TEORIA DELLA LETTERATURA

TEORIA DELLA LETTERATURA

I - II - III


I

In letteratura la forma è sostanza, ed è sostanza per sentimenti ed emozioni, che vanno commossi. Un grande scrittore è colui che sa suscitare un'emozione, la quale non è un semplice piacere intellettuale, ma un moto dell'animo.

Kenneth Burke (in Counter-Statement, 1953) suddivideva la forma in alcune categorie fondamentali:

  • forma progressiva, a sua volta divisibile in:
    • progressione sillogistica, quella dove la suspence è determinata da un interrogativo iniziale e dove tutto alla fine si conclude in maniera logica e razionale, come se fossimo in presenza di un difficile teorema matematico (p.es. un giallo);
    • progressione qualitativa, quella che avviene quando non si può fare immediatamente un ragionamento di tipo sillogistico, in quanto la coerenza di un racconto viene scoperta solo alla fine, a volte in maniera imprevedibile, e non di volta in volta. Poe era un maestro in questo, tant'è che trasformò il giallo in horror;
  • forma ripetitiva, che è la tecnica di riproporre la stessa cosa in modi diversi, come p.es. la ritmica regolarità di certi versi poetici. Se il lettore è abituato a questa forma, sarà lui stesso a esigerla. I bambini ne sanno qualcosa con le fiabe, ma tecniche del genere si trovano anche nei poemi omerici o nelle tragedie greche (si pensi solo alla funzione del coro). La fortuna di molti scrittori è dipesa proprio dalla capacità di riscrivere le stesse cose cambiando solo l'intreccio;
  • forma convenzionale, è quella che attrae per la sua forma, a prescindere in un certo senso dal suo contenuto. E' una standardizzazione di cui non si può fare a meno, che precede addirittura la lettura e persino la scrittura, intesa come atto creativo. Ci si aspetta qualcosa secondo una certa consuetudine: p.es. tutte le commedie basate sull'uso della maschera e su un semplice canovaccio offrono dei personaggi i cui comportamenti sono già noti al pubblico, che può addirittura anticipare, per grandi linee, il finale della commedia. Ma anche da un romanzo ci si può aspettare un'introduzione e un epilogo;
  • forme minori o incidentali: sono tante e spesso così peculiari da poter essere estrapolate dal loro contesto, benché non abbiano un valore decisivo ai fini della comprensione della trama di un testo. In virtù di questo si possono fare p.es. le antologie scolastiche, i cui autori si specializzano nell'estrapolare pezzi di brani significativi da interpretarsi in sé e per sé.

Tutte queste forme possono sovrapporsi in un dato evento della trama, cioè fondersi, oppure possono entrare tra loro in conflitto, ed è in genere proprio dalle contraddizioni tra le diverse forme che emergono i grandi scrittori, le cui opere possono risultare accettabili (o addirittura comprensibili) solo dopo molti anni, quando un certo modo di scrivere è entrato nell'immaginario collettivo (si pensi p.es. alla scrittura di Joyce o di Bukowski).

Lo scrittore rifugge come la peste la banalità del "già detto", soprattutto quando la scrittura è - come oggi - un fenomeno molto diffuso (in Italia addirittura superiore alla stessa lettura), a meno ch'egli non riscopra cose di molti secoli prima e le riproponga in veste originale, come p.es. ha fatto Dario Fo con la letteratura medievale.

II

La forma è sostanza anche per un'altra ragione. Come dice Roland Barthes (in Critica e Verità, 1969), la forma è una scienza delle condizioni del contenuto di un'opera. Cioè ancor prima d'iniziare a scrivere, l'autore si deve chiedere quale forma usare per quale destinatario (contesto di lettura, tipologia del messaggio ecc.).

Vi sono dei canoni (appunto formali o convenzionali) che vanno rispettati, altrimenti si rischia di apparire superficiali, sprovveduti o presuntuosi. La "grammaticalità delle frasi" precede la loro significazione, proprio perché nessun autore è in grado d'improvvisarsi, senza tener in alcun conto il pregresso culturale che lo costituisce, lo sappia o no. Le sgrammaticature del Verga vennero accettate soltanto quando si capì ch'egli voleva essere realista nei confronti dei suoi personaggi privi di cultura.

Una qualunque forma comunicativa che abbia un destinatario (nella consapevolezza dell'autore, che in genere non scrive per se stesso) suppone, prima ancora di un giudizio di merito sull'opera, un giudizio sulla accettabilità dell'opera letteraria in quanto tale, la quale deve rifarsi a regole sedimentate nel tempo (Umberto Eco le chiama "sistemi di convenzioni", in La struttura assente, 1968).

Questa non è una restrizione che mortifica la creatività (chiamata, sempre da Eco, "scatto informativo", cioè il fenomeno d'invenzione originale), ma la necessità d'una presa d'atto, una sorta di umile constatazione. Cosa che però nella tradizione letteraria euroccidentale è andata rarefacendosi, in quanto gli autori, quando scrivono, non si preoccupano molto di essere conformi a qualcosa: in genere anzi esordiscono negando il pregresso.

Parlare di varianti possibili all'interno di un già dato che va rispettato, oggi è come dire, purtroppo, cose senza senso. Difficilmente i letterati occidentali (europei e americani) vedrebbero un pericolo nel fatto che una variazione eccessiva di una forma consolidata può portare a una forma completamente diversa, non più riconoscibile secondo i canoni tradizionali. Oggi solo pochi puristi avvertono come traumatico il fatto che i nuovi modi di esprimersi possono far dimenticare del tutto quelli precedenti (si pensi p.es. all'uso dilagante nella lingua italiana delle parole inglesi, ma anche all'abbandono di segni interpuntori come i due punti e il punto e virgola).

Si tratta in sostanza di capire se il genio di un autore sia di per sé legittimato a superare le tradizioni letterarie della forma o se invece debba comunque attenervisi, pur entro un certo margine di libertà personale, nella convinzione che quelle forme tradizionali si sono evolute in rapporto a determinati sensi dell'esistere, sicché il fatto di mutarle può comportare la rinuncia a quei sensi e la loro sostituzione con altri. Indubbiamente i significati della vita mutano col tempo, ed essi impongono nuovi modi espressivi: si tratta però di capire se tali significati, trasmessi da una lunga tradizione, vanno in qualche modo conservati, per non perdere il legame col passato, oppure se possono essere modificati radicalmente da una personalità di genio, che se ne assume la responsabilità in modo autonomo, senza riferimento ai vincoli del contesto sociale che li ha originati. Inutile dire quale scelta ha fatto la cultura occidentale: da quella del sistema schiavistico rispetto a quella del comunismo primitivo, da quella borghese rispetto a quella medievale.

III

Poiché se ne ritiene scontata la risposta, nella cultura occidentale si è smesso di porsi la seguente domanda: per valutare l'originalità di un'opera è importante identificare un autore letterario secondo il suo nome, oppure è sufficiente che il suo genio letterario passi attraverso una tradizione consolidata (e ne venga assorbito), in modo che l'opera parli per lui, esattamente come lui parla a nome della sua comunità d'appartenenza?

Barthes diceva (nell'opera già citata) che esiste "un'oggettività del simbolo diversa da quella necessaria alla determinazione della lettera". E' proprio questa oggettività simbolica che rende l'opera intelligibile. Ma - ci si può chiedere - questa oggettività simbolica è davvero rinvenibile (o recuperabile) nella tradizione letteraria che s'è sviluppata in Europa occidentale? Come potremo recuperare qualcosa di "simbolico" (da symbolum, "ciò che unisce due parti distinte", secondo l'etimologia del termine) se quanto ci caratterizza è, in primis, l'analisi che tutto divide e mai ricompone?

Il sapere da noi si è evoluto contro la sapienza ancestrale, quella degli avi che vivevano esperienze collettive. Oggi al genio dell'artista o del dotto o dell'uomo di potere attribuiamo più onori di quanti un tempo se ne riponevano per consolidate tradizioni millenarie, la cui memoria storica è andata perduta per sempre.

Noi occidentali, per come sono andati evolvendo il nostro stile di vita e quindi la nostra cultura, tendiamo a considerare un significato tanto più importante quanto più viene espresso all'interno di un significante altamente elaborato. Siamo abbacinati dalle forme. Il concetto per noi prevale sempre sulla tradizione. Questo inevitabilmente significa che al genio riconosciamo la facoltà di trasgredire la sapienza del passato, qualunque essa sia. In pratica facciamo questo ragionamento: poiché l'autore geniale ha saputo elaborare dei codici espressivi che sono inarrivabili per chi non è intellettualmente dotato come lui, lui ha il diritto di trasformare autonomamente le regole in nuove regole, e gli altri sono tenuti a imitarlo. In altre parole si permette al genio (che nella tradizione occidentale è di genere maschile) di dare alla denotazione il significato connotativo che gli pare.

Questo vuol dire che in occidente la storia della letteratura viene sostanzialmente concepita come storia di opere geniali e irripetibili, prodotte individualmente, e anche quando si parla di "correnti letterarie" s'intendono soltanto dei luoghi in cui i vari singoli autori geniali (di grado più o meno elevato) si sovrappongono, a volte senza neppure essere consapevoli di appartenere a una medesima corrente, in quanto la relativa attribuzione a questa o quella corrente generalmente vien fatta a posteriori, dai cosiddetti "critici letterari".

In occidente la cultura oggetto di studio non può essere anzitutto quella che esprime un "sentire popolare", proprio perché, essendo venuta meno una certa tradizione più o meno consolidata, quel "sentire" e quindi la cultura che gli appartiene non sono più trasmissibili: diventano "popolari" per somma di addendi, non nascono più come espressione di un collettivo che si rifà a tradizioni secolari.

Noi ci trasmettiamo una letteratura ch'è stata fatta da autori individualisti, ai limiti dell'egocentrismo, spesso psicologicamente instabili, con vissuti travagliati, esattamente come lo siamo noi che li leggiamo. E' una letteratura di singoli geni artistici, la cui alta sofisticazione formale da secoli ci appare più che sufficiente per considerare irrilevante o di minor pregio, non meritevole di approfondimento critico, tutto quanto è espressione di una cultura e tradizione popolari.

P.es. per un critico come Eco un'opera è meritevole quando ha la forza di mettere in discussione il codice da cui essa ha preso le mosse. Questo modo aristocratico di considerare la letteratura non diventa più democratico sostenendo che tale operazione sovversiva arricchisce in realtà il codice di nuove potenzialità. Eco forse non si rendeva conto che a forza di modificare i codici formali, alla fine non resta alcun codice e la letteratura non diventa che un'esercitazione solipsistica.

Un critico non dovrebbe limitarsi ad analizzare le forme nella loro evoluzione, come se fossero un campo semantico a se stante, ma dovrebbe stabilire un criterio per il quale un certo tipo di superamento dei codici tradizionali può comportare anche un'involuzione nei significati dell'esistere. Oggi peraltro la critica ufficiale resta così affascinata dal valore di singole opere letterarie (i famosi "classici" della letteratura italiana, ma anche straniera) che nelle scuole esse vengono insegnate senza considerare minimamente che il target originario che le fruiva, e per il quale quelle opere erano nate, era del tutto diverso da quello dei nostri adolescenti di 15-18 anni.

Non solo agli studenti è spesso del tutto estranea la forma (il significante dell'opera), ma anche il suo contenuto, come inevitabilmente avviene quando la distanza che separa l'autore dal lettore si deve misurare in secoli e secoli. Un tale insegnamento della letteratura sembra voler presumere che il destinatario debba imparare ad esprimersi nella stessa maniera dell'autore (cosa che se facesse, apparirebbe ridicolo).

Siamo costretti a fare questo proprio perché abbiamo rinunciato a una letteratura intesa come emanazione d'un sentire popolare. Per noi la vera e unica letteratura è soltanto quella dei grandi scrittori del passato, che spesso sono diventati "grandi" proprio perché avevano rifiutato un modo precedente di fare letteratura (basterebbe andarsi a riguardare l'accesa polemica tra romantici e neoclassicisti). E' la loro arte "individuale" che fa la "letteratura", e questa è "nazionale" solo perché chi l'ha scritta ha usato una medesima lingua: l'italiano, nato in Sicilia nel Duecento e che ha trovato in Firenze (che allora era la città più borghese d'Italia) la sua espressione più elaborata e sofisticata, al punto che fino al Manzoni incluso tutti gli scrittori, per sentirsi "italiani" o "nazionali", scrivevano le loro opere (o addirittura le riscrivevano) secondo l'impostazione linguistica fiorentina, rinunciando così alle loro origini.

La conseguenza di questo modo di fare "scrittura" ha comportato la netta subordinazione, se non addirittura la scomparsa, di tutte le letterature locali, delle lingue regionali, dialettali, vernacolari..., ch'erano sicuramente più popolari, più apprezzate dagli abitanti del luogo. S'è preferita, soprattutto a partire dalle indicazioni del Bembo, una letteratura individuale di alto livello a una letteratura popolare di basso livello formale ma di alto contenuto vitale, in quanto appartenente a una tradizione plurisecolare. A Firenze, nello stesso periodo, avverrà anche l'assassinio dell'iconografia bizantina e lo sviluppo del proto-capitalismo italiano.

IV

Nella sua Poetica Aristotele fa capire chiaramente che il protagonista letterario, se si vuole suscitare un certo interesse, deve essere sempre un eroe, il quale, quando ha capacità superiori a quelle umane, è una sorta di divinità, trattabile secondo il genere mitologico o quanto meno leggendario. L'eroe può anche non avere capacità di questi livelli, ma deve comunque essere un uomo straordinario, una vera autorità, assolutamente da imitare o da seguire senza discutere. Nella loro finzione letteraria i greci erano ipnotizzati dalla figura dell'eroe. Quando un soggetto era inferiore per prestanza o intelligenza a quella umana, si finiva inevitabilmente col fare dell'ironia. D'altra parte sono stati proprio i greci (a partire dalla civiltà cretese) a inventare l'individualismo.

Northrop Frye, in Anatomia della critica (1969), sostiene che la suddivisione aristotelica delle varie tipologie di eroe ha influenzato la letteratura europea per almeno quindici secoli, a testimonianza che la filosofia individualistica elaborata nel mondo ellenico era così avvincente da porsi in maniera trasversale a tutte le culture, ivi inclusa quella cristiana. Se guardiamo in quale considerazione si tiene ancora oggi un personaggio come Ulisse, dovremmo dire che il condizionamento dura da venticinque secoli!

Il cristianesimo ha sì distrutto molta mitologia classica (benché il Manzoni sia stato il primo a dire che di questa mitologia in campo letterario non se ne poteva più), ma per diventare esso stesso una nuova mitologia, e non solo in riferimento alle narrazioni evangeliche e ai racconti agiografici, ma anche a tutta la letteratura cortese, dei cicli carolingio, arturiano e provenzale. Tutta la letteratura cristiana popolare risente degli influssi di quella mitologica dei greci. Lo dimostra proprio il grande uso di miracolose trasgressioni della legge naturale. Persino la letteratura borghese che, a partire dal Boccaccio, ha la pretesa di superare quella cristiana, non fa che usare gli strumenti aristotelici dell'ironia (comicità, sarcasmo...). Il borghese è un individualista non meno del santo, ognuno con la sua religione: quella dell'astratto dio e quella del concreto denaro.

La letteratura europea, sia essa pagana o cristiana, deve o esaltare il singolo o denigrarlo: per il resto essa ruota sempre attorno all'esigenza di mettere al centro dell'attenzione un individuo che deve rivestire il ruolo di attore principale, e quindi di eroe, positivo o negativo che sia (cioè vittorioso o perdente), rispetto ai valori dominanti. E' lo strumento stesso del "fare letteratura" che appartiene a una civiltà tipicamente europea, in cui il singolo gioca sempre un ruolo decisivo, sia ch'esso si opponga al fato, al destino, allo Stato..., sia che invece incarni queste stesse realtà.

V

Una letteratura individualistica, preoccupata di suscitare l'interesse con gli strumenti artificiosi della forma linguistica, rischia continuamente di cadere nella retorica, nelle esagerazioni intellettualistiche, nelle forzature di maniera. Infatti non è l'aggancio alla realtà popolare che le dà linfa vitale, ma è solo il genio dell'autore, che tendo però col tempo, inevitabilmente, a inaridirsi, a ripetersi, fino al punto in cui viene sostituito da un altro.

Il rimpiazzamento di un autore con un altro può anche non avvenire in tempi brevi: molto dipende dal fatto che non sempre i poteri dominanti permettono agli artisti di esprimersi in libertà e creatività; il che non vuole affatto dire che la migliore letteratura sia quella che si esprime nei sistemi democratici (se p.es. guardiamo quella russa dovremmo pensare il contrario).

Uno dei criteri, del tutto formali, con cui si è soliti valutare la grandezza di un autore è la capacità di saper usare le figure retoriche. Se ci pensiamo, tutta la letteratura occidentale non è altro che una gigantesca finzione, cioè non una rappresentazione della vita ma una sua metafora.

D'altra parte quando mai la vita ha bisogno della letteratura per essere rappresentata? Essa, semplicemente, si autorappresenta e chiede, per essere compresa, di essere vissuta, quanto più profondamente e umanamente possibile. Sarebbe assurdo pensare di poter vivere un'esistenza attraverso la sua rappresentazione letteraria. La letteratura non è che un passatempo, più o meno impegnativo, in cui può cimentarsi chi ha da spendere del tempo libero.

Noi non possiamo in alcun modo esaltare quell'opera d'arte (letteraria o meno) che pretende di porsi come fine a se stessa, senza alcun vero rapporto con la realtà, cioè senza ch'essa si ponga il problema di come modificare in meglio una realtà contraddittoria.

La letteratura non può essere considerata come un mero prodotto estetico, da apprezzare intellettualmente, a prescindere da qualunque etica sociale. Peraltro una letteratura meramente estetica sarebbe debolissima nei confronti delle possibili strumentalizzazioni politiche. Non ha alcun senso sostenere che la letteratura (e l'arte in generale) vada interpretata (e fruita) senza pretendere di scorgere in essa alcun fine particolare.

Ne Il significato dell'estetica (1973) scrive Jan Mukařovský: "l'arte si giustifica proprio per il fatto di non mirare ad alcun fine univoco". In realtà nessuna scienza dovrebbe avere un comportamento del genere; anzi l'unico "fine univoco" di ogni conoscenza dovrebbe essere lo sviluppo del senso di umanità dell'uomo. E un'estetica che non tenesse conto di questo avrebbe un valore molto limitato.

E' assolutamente sbagliato pensare che un'espressione letteraria riuscirà maggiormente a permanere nel tempo quanto meno si porrà come riflesso della realtà. Un'arte del genere è astratta, priva di vero significato storico, incapace di difendersi da chi vuole manipolarla. Se accettiamo l'idea che un'espressione letteraria possa essere meramente estetica, il massimo di concretezza possibile che può dare un'interpretazione critica è a livello psicologico, che in tal modo di veramente "critico" non ha quasi nulla.

Un esempio di rischio interpretativo di tipo psicologico è offerto dall'analisi di Roman Jakobson, in Saggi di linguistica generale (1966), laddove scrive che "la poesia epica, incentrata sulla terza persona, involge in massimo grado la funzione referenziale del linguaggio; la lirica, orientata verso la prima persona, è intimamente legata alla funzione emotiva; la poesia della seconda persona è contrassegnata dalla funzione conativa e si caratterizza come supplicatoria o esortativa...".

Una volta stabiliti questi principi struttural-formalistici, il massimo di analisi concreta che è possibile dare di un'opera d'arte, se non ci si vuole fermare a un'arida filologia degli aspetti formali, è soltanto di tipo psicologico.

VI

Il valore di un'opera letteraria è dato da due aspetti fondamentali, a prescindere dai quali un testo è povero di contenuto o lo è l'interpretazione del critico: 1. i riferimenti contestuali di spazio e tempo che la caratterizzano; 2. i riferimenti sociali inerenti alle istanze emancipative della società (nel suo complesso o in una parte di essa).

Posto il primo punto, che è preliminare a qualunque cosa, bisogna sempre verificare se un'opera d'arte rispecchia le istanze del suo tempo, ovvero se le anticipa o le nega, o le tradisce dopo averle fatte proprie. E' inutile contestualizzare storicamente un'opera d'arte se non si è capaci di scendere nel particolare dei rapporti socio-culturali che ad essa, implicitamente o esplicitamente, sono sottesi. Che poi un autore si serva della poesia o della prosa, della lingua materna o di quella studiata a scuola, di tragedia o di commedia, ciò fa parte delle sue caratteristiche soggettive, che non devono minimamente incidere sui criteri interpretativi del critico, il quale, per principio, non può avere preferenze per un determinato genere o per una lingua o per un qualsivoglia modello espressivo.

Pensiamo invece a quale ostracismo è andata incontro, in epoca moderna, la poesia dialettale o la letteratura vernacolare, popolare (come le fiabe, le favole, le leggende, le parabole...), considerate non meritevoli di apparire, se non in modo marginale, nelle antologie scolastiche. Solo quando Propp esaminò seriamente le fiabe si cominciò a capire che quella non poteva essere considerata una letteratura minore. Gli stessi miti greci - se si guarda come li interpreta la psicanalisi - dicono molto di più di quel che non appaia a prima vista.

Un critico dovrebbe semplicemente limitarsi a dire che l'unico criterio sensato per stabilire se un'opera letteraria merita di stare in un'antologia scolastica è vedere se ha la capacità di suscitare delle emozioni, dei sentimenti o comunque delle riflessioni esistenziali. In fondo la letteratura di bello ha proprio questo, che si pone anche in maniera estetica, valorizzando la forma (che è forza) espressiva.

Forse dovremmo riprendere talune considerazioni che René Welleck diceva in Concetti di critica (1972), a proposito del fatto che non si può identificare la letteratura con la sua forma o con la sua lingua, che è poi stata quella che ha indotto i critici a porre delle graduatorie di merito quanto meno arbitrarie. Occorre cioè avere una concezione di tipo "olistico", in virtù della quale si possa vedere un'opera d'arte come una "diversificata totalità", come una struttura di segni che implicano significati e valori. Anche un sms scritto in una certa maniera può rientrare nel concetto di letteratura.

Certo, detto così, il pensiero di Welleck può apparire idealistico, e tuttavia questo approccio è più vicino a quello storico-sociale dell'analisi letteraria di un testo, che non a quello struttural-funzionalista. "Taluni poemi - scrisse Claudio Guillén in Literature as System, nel 1971 - incarnano tradizioni, condensano e rendono vitali sistemi di convenzioni, e simboleggiano altri poemi". Se accettiamo che un'opera letteraria abbia questa forza, per quale motivo non dobbiamo accettare l'idea che senza una realtà sociale di riferimento, per quanto nel testo possa non apparire chiaramente, un'opera letteraria è povera di contenuto? Semmai dovremmo chiederci il contrario, e cioè quando o quanto la consapevolezza di un certo legame con la società è più forte nell'autore o nel critico che lo interpreta. I debiti culturali vanno riconosciuti, ma fino a che punto siamo in grado di farlo da soli?

Guillén diceva che un poeta del Rinascimento non doveva per forza leggere Petrarca per comporre un sonetto petrarchesco. Aveva ragione, ma è vero anche che per fare poesia non necessariamente dobbiamo scrivere sonetti: è la realtà e il suo presente (contemporaneo all'autore) che decidono, e questa realtà non è anzitutto la scuola (dove il sonetto è ancora al primo posto), né la critica dominante degli intellettuali o le pretese culturali delle istituzioni o quelle dei circuiti ufficiali in cui un testo viene riconosciuto meritevole d'un mercato. E' la realtà della gente comune, con il suo sentire, le sue esigenze, la sua opposizione ai poteri dominanti, che deve decidere. E' populismo questo? Forse, ma sempre meglio il populismo all'aristocraticismo.

Noi abbiamo perso interesse a queste cose semplicemente perché l'approccio al testo letterario è individualistico: ciascuno legge per conto proprio. Anche quando vi è uno scambio interattivo (p.es. l'incontro con l'autore o un forum in rete), il momento della lettura, della fruizione non rimanda a un pregresso collettivo, a una tradizione comune. Il lettore è solo col suo testo non tanto perché lo legge in solitudine, quanto perché non lo apprezza secondo criteri condivisi; anzi, il più delle volte deve sforzarsi di valutarlo contro i criteri che il sistema vorrebbe imporgli.

VII

Scriveva György Lukács nella sua monumentale Estetica (1970): "la stragrande maggioranza delle opere d'arte rispecchia, immediatamente, quei rapporti e quei caratteri degli uomini che, nelle società di volta in volta presenti, influenzano direttamente il loro destino".

Dovremmo riflettere attentamente su affermazioni del genere, poiché è proprio portandole alle loro estreme conseguenze che si arriverà a dire che la letteratura, per come s'è formata e sviluppata, esprime un affronto utopico delle contraddizioni reali; un'utopia che, a seconda dei casi letterari specifici, può essere di speranza o di disperazione, niente di più e niente di meno. Infatti, se anche la letteratura fosse politicamente impegnata, non per questo uscirebbe dai limiti strutturali che la caratterizzano.

"Uno dei grandi meriti dell'arte è quello... di esprimere chiaramente i rapporti sociali come relazioni degli uomini tra loro". Forse Lukács avrebbe potuto evitare l'avverbio "chiaramente", poiché l'arte può tranquillamente usare anche l'ambiguità, la metafora, il rimando allusivo, allegorico e tante altre soluzioni tecniche che non solo non tolgono efficacia al compito sociale da lui individuato, ma che addirittura arricchiscono l'espressione artistica di aspetti emotivi e intellettuali che certamente non possono avere le descrizioni scientifiche o storiche o politiche.

Anche Lucien Goldmann (cfr Uno statuto per la sociologia della letteratura, 1972) la pensava come Lukács circa la necessità di stabilire dei nessi tra società e letteratura. Quando fa l'esempio della favola è molto persuasivo: "un universo immaginario, in apparenza del tutto estraneo all'esperienza empirica, come può essere ad es. quello di una favola, può essere rigorosamente omologo, nella sua struttura, all'esperienza di un gruppo sociale particolare o, quanto meno, esservi collegato in maniera significativa". E poi aggiunge, in maniera ancora più esplicita, traendo le debite conseguenze dalla sua constatazione: "in tal modo cade qualsiasi contraddizione fra l'esistenza di una stretta relazione della creazione letteraria con la realtà storico-sociale e l'immaginazione creatrice più potente".

Il che, detto altrimenti, voleva dire che il genio artistico si esprime meglio non necessariamente quando si oppone al contesto in cui si forma, ma quando cerca di rappresentarlo al meglio, come dovrebbe essere o come si vorrebbe che fosse. Una vera opera letteraria può essere prodotta soltanto da un collettivo che ne condivide i contenuti, anche se materialmente uno solo ne è l'autore. Forse la più grande opera collettiva di tutti i tempi sono stati i vangeli, che pur costituiscono una solenne mistificazione dell'autentico messaggio del Cristo.

Insomma - scrive Goldmann - non si può spiegare la genesi dei Pensieri di Pascal o delle tragedie di Racine senza comprendere la struttura del giansenismo estremista. Più chiaro di così non poteva essere. Un'opera letteraria non si pone mai "in sé e per sé"; o meglio, se la dobbiamo o vogliamo considerare così, dobbiamo premettere a noi stessi che l'interpretazione non ha alcuna pretesa di scientificità.

Si pensi, in tal senso, alle astrazioni di tutti quegli storici della letteratura italiana influenzati da Croce, dalla filosofia idealistica o spiritualistica, che tanta parte hanno avuto nella manualistica della scuola italiana (il più importante dei quali è stato certamente Mario Pazzaglia, ma non dimentichiamo Luigi Russo, Attilio Momigliano, Francesco Flora). Per costoro la sociologia dell'arte e della letteratura era un'espressione come minimo fuorviante ai fini della comprensione di un testo.

Invece ne spiega bene l'importanza Stefan Morawski (cfr Il marxismo e l'estetica, 1973) quando scrive che una sociologia dell'arte:

  1. si deve occupare della diffusione effettiva delle opere d'arte, dell'identità e degli interessi dei lettori, ascoltatori o spettatori, dell'ambiente sociale e del prestigio professionale degli artisti, dell'atteggiamento delle autorità verso gli artisti e verso il pubblico, dell'influenza del pubblico sulla scelta dei soggetti e della possibilità comunicativa dell'arte, ecc.
    In effetti noi spesso studiamo determinati testi dando per scontato che siano stati patrimonio comune a partire dal momento in cui vennero pubblicati. Testi che oggi consideriamo profondamente cattolici, come p.es. la Commedia dantesca o i Promessi sposi, ci pare inverosimile che fossero osteggiati dalle autorità religiose. E' difficile per noi immaginare che potesse esistere una censura di tipo teo-politico su testi così apertamente allineati alla confessione cristiana. E poi parliamo sempre di "testi scritti" quando in realtà la diffusione a stampa è un fenomeno relativamente recente (anche quando ha cominciato a imporsi nel Cinquecento, solo degli ambienti molto ristretti potevano beneficiarne). La stragrande maggioranza delle persone, persino quelle alfabetizzate, più che leggere preferiva ascoltare e veder recitare. La stampa ha reso individualistica la fruizione della letteratura, come già lo era la sua composizione.
    Oggi la lettura di un romanzo è paragonabile alla visione di un film: un testo si legge solo una volta, e non solo perché in genere i romanzi sono concepiti secondo la formula dell'usa e getta, ma anche perché la loro fruizione non è mai un fenomeno collettivo. Quando si presenta un testo, se il pubblico non l'ha ancora letto, inevitabilmente le domande saranno banali. E' quasi più significativo realizzare un cineforum intorno a dei film di qualità, da discutere alla fine della visione.
    In ogni caso non son più i romanzi che fanno tendenza, semmai è la televisione o il web. Per poter mettere in piedi un circolo letterario in cui discutere un determinato testo, bisognerebbe anzitutto appartenere a un determinato collettivo. Ma se si appartiene a un collettivo, si desidera esaminare quei testi che in qualche modo lo rappresentano (come fanno in genere le comunità religiose). E se il collettivo è virtuale, realizzato in rete, bisogna sempre fare molta attenzione alle parole che si usano, poiché facilmente vengono fraintese, e questo inevitabilmente genera stress. Insomma non è facile mettersi a discutere qualcosa di significativo con qualcun altro.
  2. Una sociologia dell'arte non può non esaminare - spiega al secondo punto Morawski - le diverse reazioni che le diverse epoche hanno avuto nei confronti di una medesima opera. Si pensi solo alla riscoperta dell'aristotelismo ad opera della Scolastica medievale, o a quella del platonismo in epoca umanistica. Il Principe del Machiavelli fu messo all'Indice dal papato, ma è stato per molto tempo la lettura preferita di molti statisti europei, incluso Stalin.
    Morawski ha perfettamente ragione a dire che un'opera d'arte può essere un punto d'arrivo (e non di partenza) per comprendere una determinata società.
  3. Il sociologo dell'arte ha il compito di esaminare anche il contenuto dell'opera e il suo nesso con la forma e con la realtà del suo tempo, usando le categorie della mimesi e dell'espressività. Deve anche decidere quali aspetti della realtà sono da porre a confronto con i corrispondenti caratteri dell'opera (p.es. un sistema filosofico o tecnologico o politico). Non avrebbe alcun senso p.es. parlare del Futurismo e non della rivoluzione scientifica di fine Ottocento.
    Tra i manuali della letteratura gli unici che forse si sono avvicinati di più a questo approccio sono stati quelli di Salvatore Guglielmino e di Alberto Asor Rosa.
  4. L'ultimo punto è stato messo per fare un favore a Ferdinand de Saussure e allo strutturalismo, che negli anni Settanta era di moda, ma lo si sarebbe potuto collocare nel punto 3, come aspetto secondario. Morawski infatti dice che l'opera d'arte può essere esaminata anche in sé e per sé, "come evidenza semiologica per mezzo di certe regole e convenzioni estetiche".
    In realtà ciò che manca in quest'elenco è l'analisi dei nessi tra opera e biografia dell'autore. Visto che nella storia della letteratura c'è sempre un autore ben preciso (anzi il più delle volte è lui stesso a mettersi in mostra), allora è necessario vedere quanto e come egli sia presente nella sua opera, cioè se vi sono sviluppi evolutivi o involutivi, istanze o ripensamenti ecc. Insomma all'impostazione di Morawski bisognerebbe aggiungere quella di Michail Bachtin.
    Senza poi considerare che, una volta chiamato in causa il nesso di biografia e opera, bisognerebbe poi esaminare le differenze di genere (maschile e femminile) nel modo di fare letteratura, che certamente sono molto forti.

Morawski arriva a dire, peraltro molto giustamente, che "non può esserci riflessione estetica fondata senza il riconoscimento che ogni fenomeno artistico è al tempo stesso un fenomeno sociale, e non può esserci comprensione o spiegazione di un fatto artistico se si prescinde dalle condizioni culturali del suo tempo".

Forse Morawski era troppo categorico; forse poteva limitarsi a precisare che senza riferimenti alla società e alla cultura del suo tempo, un testo è solo "parzialmente" comprensibile; forse poteva risparmiarsi di dire (con tanto di corsivo) che "la sociologia dell'arte è del tutto indifferente ai valori artistici" e che dei quattro suddetti approcci solo il primo è scientificamente valido.

In realtà il fenomeno estetico non sempre può essere ridotto a interpretazioni di tipo sociologico. Nel fenomeno estetico vi sono elementi che sfuggono a un'interpretazione storicistica o non sono riconducibili a una mera analisi sociologica, in quanto appaiono inerenti alla complessità della natura umana, che talvolta manifesta comportamenti che sfuggono a una sua comprensione razionale. Lo dimostra il fatto che proprio nel campo estetico o artistico possono maturare degli elementi che appaiono utili allo sviluppo progressivo di una società non nel momento in cui emergono ma solo molto tempo dopo (oggi p.es. potremmo recuperare il Pascoli per fare un discorso anti-capitalistico o ambientalistico).

Scrive, a tale proposito, Jurij N. Tynjanov: "Lermontov per i suoi contemporanei era un esempio di poeta eclettico; in seguito diventò un esempio di poeta fortemente originale" (Formalismo e storia letteraria, 1973). Questo perché le opere letterarie "trasferite dal proprio ad un altro sistema letterario, acquistano una funzione completamente diversa".

D'altra parte se non è l'autore stesso a offrire al critico una qualche dritta interpretativa, non è che il critico possa mettersi a fare lo Sherlock Holmes di fronte a ogni opera che incontra. (Peraltro, a proposito di questo celebre detective londinese, che bisogna aveva il suo autore di presentarlo ai suoi lettori come un morfinomane?).

Insomma la metodologia di Morawski resta fondamentalmente giusta, ma avrebbe meritato ulteriori ragguagli, che però dalla fine degli anni Settanta ad oggi non si sono visti.

Fonti


Le immagini sono state prese dal sito Foto Mulazzani

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019