MARX E WEBER SULL’EVOLUZIONE
DELLE FORME ECONOMICHE E SOCIALI
OSSERVAZIONI CRITICHE DI
GALARICO
- Il protestantesimo ebbe per così dire il merito di aver
portato alle loro più logiche o estreme conseguenze delle
posizioni religiose già latenti nel cattolicesimo-romano, già
abbozzate dalla teologia Scolastica. Esso si pose il compito di
dimostrare che la prassi borghese, pur nel proprio
individualismo, avrebbe potuto pretendere una maggiore coerenza
con gli ideali cristiani, rispetto a quella dimostrata dalle
classi nobiliari, di toga e di spada, e lo fece non tanto
alzando il livello di praticabilità dei valori cristiani quanto
abbassando di quest'ultimi le pretese ideali.
La Riforma non fece che trasferire sul piano sociale quell'individualismo
che il cattolicesimo aveva sostenuto, in maniera decisiva nel
basso Medioevo, sul piano politico, imponendo nella parte
occidentale dell'impero bizantino l'assoluta monarchia del
papato, che pretendeva servirsi dell'imperatore (a partire da
Carlo Magno) come di un proprio "braccio secolare". Con la differenza che mentre questa monarchia
teocratica non poteva
strutturalmente concedere alla borghesia un'ampia
rappresentatività politica, pena il veder minacciate le
fondamenta del proprio potere temporale, il protestantesimo
invece, ridotto il papato a una semplice espressione religiosa,
poteva permettere alla borghesia di agire indisturbata in senso
praticamente anticristiano, benché, nel momento in cui la
Riforma venne posta, l'emancipazione economica della borghesia
fu considerata del tutto compatibile col rispetto integrale dei
principi cristiani originari. Di qui la nascita di quel
personaggio ibrido, residente in contesti urbanizzati, privo di
radici sociali, abituato a lunghi viaggi in cerca di fortuna,
che, mentre
formalmente salva le apparenze dei valori religiosi dominanti,
nella prosaicità della vita quotidiana e soprattutto nell'ambito
dei propri affari commerciali si comporta in modo tutt'altro che
cristiano.
- Gli aspetti culturali del cattolicesimo-romano che più
favorirono, indirettamente, la nascita di rapporti
individualistici di tipo borghese in campo socio-economico,
furono non solo l'accentuazione del ruolo monarchico del papato
(che per imporsi ebbe bisogno di ampio consenso sociale), ma
anche la trasformazione (conseguente) della teologia patristica
in una filosofia religiosa razionalista, influenzata
dall'aristotelismo, passata poi alla storia col nome, prima, di
Scolastica e, successivamente, di Tomismo.
Storicamente è indubbio che la nascita, presso i Comuni
italiani, dei rapporti mercantili-monetari sia stata contestuale
alla svolta autoritaria e filosofica della chiesa romana. La
rottura radicale col mondo bizantino è andata di pari passo con
l'apertura di credito alla prassi mercantile della neonata
borghesia. Quanto si siano reciprocamente influenzati i due
fenomeni è difficile dirlo e forse anche inutile saperlo; quel
che è certo è che la riforma gregoriana non costituì affatto un
ostacolo allo sviluppo di rapporti sociali che di cristiano
avevano solo l'involucro esterno.
E' quindi completamente da rivedere il giudizio secondo cui col
basso Medioevo si cercò di realizzare una teocrazia feudale così
autoritaria da rendere impossibile uno sviluppo borghese
dell'economia o da rendere inevitabile, per reazione, la
cosiddetta "riforma protestante". In realtà la Riforma non fece
che collocarsi sulla scia di quel movimento di protesta che
voleva assegnare alla classe emergente, quella appunto borghese,
già abbondantemente emancipata sul piano economico, i necessari
poteri politici utili ad ampliare notevolmente il proprio
prestigio, fino a definirsi in maniera istituzionale.
- Volendo si potrebbe qui precisare che quando dalle campagne
cominciò il deflusso verso le città, il capitalismo mercantile e
manifatturiero aveva già da tempo posto le proprie basi
economiche. La prima borghesia s'arricchì col commercio a
distanza, quello dei prodotti esotici, costosi, rari, che non
coinvolse affatto le masse contadine; la seconda lo fece
vendendo in loco manufatti artigianali presi ovunque
(determinando quindi la separazione delle mansioni rurali e
artigianali che fino a quel momento erano coesistite nella
figura del contadino); la terza borghesia s'arricchì andando
nelle campagne a organizzare una manifattura sparsa, e qui il
ruolo operaio delle donne fu determinante; la quarta infine fece
la sua fortuna concentrando la manifattura nelle città, e fu
solo a questo punto che cominciò a verificarsi l'esodo di massa
dalle campagne.
Tra la prima borghesia e l'ultima vi furono enormi mutamenti di
mentalità e di stili di vita, che ebbero bisogno di non pochi
secoli prima d'imporsi all'intera collettività, e in questa
transizione la borghesia dovette fare in modo che il giudizio
nettamente negativo che la pubblica opinione (specie il mondo
contadino) nutriva nei suoi confronti (più in basso del mercante
stava soltanto l'usuraio), si trasformasse in un giudizio
sufficientemente favorevole alla realizzazione di valori e
modalità economiche come p.es. l'investimento produttivo, il
lavoro contro la rendita, il sacrificio e il rischio personali,
lo spirito d'iniziativa, la possibilità di farsi da sé partendo
quasi da nulla, ecc.
Senza il contributo della chiesa romana prima e di quella
protestante dopo sarebbe stata impossibile una trasformazione
del genere. Infatti l'accettazione di un lavoro salariato e
quindi la rinuncia al servaggio, non sarebbero mai potute
avvenire senza la necessaria convinzione di poter radicalmente
migliorare le proprie condizioni di vita.
La borghesia riuscì a svolgere un enorme lavoro di propaganda
ideologica che portò le masse contadine a credere che
l'alternativa al servaggio non sarebbe stata la riforma agraria
che spezzasse il latifondo, ma lo sviluppo dell'industria
capitalistica.
- In tal senso non può essere sufficiente sostenere che un
semplice aumento della popolazione fosse in grado di peggiorare
drasticamente le condizioni di approvvigionamento alimentare
delle masse contadine, al punto da rendere indispensabile un
ripopolamento delle città. Questo fenomeno, preso in sé e per
sé, non può aver inciso sulla nascita del capitalismo. Semmai
l'esodo è stato una conseguenza di quello sviluppo.
Certo, è vero che se, contestualmente all'aumento della
popolazione rurale, non si risolvono le contraddizioni sociali
peculiari al servaggio, la pressione demografica può mettere
seriamente in discussione il nesso tra forze e rapporti
produttivi. Ma la riurbanizzazione delle vecchie città romane
non è stata affatto un fenomeno provocato dalla
sovrappopolazione rurale: è singolare che mentre da un lato si
accusi di economicismo l'analisi materialistica di Marx,
dall'altro si dia una spiegazione priva di riferimenti culturali
ed economicamente debole della transizione dal feudalesimo al
capitalismo.
Lo sviluppo dell'Italia comunale si configurò in realtà come un
movimento di protesta (della borghesia ma anche della piccola
aristocrazia) contro lo strapotere della grande nobiltà, laica
ed ecclesiastica. E in questa forma di protesta la borghesia
trovò la chiesa latina, già presente nelle diocesi urbane,
un'alleata più o meno consenziente, e certamente ignara del
fatto che la prassi mercantile le sarebbe stata un giorno più
dannosa delle proteste contro il servaggio.
Qui occorre nuovamente ricordare che il risorgere di un'economia
mercantile è avvenuto in Europa occidentale contestualmente alla
riforma teopolitica di Gregorio VII e allo scoppio delle
crociate, cioè proprio nel momento in cui si predicava la
riforma morale della società attraverso l'obbedienza al
protagonismo politico del papato, si favorivano processi
economici che non avrebbero fatto altro che peggiorare la
dilagante corruzione.
- La tesi di Weber relativa al fatto che, senza l'apporto del
Protestantesimo (specie nella sua variante calvinista), non
sarebbe mai nato il capitalismo, può senza dubbio costituire un
valido contrappeso a quelle analisi meccanicistiche che vedono
solo nei processi economici la molla dei mutamenti storici.
E tuttavia anche quella tesi oggi ha bisogno di ulteriori
precisazioni, e proprio in riferimento al fatto che ben prima
della nascita del protestantesimo s'andarono sviluppando delle
riflessioni culturali, in campo ovviamente religioso (essendo il
cristianesimo l'ideologia dominante), che porteranno poi al
sorgere del capitalismo.
Non fu forse Marx a sostenere che nell'Italia bassomedievale si
formarono sul piano socioeconomico le prime avvisaglie di quello
che poi sarebbe divenuto in Inghilterra il capitalismo in forma
"classica"? Ma l'Italia dei Comuni medievali non era forse di
religione cattolico-romana? Ebbene quali aspetti di questa
confessione, così peraltro fortemente legata all'esperienza
feudale dell'economia, permisero la nascita di quei presupposti
che portarono alla nascita del capitalismo? Quei presupposti,
peraltro, che trovarono nei movimenti pauperistici ereticali da
un lato degli strenui oppositori della ricchezza, in nome di
un'eguaglianza democratica in stile evangelico, e dall'altro
degli involontari sostenitori delle "nuove ricchezze", proprio
in quanto una critica serrata delle istituzioni dominanti, in
primis quella ecclesiastica, non faceva che spianare la
strada alla grande riforma protestante.
- In realtà oggi può anche risultare irrilevante sapere se
siano gli aspetti economici, in ultima istanza, a determinare le
svolte storiche, o se non siano invece quelli culturali. La
reciproca influenza di cultura ed economia dev'essere data per
scontata, anche perché la credibilità di una teoria scientifica,
rispetto a un'altra, si gioca piuttosto sulla risposta politica
da dare alle proprie analisi storiche. Cioè il vero discrimen
tra una teoria e l'altra passa sull'interpretazione da dare al
concetto di "transizione".
Esiste infatti una certa differenza tra quelle teorie che vedono
la realizzazione del socialismo democratico come una sorta di
passaggio obbligato del capitalismo maturo, e quelle che invece
ritengono tale passaggio soltanto il frutto di una rivoluzione
politica, culturale e sociale. Marx non arrivò mai a dire che la
transizione sarebbe stata automatica, e Lenin, dal canto suo,
non arrivò mai a credere (come invece Gramsci), ch'essa si
sarebbe potuta verificare in virtù di una graduale conquista
culturale della società civile, proprio perché entrambi sapevano
bene che i proprietari privati dei mezzi produttivi avrebbero
fatto di tutto per restare tali.
- Sotto questo aspetto non si può non notare come
ogniqualvolta la sociologia borghese è costretta a constatare le
assurdità del capitalismo monopolistico, inevitabilmente finisce
col riproporre modalità che ricordano molto il capitalismo
concorrenziale, pur sapendo bene che l'uno è conseguenza
dell'altro.
Cioè pur di non ammettere la necessità di una rivoluzione
politica in direzione del socialismo democratico, si finisce col
sostenere una soluzione massimamente antistorica e quindi
politicamente infattibile.
Questo per dire che la sociologia di Weber non può costituire in
alcun modo un contributo al superamento scientifico di quelle
analisi marxiane più influenzate dall'economicismo. Un
superamento realistico di questi limiti è stato operato, a tutt'oggi,
unicamente da Lenin ed è probabile che un ulteriore progresso
dell'umanità sia possibile soltanto superando le stesse tesi di
Lenin in direzione di un più marcato umanismo.
- Di Weber desta soprattutto sconcerto il fatto che da un lato
egli esalta la razionalità laica del capitalismo occidentale
contro la religiosità pre-borghese, mentre dall'altro è
costretto ad ammettere che questa stessa razionalità può portare
all'alienazione. Dopo essere partito da un'analisi etica
astratta approda a un'analoga conclusione.
Considerare "razionalista" la cultura borghese solo perché alla
religione essa tese progressivamente a sostituire la laicità,
senza considerare, nel contempo, che nella pratica il
capitalismo - come Marx sempre disse e dimostrò - non ha nulla
di "razionale", è stato il principale errore di Weber, che ha
vanificato completamente le sue pur giuste osservazioni relative
alla necessità di tenere in maggiore considerazione la
sovrastruttura.
Tutta l'analisi weberiana del "dualismo etico" pecca
d'ingenuità, in quanto il razionalismo borghese solo
apparentemente esige dei "rapporti eticamente regolati"; nella
sostanza esso impone una netta frattura tra passato e presente,
tra mondo rurale e mondo urbano, tra autoconsumo e produzione
per il mercato... Là dove s'impone il capitalismo c'è
una netta soluzione di continuità per le forme economiche pre-borghesi:
tutto viene completamente stravolto in maniera irreversibile,
salvo che le cose vengano rimesse in gioco da una rivoluzione politica. Far coincidere
"capitalismo e razionalità" oggi avrebbe ancora meno senso che
ai tempi di Weber. La cultura borghese, esattamente come quella
cattolica, è "dualista" per eccellenza.
La stessa interpretazione weberiana del magismo primitivo non
seppe mai tener conto del fatto che quel fenomeno culturale
veniva in realtà vissuto in un contesto sociale in cui il
rispetto della tradizione giocava un ruolo fondamentale
nell'organizzazione del collettivo. In virtù di tale consegna di
conoscenze ancestrali tra le generazioni, che avveniva
attraverso la comunicazione orale, il rapporto che la tribù
aveva con la natura era, rispetto al magismo professato in sede
teorica, molto razionale, in quanto nella pratica ci si
comportava come se l'uomo fosse un essere di natura. Esaminare
separatamente gli aspetti culturali da quelli economici porta
sempre a risultati riduzionistici.
- Ci si chiede insomma se non sia proprio questa ingenuità
idealistica un atteggiamento
rinvenibile nelle stesse classiche posizioni di tipo
"religioso". L'analisi di Weber è la testimonianza più eloquente
che il concetto di "progresso" non si misura affatto sulla base
di un'interpretazione culturale che metta a confronto elementi
di per sé astratti come la religione e la laicità.
Occorre piuttosto verificare se la proprietà dei mezzi
produttivi ha storicamente una gestione "privata" o "sociale". Se non si
chiarisce tale questione di fondo (e al momento si è soltanto
capito che la proprietà "sociale" non può essere gestita da
istituzioni "statali"), qualunque altro discorso sul valore
sovrastrutturale della società borghese, rispetto alle società
precedenti, lascia il tempo che trova, anche perché risulterà
sempre invincibile la tentazione di leggere il passato con
gli occhi del presente, al fine di giustificare le
contraddizioni del presente contro ogni evidenza.
Non è infatti un mistero per nessuno il fatto che l'aver
separato la cultura dall'economia porterà Weber a
rinchiudersi nello stesso circolo vizioso in cui finì Marx per
il motivo opposto. Tant'è che alla domanda come mai, pur
essendo presente il mercantilismo in varie parti del mondo, solo
in Europa occidentale si trasformò in capitalismo, entrambi
risposero "per una serie fortuita di coincidenze storiche",
anche se sicuramente una tale risposta tormentò molto di più
Marx che non Weber.
Resta dunque vero che tutta l'analisi marxiana delle formazioni
economiche pre-capitalistiche va profondamente rivista, sia
perché Marx ed Engels non avevano strumenti sufficienti per
elaborare tesi scientifiche, essendo lo studio di quelle civiltà
appena esordito ai loro tempi, sia perché essi vedevano il
pre-capitalismo come una fase assolutamente da superare e, in tal
senso, giudicavano più favorevolmente proprio quelle realtà che
meno ostacolavano la transizione a forme tecnologicamente più
evolute di civiltà, dove l'iniziativa privata, rispetto alle
esigenze collettive, giocava un ruolo di primo piano. Si veda
comunque a tale proposito il
Commento alle Formen.
- In particolare, leggendo quelle Formen e altri testi
dei due classici del marxismo, si deve escludere tassativamente
che il concetto di "comunismo primitivo" possa essere applicato
a formazioni sociali che non siano "pre-schiavistiche". Se si
includono le "organizzazioni gentilizie" dentro il "comunismo
primitivo" si è già fuori strada. Se si parla di "classi
nobiliari" si presume già una stratificazione sociale, una
gerarchia politica, il che esclude, di per sé, la presenza di
un'effettiva eguaglianza.
Questo per dire che non si può pensare che il passaggio da una
società egualitaria a una divisa in ceti o classi sia avvenuto
in maniera graduale o automatica o secondo necessità
inderogabili: deve per forza esserci stata una drammatica
frattura tra gli elementi sociali intenzionati a conservare
tradizioni condivise e gli elementi che invece avvertivano
quelle medesime tradizioni come un ostacolo da superare per
poter realizzare un'emancipazione individualistica (o di piccolo
gruppo). Anche se forse il passaggio dal comunismo primitivo
alle prime forme di proprietà privata della terra è stato
molto meno traumatico di quello che ha portato al primato
dell'industria privata sull'agricoltura.
E' quindi da rivedere il giudizio con cui si qualifica
storicamente come più arretrata una formazione sociale rurale
rispetto a una urbana. Il valore d'uso, l'autoconsumo, il
baratto... non sono affatto, di per sé, indici di minore
"civilizzazione", proprio perché col termine di
"civiltà" non si
possono intendere esclusivamente aspetti economici o tecnologici
di produttività.
Non foss'altro che per una ragione: lo sviluppo enorme della
tecnologia, utilizzata per sfruttare il lavoro altrui, è stato
contestuale, nelle società borghesi, alla necessità di definire
"formalmente libero" il lavoratore, che è una delle
falsificazioni più grandi della storia. Infatti se un operaio è
"schiavo" o "servo", non è indispensabile produrre una
tecnologia avanzata, proprio perché il rapporto di
subordinazione è diretto e non si ha bisogno di una mediazione
artificiosa.
Detto altrimenti, sotto il capitalismo la tecnologia non si pone
soltanto come mero strumento di autovalorizzazione del capitale,
ma anche come forma di transizione da una dipendenza reale, in
senso economico, a una libertà formale, in senso giuridico. La
cultura borghese ha necessità di mostrare un tasso elevato di
eticità, mutuato da un uso strumentale del cristianesimo,
proprio al fine di poter perpetuare la prassi dello sfruttamento
in altre forme e modi.
Anche sotto il capitalismo l'operaio soffre di una dipendenza
reale nei confronti dell'imprenditore, essendo la sua soltanto
una libertà di morire di fame, e tuttavia egli gode del
privilegio di una libertà giuridica personale che, per quanto
illusoria, non era accessibile né allo schiavo né al servo della
gleba. Senza il miraggio di poter acquisire una libertà
personale, che necessariamente doveva essere gestita, da parte
dell'imprenditore privato, con lo sviluppo della tecnologia, non
sarebbe mai nato il capitalismo, neppure in presenza di un
livello elevato di traffici commerciali.
In tal senso è non meno errato il giudizio che vede il
feudalesimo come un fenomeno storico di "degrado sociale"
rispetto allo schiavismo, solo perché in quest'ultimo era
presente lo sviluppo urbano, mercantile e artigianale in senso
professionale. Il feudalesimo è anzi stato un passo avanti rispetto allo
schiavismo, e proprio dal punto di vista dei rapporti sociali,
in quanto ha attenuato le contraddizioni antagonistiche, almeno
nella fase altomedievale.
- Peraltro non è affatto vero che le organizzazioni tribali
delle popolazioni germaniche o cosiddette "barbariche" fossero
basate sul servaggio, e che tale fatto rese più agevole la loro
integrazione nella compagine dell'ex impero romano. Il concetto
di "feudo" è stato una sorta di compromesso tra la decadenza
dello schiavismo romano, che gli stessi agrari romani avevano
parzialmente trasformato in colonato, e l'esperienza frustrata
del collettivismo agrario dei barbari, frustrata dal fatto che
le realtà schiavistiche dell'Asia (mongolo-cinesi) e dello
stesso impero romano avevano sempre più costretto quelle tribù
al nomadismo e a vivere di saccheggi e rapine.
Là dove lo schiavismo fu meno forte, come nella parte orientale
dell'impero romano, lì i barbari non riuscirono a penetrare, e
lì si formò una sorta di "socialismo di stato" ante-litteram,
in cui gli stessi proprietari terrieri erano tenuti al pagamento
delle tasse per il mantenimento di una forte burocrazia e
milizia imperiale.
"Feudalesimo" infatti voleva dire rapporto "fiduciario" tra
sovrano e vassallo, ovvero reciproco riconoscimento di interessi
privati, che poi venivano gestiti pubblicamente nell'ambito
territoriale di competenza. Questa cosa non è mai esistita
nell'impero bizantino, dov'era lo Stato che requisiva e
concedeva terre e competenze ai propri cittadini, tant'è che
quanto più nell'oriente cristiano s'andarono affermando i
rapporti "feudali", tanta meno forte divenne la resistenza
collettiva nei confronti dell'avanzata araba prima e turca dopo.
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