, spezza il monopolio di una visione antropocentrica, riconducendo ad un ruolo organico quei fattori biologici, chimici e fisici esterni all’uomo, sino ad oggi strumentalmente ridotti ad elementi marginali.

Ciò che necessita di un’indagine, è, quindi, il complesso rapporto tra uomo e natura, rileggendo in esso le relazioni vita-morte. La scienza medica e quella biologica si muovono in questa direzione modificando questo rapporto.

Donne e uomini, sottoposti alle più strane "bizzarrie" della natura, dalle malformazioni genetiche a quelle acquisite, dalle modificazioni cliniche di natura patologica a quelle di origine violenta, vengono schiacciati e mortificati nel confronto quotidiano con la natura, in ciò che riguarda la loro singola esistenza, la loro vita. Storicamente si è realizzato inevitabilmente l’annichilimento e la sottomissione alle "forze oscure della natura", misticizzate e esorcizzate e fatte oggetto dell’attribuzione di un valore divino e di un carattere metafisico che ne impediva un interpretazione razionale. E’ stato il livello complessivo di arretramento della ricerca scientifica in campo medico che ha imposto questa interpretazione della patologia, ricercando la sua giustificazione teorica - ed in termini psicologici la sua sublimazione - nella teoretica cristiana.

La necessità evolutiva degli uomini e delle donne di razionalizzare anche in mancanza di elementi conoscitivi sufficienti, ha finito per ricondurre tutto all’interno delle dinamiche caratteriali di un dio, ora irato, ora generoso. La rottura del rapporto bidirezionale uomo-natura, con l’introduzione di questi elementi di misticismo, ha fornito alle classi dominanti il più potente degli strumenti di coercizione su cui mai abbiano potuto contare per garantirsi di auto-perpetuarsi. Rivoluzioni fondamentali del pensiero scientifico sono state ostacolate perché riconducevano razionalmente le relazioni vita-morte all’interno del rapporto uomo-natura. Le teorizzazioni ippocratiche dei "Mali oscuri", che interpretavano la patologia come un problema esclusivamente legato all’alimentazione ed alla dieta, sono state ostacolate per secoli proprio perché ribadivano il concetto dell’unitarietà tra l’uomo e l’ambiente.

Tutto ciò sino a quando le strategie medico-biologiche sono state concepite esclusivamente come semplice difesa dalla patologia. Sino a quando, cioè, nei laboratori non si sono riprodotte le prime elementari molecole organiche, proteine, albumina, al di fuori del puro e semplice accoppiamento sessuale. Sostiene Kapitsa (La scienza come impresa mondiale, Editori Riuniti), che un progresso nel campo della ricerca scientifica ha il pregio, non soltanto di poter essere utilizzato per migliorare la qualità della vita, liberando l’uomo dal bisogno, ma anche di riprodurre condizioni culturali nuove in grado di sostituire quelle vecchie coercitive, ancora infarcite di misticismo e di concezioni idealiste.

La decadenza delle concezioni metafisiche aristoteliche, se ha consentito una più libera espressione del pensiero razionale, ha però determinato la nascita di una nuova sovrastruttura che ha piegato le esigenze della sperimentazione a quelle dell’accumulazione capitalistica e della massimizzazione del profitto.

Le sovrastrutture borghesi, strumenti degli interessi capitalistici, se possono essere legittimate da un determinato livello della conoscenza, vengono delegittimate da quello più alto che sposta ancora in avanti il rapporto uomo-natura. Nasce quindi la duplice esigenza, da parte delle classi dominanti, di auto-perpetuarsi, impedendo il raggiungimento di quel livello, imbrigliando la ricerca scientifica entro confini angusti e prestabiliti e gestendo la contraddizione attraverso la creazione di una nuova etica specializzata che nega l’unicità del pensiero umano e si pone come strumentale al dominio di classe.

In una data epoca storica il pensiero umano costituisce un tutt’uno con i livelli scientifici raggiunti, che rimandano al rapporto uomo-natura cioè al modo con cui si realizzano le condizioni materiali di esistenza delle donne e degli uomini. Siamo noi che fissiamo i limiti alle trasformazioni che ne conseguono, come sostiene Engels, ma nella realtà tutto passa costantemente l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, aumentando l’instabilità degli ambiti convenzionali imposti dalle classi dominanti a propria tutela. Lacerato dalla contraddizione il sistema studia i propri anticorpi sottomettendo la ricerca scientifica ai propri interessi, definendone l’ambito per gestire le nuove condizioni, salvo, poi, consentirne una valutazione esclusivamente etica o, come si dice in questi casi, bioetica.

3.4. La fecondazione assistita nell’ambito della categoria "famiglia"

Tra gli elementi che vengono fagocitati nel coacervo di valutazioni bioetiche e sottoposti al bombardamento incrociato di mondo cattolico, associazionismo e volontà adeguazioniste della sinistra neoriformista, la fecondazione assistita è sicuramente il più gettonato. In realtà l’evoluzione delle scienze mediche in questo campo ha avuto l’effetto devastante, anche per la sovrastruttura, di ragionare, modificandone i meccanismi, sulla riproduzione sessuale nell’uomo come specie. Le nuove tecnologie riproduttive per l’uomo e la donna hanno cioè mutato la prospettiva atavica ed ideologica che teneva insieme in modo inscindibile la riproduzione e l’atto sessuale. In definitiva la nuova condizione posta dalle tecnologie riproduttive rimette in discussione la allocazione stessa della categoria "famiglia" nel contesto della società di classi.

Lo sviluppo della conoscenza nel campo della riproduzione ha consentito non soltanto di intelligere il processo riproduttivo intervenendo su di esso e modificandolo (metodiche anticoncezionali), ma ha anche separato l’atto sessuale dalla necessità di riproduzione della specie. In tal modo lo stesso atto sessuale ha acquistato nuovi contenuti e significati, delineandosi come atto di libertà tra due soggetti e non più come stretta necessità riproduttiva. Prima di questo il matrimonio veniva "consumato" all’atto del concepimento e la donna "consumava" il suo ruolo con il parto e le cure parentali. Questa concezione culturale aveva una sua espressione giuridica e canonica nella sovrastruttura temporale e religiosa che finivano quasi sempre per coincidere. L’immagine speculare del "consumo" diviene la "sterilità", sia quella per scelta, sia quella patologica, che non trova cittadinanza, ne tanto meno una propria forma di rappresentanza, nella sovrastruttura.

La sperimentazione scientifica nel campo della lotta alla sterilità, si sta realizzando con una rapidità tale da non essere controllabile. Ma questo processo avviene dentro ambiti coercizzati che non consentono una sua libera espressione, finalizzato cioè alla creazione di una merce nuova ed alla frantumazione delle dinamiche di maternità. Il ruolo della donna passa, quindi, da quello di semplice contenitore del feto a strumento di gestione di una fase della procreazione. Ciò che si va delineando è cioè la separazione oggettiva della gestazione da quella della trasmissione dei caratteri ereditari, ruoli che possono tecnicamente essere ricoperti da due donne diverse. Ma ciò che è più inquietante è che a queste due donne se ne può aggiungere una terza nel ruolo di educatrice-madre, qualificando le caratteristiche biologiche delle prime due come merce. La contraddizione della nuova condizione investe e sommerge la sovrastruttura nella sua espressione giuridica, mostrando l’inelasticità e l’inadeguatezza del Diritto Civile. Ma la contraddizione investe soprattutto la famiglia come categoria, mostrandone la sua vera origine materiale e mettendo in crisi la falsificazione mistica del suo ruolo.

La concezione strumentale della famiglia come luogo in cui si realizza solo ed esclusivamente la perpetuazione della specie, ha origini antichissime. Dapprima necessaria, per la particolare natura biologica ed ecologica della specie umana: la ripartizione dei compiti tra la donna, addetta alla procreazione, e l’uomo, che doveva provvedere al proprio sostentamento e a quello della donna nella fase complessa della gravidanza, consentendone un esito vantaggioso per la specie. La famiglia diviene, quindi, in questa fase arcaica, l’esigenza di creare un rapporto stabile tra uomo e donna con l’unico scopo di perpetuare la specie. Successivamente la famiglia è servita a sostenere l’incremento demografico, non in funzione della conservazione della specie, già al sicuro dall’estinzione per il miglioramento complessivo della qualità della vita, ma per sostenere processi produttivi. Un leggero miglioramento delle condizioni di vita porta immediatamente ad un aumento delle famiglie e ad un incremento demografico, con la conseguenza che una contrazione delle possibilità economiche arricchisce l’armata industriale di riserva. Il ruolo della donna come esclusivamente addetta alla riproduzione, viene bestialmente mantenuto dall’ideologia borghese e dalla religione, per mantenere alta la disponibilità di manodopera e quindi ridurre i costi di produzione per unità di tempo lavorata, e per produrre consumatori, quando, in alcuni casi, semplicemente nuove merci (utero in affitto...).

Nella concezione mistica di famiglia diviene quindi negativa ed aberrante la possibile sterilità della donna, che blocca il realizzarsi dell’obiettivo ricercato, e si delinea la figura dell’uomo dominante le cui capacità riproduttive non vengono messe in discussione. La sperimentazione scientifica nel campo della riproduzione svela, in altre parole, due elementi di contraddizione profonda: uno generale, e cioè che legare entro ambiti predefiniti e strumentali la ricerca crea comunque situazioni incompatibili con la sovrastruttura realizzata in altra fase che, conseguenzialmente, viene posta in uno stato di fibrillazione parossistica; l’altro, specifico, è che viene rimessa in discussione la categoria di famiglia come luogo unicamente preposto alla procreazione e legittimato come tale nell’ordinamento giuridico e, semmai, anche come luogo in cui si realizza la trasmissione della proprietà. Ristretta in questo ambito la famiglia sconta tutte le contraddizioni di un’entità non liberata nelle posizioni coercitive del diritto canonico che la interpretano, non come atto di scelta libera di due soggetti di vivere in tutto o in parte la propria vita insieme, ma come obbligo di congiungimento sancito dalla fede e quindi irrisolvibile.

L’ambito coercizzato determina in sostanza, che sia la donna, che la natura sono ridotti a puri oggetti del sistema economico e non riacquistano piuttosto un proprio ruolo di soggetti autonomi di diritto.

3.5. Il rapporto donna-natura ed il lavoro di riproduzione

Allo stato attuale si pone la necessità di ristabilire una relazione tra gli universali del sesso biologico e della natura come fattori "essenziali" dell’esistenza umana e il materialismo storico dell’analisi di classe. Questo afferma che la dimensione collettiva umana è risolvibile socialmente perché determinata da un ambito puramente sociale, all’interno del quale occorre indagare se trovano spazio la condizione fisicamente materiale delle donne e della natura. E’ possibile, cioè, affrontare le questioni poste in termini materialisti, senza tener conto delle donne con la loro struttura biologica e della natura con i limiti che impone allo sviluppo capitalista? E, quindi, esiste un ambito di confronto del tutto peculiare tra donna e natura?

Le strategie ecofemministe radicali hanno posto la questione nei termini dello sfruttamento patriarcale sia della donna, sia della natura, introducendo elementi etici nel lavoro di cura, privilegiando un rapporto emozionale fondato sull’intuizione e sul primato del corpo sulla mente. L’approccio intuitivo ed essenzialista può talvolta produrre radicalismi emozionali come la ricerca della natura in una logica "di divinità femminile", rischiando di vanificare il contenuto fondamentale dell’analisi storica e teoretica dell’ecofemminismo. Riguadagnare quell’analisi e spingerla oltre, nel campo del materialismo storico e dialettico, pone il problema della ridefinizione del lavoro di produzione e di ri-produzione come elementi centrali dell’analisi di classe. Non è verosimilmente possibile, però, scardinare i legami emozionali del lavoro di cura o del rapporto donna-natura, cioè ridisegnare - o cancellare - i temi dell’essenzialismo, per riconquistare questa centralità. Piuttosto è credibile un’analisi che interpreti la natura essenziale dentro il materialismo. La difficoltà "oggettiva" perché questo percorso di interrelazioni tra essenzialismo e materialismo possa essere definito e/o ri-definito non può non tener conto della natura fondamentalmente astorica del fattore sesso/biologia della donna e della natura invece scontatamente storica dei rapporti di produzione.

Lo strapotere degli uomini, sia nelle decisioni di politica di gestione - o di saccheggio - della natura, sia nella violenza militarista, ha fatto nascere radicalismi femministi che pongono la donna in un’ottica di naturale pacifismo e solidarismo che, in un'interpretazione esclusivamente essenzialista, può definire un quadro di trasformazioni sociali come unicamente naturali, estrapolandole dal contesto storico con cui si sono determinati i rapporti di produzione. Tanto più quest’analisi rischia di precipitare nel naturalismo emozionale, quanto più viene rescissa la volontà di riallocare il ruolo della donna all’interno di un’analisi organica al materialismo storico e dialettico. Il lavoro di ricucitura, in questo senso, è enorme, ma non impossibile perché ve ne sono gli elementi. Lo stesso Marx, infatti, individua nei rapporti sociali di produzione (L'Ideologia tedesca) il ruolo centrale della ri-produzione, parlando di "produzione della vita, come frutto sia del lavoro che della procreazione della vita". Quindi, perché i mezzi di produzione possono avere un ruolo nel materialismo storico e non godere dello stesso "privilegio" i mezzi di riproduzione della vita stessa? Se le questioni legate alla sopravvivenza hanno una matrice storica, avendo peraltro determinato i rapporti sociali, il modo con cui queste si realizzano non dipende forse anche dal lavoro di cura e dalla procreazione?. Il capitalismo patriarcale ha separato artatamente queste due concezioni del lavoro, così come non ha mai tenuto conto dei limiti allo sviluppo imposti dagli elementi naturali, per garantirsi uno sfruttamento indiscriminato sia della donna che della natura.

3.6. Evoluzionismo e genetica

Secondo le teorie di Darwin e Wallace e le successive, conseguite attraverso la sperimentazione scientifica e la ricerca - l’ambiente - inteso come l’integrazione tra il bioma (insieme degli organismi viventi) e il biotopo (substrato inanimato su cui si sviluppa la vita in tutte le sue forme), in un rapporto di dipendenza che si realizza negli interscambi di energia e materia - esercita su individui della stessa specie pressioni selettive (selezione naturale) tali da consentire il permanere nel tempo di quei caratteri fenotipici che meglio si adattano alle condizioni ambientali in un dato momento consentendo la sopravvivenza della specie. Al variare delle condizioni ambientali, le specie che manifestano una maggiore variabilità di caratteri si troveranno, quindi, favorite perché nel proprio ambito vi saranno alcuni individui con manifestazioni fenotipiche più adatte alla nuova situazione. Quanto detto rappresenta - in modo estremamente sintetico e non certamente esaustivo - il fondamento dell’evoluzionismo, le cui spiegazioni biomolecolari si ritrovano in alcune proprietà chimiche del materiale che contiene in sé codificati i caratteri degli esseri viventi, il DNA. Le trasformazioni dell’ambiente agiscono, cioè, da selettori per le sequenze del DNA, scegliendo nel pool genico complessivo di una determinata specie quelle che codificano per i caratteri più idonei alla sopravvivenza - nell’immediato - dell’individuo singolo e - in prospettiva - della specie.

Le condizioni ambientali possono mutare in modo naturale - e per centinaia di milioni di anni è stato solo così - influenzando "naturalmente" il pool genico delle specie. Le pressioni antropiche dell’uomo sull’ambiente hanno determinato modificazioni delle condizioni naturali tali da produrre un’azione della selezione naturale differente da quella che sarebbe avvenuta spontaneamente. Potremmo parlare, in definitiva, di una manipolazione genetica indiretta. La branchia della biologia che si occupa specificamente della trasmissione del materiale genetico (ereditarietà) e che pone cioè le basi biomolecolari per spiegare il processo evolutivo delle specie, è la genetica, disciplina che negli ultimi decenni ha subito un accelerazione tale, da non escludere in futuro ulteriori sviluppi imprevedibili nelle sue applicazioni.

In tal senso si pone urgente il problema di capire come sia possibile gestire l’evoluzione scientifica in questo campo o, in altre parole, se le conoscenze sempre maggiori nel campo della genetica e della biologia molecolare avranno un peso determinante nella direzione del miglioramento complessivo della qualità della vita o non saranno piuttosto indirizzate verso la produzione di nuovi strumenti per l’estensione del dominio di classe, attraverso la mercificazione del materiale genetico.

Per far questo è necessario inquadrare il fenomeno in chiave storica e rapportarlo con i modi di produzione, così come si sono realizzati nel processo di transizione dalle società primitive sino a quelle post-industriali.

3.7. La manipolazione genetica

Come già accennato, si può parlare di manipolazione genetica nello stesso momento in cui, modificando le condizioni ambientali, si consente che la selezione naturale operi in una direzione non naturale. In realtà questo meccanismo avviene in modo del tutto indiretto e con la totale inconsapevolezza da parte degli uomini, sia perché in un primo momento del tutto privi delle opportune conoscenze scientifiche sul processo evolutivo, sia perché i tempi con cui esso si manifesta sono incompatibili con l’osservazione diretta. Una forma ancora indiretta di manipolazione genetica è quella che riguarda l’antica pratica degli incroci selettivi di animali d’allevamento con lo scopo, in questo caso voluto e verificabile in tempi brevi, di ottenere individui con determinati caratteri più pregiati La manipolazione genetica è, quindi, un’esperienza ben più antica dello studio dei meccanismi biomolecolari di trasmissione dei caratteri ereditari ed è nata con le prime trasformazioni indotte sull’ambiente dall’uomo e con i primi successi di ibridazione praticati da contadini e pastori già migliaia di anni fa. Incroci selettivi di piante ed animali sono stati elementi presenti nella cultura dell’uomo sin dalle prime esperienze di stanzialità cui fecero ricorso gruppi umani primitivi allorché abbandonarono lo status di nomadi-raccoglitori-cacciatori.

In questa fase, proprio in funzione dell’aumento della produttività agricola e pastorale, per garantire risorse sufficienti alle nuove esigenze di una comunità in crescita ed all’espansione delle attività commerciali, iniziano i primi incroci selettivi intraspecifici tra animali e piante. Senza che se ne conoscessero i meccanismi biologici, in queste società primitive iniziano a prodursi processi indiretti di manipolazione genetica. Si superano cioè gli elementi di casualità negli incroci tra individui animali e vegetali così come si realizzano liberamente in natura, per introdurre metodiche predeterministiche che, senza essere ancora scienza, divengono i punti di riferimento paradigmatici per una nuova disciplina, la genetica, ancora distante dall’essere concepita in quanto tale. Lo stesso Mendel iniziò i suoi esperimenti dopo aver osservato i contadini, i pastori e la loro abilità nell’incrociare individui con particolari caratteri utili, al fine di predeterminarne una progenie che presentasse vantaggi per la produzione agro-pastorale. Chiarisce Darwin: "Quando cominciai a raccogliere le mie osservazioni, mi sembrò che un accurato studio degli animali addomesticati e delle piante coltivate mi avrebbe offerto il modo migliore per venire a capo di questo oscuro problema. E non sono rimasto deluso: in questo, come in tutti gli altri casi imbarazzanti, ho scoperto invariabilmente che le nostre conoscenze sulle variazioni dovute all’addomesticamento, per quanto imperfette, offrivano le indicazioni migliori e più sicure. Per questo mi permetto di esprimere la mia convinzione che questi studi sono validissimi, anche se in genere i naturalisti li trascurano" (Charles Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale).

L’uomo ha quindi da tempo innescato meccanismi indiretti che mutano le condizioni del pool genico naturale. E’ tuttavia necessario rimarcare come queste trasformazioni, pur indotte dall’uomo, avvengono in seguito a processi adattativi che utilizzano meccanismi del tutto naturali, come la selezione naturale e la riproduzione sessuale. Di conseguenza, in particolare gli incroci selettivi intraspecifici, portavano a mutamenti progressivi nelle specie di un qualche interesse per l’uomo (sia alimentare che, più in generale, per la produzione di materie prime da trasformare anche in funzione del commercio) ma, data la loro condizione naturale (accoppiamenti sessuali intraspecifici), liberamente accessibili.

L’utilizzo di queste metodiche si sviluppa con ritmo relativamente lento sino all’epoca della rivoluzione industriale allorché le trasformazioni sociali ed economiche subiscono un’accelerazione talmente rapida da ripercuotersi in modo significativo anche su queste attività. Proprio nella fase immediatamente successiva alla rivoluzione industriale, in un contesto di massima espansione dell’economia mercantile e del capitalismo, si tenta di sostituire l’empirismo tipico di contadini e pastori, con tecniche di ibridazione sempre più perfezionate ed efficienti.

Nell’economia capitalistica, l’utilizzo dell’ibridazione mediante meccanismi riproduttivi naturali, quindi alla portata di tutti, risultava incompatibile con il dominio di classe sul modo di produzione.

La chiave di volta di questa situazione è rappresentata, nel 1935, dal brevetto del primo mais ibrido ottenuto negli Stati Uniti. Questa particolare varietà vegetale ottenuta in laboratorio, presentava due vantaggi: quello di garantire coltivazioni più redditizie e quello di essere dotata di semi sterili, incapaci, cioè, di dar vita a nuove piante. Era questa seconda caratteristica che modificava totalmente i rapporti di forza nella produzione di derrate alimentari di origine vegetale, con l’introduzione di un controllo monopolistico sul primo anello della catena alimentare: il seme. Gli agricoltori che volevano tenere il mercato erano quindi costretti ad acquistare i semi di mais ibrido direttamente dall’azienda che li produceva, abbandonando il vecchio sistema di tenere per sé una parte del raccolto per la semina. Si era determinata la prima esperienza di dipendenza per l’approvvigionamento alimentare dalle grandi multinazionali.

3.8. La mercificazione del materiale genetico

Attualmente i grandi gruppi industriali che detengono il monopolio per le sementi, le cui varietà ibride e sterili sono enormemente aumentate, tendono a fondersi o a rilevarne altri, agendo in un regime monopolistico e creando cartelli, sottraendosi cioè persino alle regole del mercato.

L’avvento del mais ibrido pone un problema irrisolto che è quello che deriva dalla considerazione che la ricerca scientifica viene deprivata di una sua logica interna, venendo piuttosto efficacemente pilotata secondo precisi interessi di classe. In questa direzione riportiamo da Peace news dell’aprile del 1997 un breve scritto di Vandana Shiva (Research Foundation for Science, Technology, and Natural Resource Policy, India): "Il 1996 ha rappresentato uno spartiacque per quanto riguarda la presa di coscienza delle persone su come l’ingegneria genetica venga propagandata quale unica tecnologia per far crescere e lavorare il cibo.

Nonostante le resistenze dei consumatori, la ‘soia transgenica’ della Monsanto è stata buttata sui mercati europei. Quando i consumatori europei hanno chiesto che a questo prodotto venisse applicata un’etichetta specifica, il segretario statunitense dell’Agricoltura ha dichiarato che questa era un’interferenza nel libero commercio’, affermando inoltre che ‘dobbiamo assicurarci che la scienza prevalga, non quella che io chiamo cultura storica, che non è basata sulla scienza. L’Europa è molto sensibile alla cultura del cibo in contrapposizione alla scienza del cibo. Ma nel mondo moderno, il nostro compito è continuare a sviluppare la scienza. La buona scienza deve prevalere in queste decisioni’.

Ma il conflitto non è tra ‘buona scienza’ e ‘cultura storica’, bensì tra due diverse culture scientifiche - quella della democrazia nella scienza in contrapposizione alla cultura della scienza delle aziende basata sul controllo totalitario e monopolistico. Se né il consumatore né il produttore hanno alcuno spazio per esercitare le loro libertà e proteggere i loro diritti, e se l’ingegneria genetica può essere introdotta nel sistema alimentare solo cancellando i diritti fondamentali dei cittadini in quanto agricoltori o consumatori, ebbene allora l’ingegneria genetica diventa una forma di ‘tecnofascimo’. Solo una società fascista negherebbe ai consumatori il diritto di sapere cosa stanno mangiando e agli agricoltori il diritto di ripiantare ciò che hanno coltivato.

D’altra parte, se i consumatori avessero davvero libertà di scelta attraverso un’etichetta applicata sul prodotto, il mercato dei cibi trattati geneticamente diminuirebbe. Se gli agricoltori avessero il diritto di mettere da parte e scambiarsi liberamente i semi, il mercato dei semi trattati geneticamente sparirebbe.

Senza tecnofascismo nei supermercati e nei campi degli agricoltori, l’ingegneria genetica non può essere imposta alla gente. L’ingegneria genetica può fare il suo ingresso nei supermercati solo negando al consumatore il ‘diritto di sapere’ e il ‘diritto a scegliere’ e sovvertendo le regole della biosicurezza. Solo attraverso l’imposizione di ‘diritti di proprietà intellettuale’ i semi sviluppati dall’ingegneria genetica possono apparire nei campi coltivati.

(...) Negli ultimi anni la Monsanto ha comprato diverse piccole aziende di biotecnologia così come grandi compagnie che si occupavano di semi (...). Così il seme, il primo anello della catena alimentare, cadrà nelle mani di pochi giganteschi monopoli che non devono rendere conto a nessuno, il cui funzionamento non è trasparente e che controllano l’intero sistema alimentare agricolo.

Secondo un documento nato dalle consultazioni tra la Monsanto e l’US Food and Drug Agency, ‘la nuova varietà di soia non è materialmente differente in composizione, sicurezza o altri parametri rilevanti dalle varietà di soia attualmente presenti sul mercato.’ Dunque, parlando di sicurezza, non vi è alcuna ‘novità’ nella nuova soia.

Ma quando si arriva al brevetto e ai diritti di proprietà, la nuova soia è si una novità. Essa è infatti protetta da diversi brevetti USA e gli agricoltori devono sottoscrivere un accordo che li costringe a usare peri loro raccolti solo i nuovi fagioli di soia e a non tenerne per sé nessuno. Questo dà alla Monsanto il potere sui loro eredi e sui loro rappresentanti e il diritto a perquisire le proprietà dei contadini per i tre anni dalla vendita del seme. In più, l’agricoltore deve pagare per ogni 23 chili di semi cinque dollari di tassa tecnologica. Dunque gli agricoltori non hanno diritti; e la Monsanto non ha responsabilità, né verso gli agricoltori né verso i consumatori" (da Guerre & Pace, Settembre 1997).

Riguardo la corsa all’accaparramento dei brevetti relativi ad esperienze di ingegneria genetica e di manipolazione del DNA, si può far riferimento alla pubblicazione sulla rivista Nature dell’esperienza che portò al clone della pecora Dolly. Questa pubblicazione fu fatta circa sei mesi dopo la conclusione dell’esperimento, per evitare pubblicità sul protocollo seguito, prima che questo fosse brevettato in ogni sua singola parte. Ma l’esempio forse più eclatante cui si può far riferimento, rispetto al rischio di mercificazione del materiale genetico, sta nel numero 5.397.696 (fonte Guerre & Pace, Settembre 1997) che è quello attribuito al governo statunitense nel 1995 per il brevetto con cui si registrava la sequenza del DNA di un indigeno di una tribù montana della Nuova Guinea, costituita da circa 200 individui. Il povero indigeno, ovviamente non informato della cosa, non era più esclusivo proprietario del suo codice genetico. Questo evento paradossale pone un problema: è possibile - da parte di chi ha i mezzi per farlo - aggiudicarsi, semplicemente comprando o registrando un brevetto, la biodiversità.

3.9. Impatto ambientale della manipolazione genetica

Il DNA non ha più segreti, e questo rappresenta una conquista straordinaria per la comprensione dei complessi rapporti che intercorrono tra l’uomo e l’ambiente, ma solo se le conoscenze verranno spese per il miglioramento complessivo della qualità della vita.

Esiste invece un problema legato anche alla comprensione dell’impatto ambientale delle sperimentazioni in ingegneria genetica e per il quale occorre una riflessione.

E’ un dato scientificamente acquisito che il meccanismo di duplicazione del DNA è - ed ancora di più lo è man mano che si sale nella scala evolutiva - talmente perfetto da non essere rilevanti, ai fini evolutivi, le differenze che intercorrono tra soggetti che non fanno ricorso ai normali meccanismi di incremento della variabilità genetica (la riproduzione sessuale o altri meccanismi sostitutivi di essa). Un dato importante, a conferma di questo, ci viene dato dall’osservazione dalle numerose specie che si sono estinte per l’accumulo di mutazioni negative nello stesso ceppo, a causa del blocco (naturale o indotto, ad esempio, dalle pressioni antropiche) di questi meccanismi di "assicurazione" della variabilità genetica.

L’introduzione di tecnologie di ingegneria genetica, in sostituzione dei normali criteri di ibridazione che avvengono in natura, è, come abbiamo visto, generalmente appannaggio esclusivo delle grandi multinazionali. Queste hanno tutto l’interesse a che la variabilità genetica in seno ad una stessa specie di un qualche interesse economico sparisca, per essere, in una condizione di monopolio, gli unici proprietari di patrimoni genetici da smerciare a prezzi ricattatori. In particolare, come è già accaduto per molte specie vegetali, l’immissione di specie ibride (piante a sviluppo rapido per colture a grande produzione, ad esempio), ottenute con processi di manipolazione genetica, ha spesso indotto, per evitare reincroci e quindi inquinamenti genetici, ad eliminare le specie endemiche, diminuendo la possibilità di variazione genetica. Le piante frutto delle esperienze di ingegneria genetica hanno un corredo genico estremamente standardizzato e tenuto rigorosamente sotto controllo, proprio per garantire il massimo della produttività e di dipendenza dei coltivatori dal detentore dei brevetti.

Le piante endemiche o semplicemente autoctone, sono invece il frutto di una selezione naturale vecchia di millenni ed hanno quindi un vasto campionario intraspecifico di mutazioni geniche che codificano per diversi caratteri. In caso di modificazioni traumatiche dell’ambiente, sia di origine naturale, sia indotte dall’uomo, le specie naturali posseggono una varietà genetica nel cui ambito è possibile ritrovare caratteri in grado di resistervi. Stesso ragionamento per quanto riguarda agenti patogeni o tossinfezioni. Un patogeno che colpisce una coltivazione di piante transgeniche senza caratteri utili a resistervi, può determinarne la distruzione totale dei raccolti. Nel ceppo vegetale naturale, il pool genico potrebbe invece contenere caratteri utili a resistere all'infezione. Allontanandolo per sostituirlo con uno frutto di ingegneria genetica e dotato di scarsissima variabilità genica, rende quindi problematico ricostruire in tempi brevi la piantagione.

Uno degli aspetti più nuovi collegati alle esperienze di manipolazione genetica e di ingegneria genetica è da riferire alle nuove frontiere aperte dalla clonazione. Tralasciamo gli aspetti sul controllo della sperimentazione e dei suoi risultati, cui abbiamo già fatto cenno, e cerchiamo di comprendere, sia pure sommariamente, in cosa consiste la clonazione di un soggetto animale o vegetale. Nel caso di Dolly, che è il clone ormai più famoso, la sua nascita è stata possibile grazie al trapianto del materiale genetico di una pecora femmina della razza Welsh mountain (caratterizzata da una folta lana bianca) nell’utero di una pecora Scottish Blackface (con lana nera). La seconda ha concluso felicemente la sua gravidanza, dando alla luce una copia esatta della prima, sia per aspetto (fatte salve le evidenti differenze dovute all’età), sia per la completa corrispondenza del materiale genetico. Dolly non ha cioè un padre ma due madri.

In futuro sarà possibile ottenere una produzione in serie di questi cloni, "aggiustando" il materiale genetico attraverso esperienze di ingegneria molecolare per ottenere pecore, vacche o altri animali d’allevamento ad alto rendimento. Se si prospetta la diffusione su larga scala dei meccanismi di clonazione, si può ipotizzare che tutte le specie bovine (ad esempio) siano soppiantate da un unico ceppo frutto di clonazione e posto nell’incapacità di mutare il proprio codice genetico (produzione in catena di montaggio di individui tutti uguali). Una qualsiasi patologia cui il ceppo risultasse non resistente, o l’introduzione in un ambiente non idoneo (ad esempio per ragioni climatiche), potrebbe sterminare molti individui, mettendo in ginocchio le economie di mezzo mondo. Tutto questo può accadere sino a quando gli interessi degli sperimentatori coincideranno con quelli delle multinazionali proprietarie dei brevetti.

Alcuni esempi possono chiarire meglio questi concetti. In Australia furono immessi conigli che, vincendo la competizione per l’alimentazione con le specie che occupavano la loro stessa nicchia ecologica (i canguri), hanno rischiato di provocarne l’estinzione oltre a determinare danni consistenti ai raccolti. Si intervenne allora con un agente patogeno che decimò i conigli ma non riuscì ad ucciderli tutti proprio perché, grazie alla riproduzione sessuale che aumenta la variabilità genetica, si selezionarono naturalmente ceppi resistenti. Ceppi non naturali o ottenuti mediante semplice clonazione non avrebbero avuto difese contro l’agente patogeno e si sarebbero totalmente estinti.

L’impatto negativo senza che vi sia un controllo democratico e razionale a monte sull’applicazione delle biotecnologie e sullo studio delle sue possibili conseguenze, è testimoniato anche nella diffusione della mucca olandese nelle aree siciliane in cui originariamente era allevata la mucca rossa modicana. Una differenza tra le due specie è nella qualità del latte: di elevata qualità organolettica ma molto meno abbondante quello della mucca autoctona, mentre le olandesi ne producevano molto di più ma meno pregiata. Si privilegiò l’allevamento di quest’ultima e la rossa modicana è ormai in pericolo d’estinzione.

I giochi di potere tra gli Stati della Comunità europea ha poi imposto "le quote latte", per cui, nel territorio della provincia di Ragusa, (dove la mucca modicana era autoctona) si è finito con l’avere latte di qualità meno pregiata ed in quantità forzatamente tenute basse. Ma c’è di più: la mucca rossa modicana era perfettamente compatibile con la qualità del foraggio naturalmente a disposizione nell’area (ad esempio riusciva a mangiare le foglie più basse degli alberi di carrubo) ed era abituata al clima arido del tavolato ibleo in cui viveva; la razza olandese invece era stata selezionata in condizioni totalmente diverse e richiedeva cure aggiuntive che, in una fase di stock di produzione controllato, non possono essere garantite con conseguenze che si possono immaginare sul livello della produzione. Adesso si tenta di correre ai ripari con un piano di recupero e salvaguardia della razza modicana.

La produzione agro-pastorale su scala industriale, senza un rapporto stretto tra ciò che si coltiva e il territorio in cui vengono ubicate le coltivazioni, con le sue realtà ambientali, economiche e sociali, può creare situazioni catastrofiche che soltanto il cinismo di chi detiene il controllo sui mezzi di produzione può ignorare.

La "rivoluzione verde", che doveva dare risposte concrete alla grave crisi alimentare ed economica indiana, non ha affatto dato i risultati sperati. Il suo avvio in India risale ai primi anni ’70 con l’introduzione su terre idonee di sementi ad alto rendimento, fertilizzanti e tecnologie meccaniche per l’agricoltura, avanzate. Dopo un boom iniziale, la crescita della produzione si è stabilizzata su standard non superiori a quelli pre-rivoluzione verde. Ad esempio la crescita annuale media del riso nel periodo della rivoluzione verde (1974 - 1984) era attestata intorno al 2,46%. Nel periodo tra il 1949 e il 1961 era del 2,72%. Per il grano la situazione non migliora di molto. Inoltre la possibilità di estendere l’esperienza si è fermata, per evidente incompatibilità tra le sementi adottate e particolari tipi di suolo più povero, ad un quinto solo dell’intero territorio coltivabile del paese, acuendo le contraddizioni in una realtà dove le differenze di produttività tra un’area e l’altra, erano già elevatissime.

Le cause di questo deludente risultato sono da ricercare, per una buona dose, nell’eccessivo uso dell’ingegneria genetica che, se da un lato permette di migliorare i metodi di coltivazione, dall’altro contribuisce ad un’elevata selezione delle piante che popolano l’ambiente, impoverendo in modo irreversibile la biodiversità. La "rivoluzione verde" ha infatti lo scopo precipuo di tentare di connettere una realtà alle economie di scala e viene quindi realizzata con estese piantagioni monocolturali, da cui vengono asportate le piante endemiche. Le vaste monocolture sono poi estremamente sensibili agli agenti patogeni cui invece le specie autoctone erano sicuramente meglio adattate per i meccanismi già descritti.

Quello delle monocolture su aree molto vaste è un problema strettamente connesso all’ingegneria genetica applicata in agricoltura. Lo sviluppo tecnologico nel campo delle macchine agricole e della manipolazione genetica, tende a sostituire la manodopera umana per consentire l’incremento del plusvalore. Piuttosto che adattare le macchine alle coltivazioni si cerca di introdurre piante che abbiano tutte la stessa altezza e la stessa produttività e questo si ottiene tramite l’utilizzo di ceppi transgenici a crescita controllata e sterili, per evitare il reincrocio con specie autoctone che ne modificherebbero le caratteristiche. La meccanizzazione degli impianti, lungi dall’essere stata concepita per affrancare l’uomo dal lavoro duro dei campi, ha un effetto negativo devastante sull’ambiente

3.10. La biodiversità

Proprio questi meccanismi hanno prodotto la perdita di specie e, quindi, la riduzione della biodiversità.

Per diversità biologica si intende la varietà delle forme di vita, l’esistenza e la conoscenza delle quali si misura nella nostra capacità di prevedere gli effetti sull’ecosistema della sottrazione di specie animali o vegetali. La sua conservazione è, quindi, l’assicurazione per le future generazioni di non dovere fare i conti con modificazioni catastrofiche dell’ambiente. La perdita della biodiversità si manifesta sotto forma di erosione del patrimonio genetico, cioè con il prelievo irreversibile dagli ecosistemi delle informazioni contenute nel DNA delle specie che si sono estinte: è, in sintesi, la restrizione sino all’annullamento (estinzione) della complessità, in seguito a pressioni indotte, direttamente o indirettamente, dalle attività umane. Minore è la quantità di patrimonio genetico delle specie presenti in un dato ecosistema, minore sarà la possibilità che questo ha di sopravvivere a variazioni anche minime prodotte da stress ambientali (naturali o derivanti da pressioni antropiche).

A determinare la scomparsa di specie non vi è soltanto l’inquinamento o la caccia o, ancora, lo stravolgimento delle condizioni geologiche di un ambiente a causa di persistenti attività umane (cementificazione selvaggia, estrazione, emungimento della falda, allagamenti indotti con la costruzione di dighe, sbancamenti ecc.), ma anche l’utilizzo incontrollato delle biotecnologie per l’introduzione di nuovi ceppi vegetali o animali, selezionati ed introdotti in ecosistemi dove entrano in competizione ecologica con le specie naturali. La strategia perseguita, anche in questo caso alla ricerca della massimizzazione del profitto nel breve periodo (per avere pomodori più grossi e rossi, frutta senza semi o piante che fioriscono più volte in un anno...), è simile a quello del cane che si morde la coda: se da una parte si tende, infatti, ad ottenere prodotti sempre migliori attraverso le tecnologie di selezione, dall’altro si eliminano le materie prime per gli incroci selettivi, cioè quelle specie naturali - o selezionate dalle arti empiriche di contadini e pastori di un tempo - che sono dotate di maggiore malleabilità genetica e, quindi, di maggiori capacità di adattamento alle trasformazioni ambientali delle specie derivate dalle moderne biotecnologie.

Il problema si complica ulteriormente se si fa riferimento all’estinzione di specie naturali (soprattutto vegetali) nei P.V.S. Qui la perdita della biodiversità si realizza principalmente con l’estensione delle monocolture, dei pascoli e del prelievo di legname a danno delle foreste (le fonti primarie della biodiversità). Le sementi dei vegetali i cui habitat naturali sono stati distrutti, vengono poi conservati per gli innesti selettivi nelle grandi banche del seme dell’occidente, rimanendo quindi ad esclusiva disposizione delle grandi potenze industrializzate e ponendo i P.V.S. in una condizione di ricatto permanente e di dipendenza assoluta dalle biotecnologie occidentali. Si innesca cioè un mercato perverso del materiale genetico che svantaggerà i paesi in via di sviluppo, non dotati delle necessarie biotecnologie, reperibili soltanto ai prezzi imposti da un mercato drogato dai monopoli.

La complessità biologica è quindi in pericolo, la semplificazione è morte ed è tragicamente in agguato. Essa ha delle manifestazioni eclatanti: il taglio di una foresta, il buco nell’ozono, l’effetto serra, ma più subdola ancora è quando non è immediatamente percettibile: L’80% dell’ossigeno contenuto nell’atmosfera, ad esempio, è il prodotto dell’attività fotosintetica del fitoplancton, la cui biomassa rischia di ridursi pericolosamente a causa dell’inquinamento delle acque.

3.11 Una prospettiva nella consapevolezza

Il quadro prospettato può essere interpretato come disarmante ma tanto più si manifesta l’irrazionale atteggiamento umano se si valuta che ulteriori progressi della scienza (di cui ribadisco la necessità di una riconquista di indipendenza dal potere economico) metteranno in luce altri fattori di crisi.

La strada per affrontare questi temi è tracciata ma occorre uno sforzo straordinario senza preconcetti ed il rilancio di un interscambio costante tra donna-uomo, specie umana-natura, scienza-natura, vita-morte. In verità oggi assistiamo piuttosto ad una consapevolezza, anche se marginale, dell’importanza di queste questioni, ma il modo con cui le affrontano, donne, uomini, ambientalisti, in ordine sparso contro lo stesso obiettivo classista, rasenta l’ottusità, diventa organico ad una concezione borghese della vertenza, corporativizza le lotte e le vanifica nei mille meandri della parcellizzazione.

Fonte: ISTITUTO DI STUDI COMUNISTI Karl Marx - Friedrich Engels - Contatto - www.istcom.it

Altre fonti


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019