LA GRECIA TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Storia ed evoluzione della Grecia classica


LE ORIGINI E LA NATURA DELLA DEMOCRAZIA IN GRECIA
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IL PERCORSO CULTURALE E POLITICO DEI GRECI

Guerriero caduto, Tempio di Aphaia, Egina (Gliptoteca di Monaco)

(b.3) Principali forme di organizzazione politica dell’età arcaica

Qui avanti vogliamo soffermarci sulle forme d’organizzazione propriamente politica che caratterizzarono il mondo greco nel periodo arcaico. Argomento non facile, data l’estrema varietà di situazioni che lo caratterizzarono. Proprio per questa ragione, la nostra analisi si muoverà essenzialmente su due piani: uno più generale; e un altro invece specificamente legato alla situazione spartana e a quella ateniese.

Infine, faremo alcune considerazioni sulla natura dello stato e della politica in Grecia, con un occhio alle differenze rispetto al mondo vicino orientale.

(b.3.1) Monarchia, oligarchia, tirannide

Anche se la città-stato in Grecia non era sempre esistita, la polis al contrario aveva origini antichissime. Essa era stata in epoca oscura, più che un villaggio al pari degli altri, il luogo in cui si svolgevano le attività decisive per la comunità: da quelle legate al culto degli dei a quelle politiche, che vedevano il re confrontarsi con l’aristocrazia, o meglio con un ristretto Consiglio di nobili (Bulè) che la rappresentava. Infine, fatto per nulla trascurabile, in caso di guerra essa era stata il rifugio dell’intera popolazione.

Con la rinascita economica della Grecia (IX – VIII secolo) la polis iniziò a diventare un centro in cui si riuniva, prima solo saltuariamente, poi in modo sempre più continuativo, una parte consistente della popolazione per scambiare i propri prodotti. Essa iniziava cioè a non essere più monopolio delle classi alte, per diventare un luogo accessibile anche al popolo.

L’entrata di quest’ultimo all’interno delle mura della città – le cui dimensioni e struttura rendevano ancora molto distante da un vero e proprio centro urbano – segnò l’inizio di un lungo processo che culminò nella nascita della città-stato propriamente detta. Tale evento si pose difatti all’origine non solo della partecipazione popolare alla vita politica, ma anche del sorgere di un nuovo concetto di comunità, fondata su leggi scritte (ovvero sul concetto di legalità) e su istituzioni che andavano al di là delle organizzazioni tribali, fino ad allora base della vita associata.

E anche se la democrazia vera e propria era un traguardo ancora molto lontano a venire, a partire da tale rivoluzione la storia greca coincise con un processo – più o meno accentuato, a seconda dei casi – di ascesa e di affermazione politica del popolo e di restringimento dei privilegi delle classi aristocratiche.

Qui avanti cercheremo di ripercorrere questo cammino dalle sue fasi iniziali fino a quelle che precedettero l’età classica.

(b.3.1.1) La monarchia: la prima forma della città-stato

Nella prima fase del suo sviluppo la polis era ancora dominata da uno o più re (basileis). Al di sotto di questi vi era l’aristocrazia (rappresentata dalla Bulè) e al disotto di entrambi il popolo (radunato nell’Ecclesia).

Il potere del sovrano affondava le proprie radici nelle epoche oscure, ma aveva comunque un fondamento e una reale ragione d’essere anche a quel tempo: tale carica infatti si poneva a base e a garanzia dell’unità e della pace dell’intera comunità, fondandosi inoltre, in quanto egli era anche il maggiore possidente terriero, su una ricchezza e una potenza effettive. Il sovrano svolgeva compiti giudiziari, militari e religiosi, ma il suo potere era ben lungi dall’essere privo di limiti. Al suo fianco stava difatti un consiglio di anziani notabili capace di condizionarne le scelte.

La decisionalità politica era dunque essenzialmente frutto della dialettica tra la nobiltà e il sovrano, mentre all’Assemblea popolare (ovvero l’insieme dei piccoli e medi possidenti che avessero raggiunto la maggiore età) spettava di approvare per acclamazione le loro decisioni. A tale scopo, essa si riuniva periodicamente in un luogo pubblico, di solito la piazza della città, dove tali decisioni le venivano comunicate. Se poi l’Ecclesia avesse anche qualche capacità di influenza su di esse è cosa difficile a dirsi, ma tale potere – se pure esisteva – era comunque certamente marginale.

Come si vede, la situazione qui descritta non è molto distante da quella del periodo oscuro, nel quale il popolo era ancora totalmente soggiogato dai poteri nobiliari e dall’autorità del re. Tuttavia, rispetto ad esso, entravano ora in gioco anche degli elementi nuovi: la città o polis come luogo di aggregazione dell’intera popolazione adulta e possidente, e una prima forma di partecipazione di quest’ultima (anche se fondamentalmente ancora in veste di semplice spettatrice) alle attività decisionali delle classi dominanti.

(b.3.1.2) L’oligarchia e il dominio delle classi aristocratiche (eunomia)

In una fase più matura dello sviluppo delle poleis, si ebbe la scomparsa dei sovrani. Tale evento, che nella maggior parte dei casi fu il risultato di un processo graduale e quindi pacifico (e ciò anche perché la carica regale, pur snaturata, continuò di solito a esistere ricoprendo ruoli più specifici), fu determinato essenzialmente da due fattori.

Da una parte infatti col tempo la nobiltà ampliò ulteriormente le sue proprietà terriere, avvicinandosi così alla ricchezza e alla potenza del sovrano e vanificandone le ultime velleità di dominio; dall’altra la città-stato, in quanto entità politica stabile e organizzata in modo collegiale, ne rese sempre più superflua la presenza. Essa aveva difatti oramai sviluppato nuove forme di organizzazione politica, inconciliabili con un potere che (pur con inevitabili condizionamenti) tendeva comunque a decidere tutto dall’alto.

Tuttavia la nobiltà, che aveva appena vinto sul sovrano, si trovava ora di fronte a un nemico ben più temibile: il popolo, il cui peso sociale diveniva col tempo sempre più consistente.

E infatti, i due processi concomitanti – di cui abbiamo già parlato – di arricchimento di una parte di esso attraverso i mercati e di impoverimento di un’altra per ragioni patrimoniali, ne rendevano la presenza politicamente sempre più inquieta e significativa. Se difatti alcuni, in qualità di possidenti ricchi (e in seguito anche di opliti) rivendicavano maggiori diritti politici, altri, soprattutto attraverso la richiesta di redistribuzione delle terre, creavano tensioni sociali sempre più profonde e pericolose per il potere costituito.

La nobiltà, che si era appena impossessata delle leve decisionali della società a scapito dei re, vedeva insomma minato il suo incontrastato predominio ad opera delle classi popolari. È un buon esempio questo – uno dei tanti nella storia – di come il momento di maggiore splendore di una classe sociale possa corrisponda a volte con l’inizio del suo declino.

Certo, indiscutibilmente i nobili ebbero un ruolo politicamente egemone nella storia delle città-stato arcaiche, ma già a partire dall’VIII secolo dovettero convivere con una realtà – quella del popolo, appunto – che progressivamente e inesorabilmente andava minandone l’egemonia sociale e politica.

Segno di una tale elisione del potere nobiliare fu senza dubbio, tra VIII e VII secolo, la nascita delle prime legislazioni scritte, ad opera dei primi legislatori.

Costoro, a quanto pare, erano figure pacificatrici elette col consenso sia dei nobili che dei plebei, quindi dell’intera cittadinanza. Ma attraverso la loro opera essi negavano all’aristocrazia guerriera un privilegio di cui aveva goduto per alcuni secoli: quello di amministrare a suo capriccio la giustizia e la vita della società. Mentre fino ad allora infatti, le leggi erano state tramandate oralmente all’interno delle grandi famiglie (le quali perciò le avevano facilmente manipolate sulla base delle proprie convenienze), a partire dall’opera di tali legislatori, appunto in quanto scritte, esse divennero un patrimonio comune dell’intera comunità.

Il che non significa chiaramente che, soprattutto se paragonate a quelle delle età successive, tali leggi fossero particolarmente favorevoli al popolo. Ma il fatto stesso di essere fissate una volta per sempre ed esposte pubblicamente costituiva per quest’ultimo un’enorme conquista, tanto che possiamo dire con Pierre Lévêque che “l’opera dei grandi legislatori segna una data fondamentale nella storia del diritto e assicura il primo trionfo del demos sui nobili.”

Eppure, nonostante tutto ciò, quest’epoca di essenziale predominio fu guardata dalla nobiltà dei periodi successivi con grande nostalgia, anche se proprio in essa prese corpo quella secolare lotta tra aristocratici e plebei (ovvero tra ricchi e poveri) che, in forme ovviamente aggiornate, avrebbe caratterizzato tutti i successivi periodi della storia greca, fin oltre l’età ellenistica.

Di tale lotta troviamo i segni – come abbiamo già ricordato – nei versi di molti poeti lirici del VII secolo. L’esempio più celebre è costituito senz’altro da Teognide, il quale tra le altre cose si lamentava dell’ingresso nella città di soggetti “che un tempo – senza legge, senza giustizia – / logoravano una pelle di capra intorno ai fianchi / e pascolavano come cervi, fuori dalle mura”: in altre parole per l’ingresso nelle mura urbane del popolo, della povera gente.

Anche Alceo poi, nobile costretto all’esilio proprio da uno di questi legislatori, un certo Pittaco di Mitilene, mostra nei suoi versi grande acredine sia verso il popolo che verso i suoi difensori. In un frammento, per esempio, egli canta con gioia la morte di uno di essi. (“Era ora! Bisogna prendere la sbornia. / Si beva a viva forza: è morto Mirsilo.”)

Ed è sempre in questo periodo, che la nobiltà – ancora detentrice dei più rilevanti poteri politici, ma al tempo stesso consapevole della propria difficile condizione – elabora quegli ideali etici ed estetici attraverso i quali cerca di dare una giustificazione alla propria supremazia politica. Ricorda a tale proposito Giudo Carotenuto come “nel momento in cui cominciano ad avvertire la crisi che va investendo la loro posizione di privilegio, i nobili rendono a se stessi consapevoli le basi della loro ideologia nei principi della kalokaghatìa, della sophrosyne, della aretà, quasi per opporre un’estrema resistenza alle nuove forze sociali che li minacciano”.

Ed è altresì interessante osservare come questi ideali di saggezza, equilibrio e moderazione (dei quali peraltro parleremo ancora), sarebbero stati in seguito, almeno in parte, fatti propri da quelle stesse classi che stavano guadagnando terreno a spese della nobiltà. Il che peraltro ci induce a riflettere, una volta di più, su come la città-stato fosse per molti aspetti una realtà unitaria, basata cioè su valori trasversali, accettati da tutti i suoi membri senza rilevanti distinzioni di rango o di classe. La città-stato fu insomma il risultato della confluenza e dell’amalgama in un unico luogo fisico di diverse componenti ed apporti culturali, ciò che creò – pur nelle inevitabili diversità di fondo – quell’ambiente relativamente omogeneo che fu una delle basi essenziali del suo buon funzionamento.

Nonostante i conflitti di cui abbiamo appena parlato, comunque, si può dire che l’età arcaica fu rispetto alle successive quella maggiormente dominata da sistemi politici eunomici, basati cioè sul “potere dei pochi”, dei “migliori” (aristoi), dei nobili. (Eunomia infatti in greco significa “buona (eu) legge (nomos)”, ovvero legge della minoranza o della nobiltà).

Soprattutto nella prima fase di questa età (diciamo all’incirca l’VIII e la prima metà del VII secolo), a prevalere nettamente furono infatti i sistemi oligarchici, nei quali il potere era detenuto da pochi (oligoi) mentre la maggioranza della cittadinanza rimaneva, anche se non del tutto esclusa, comunque sostanzialmente ai margini della decisionalità politica vera e propria. Solo a partire dal VII secolo, come vedremo, iniziarono a diffondersi le tirannidi, espressione tra l’altro dell’ansia di affermazione politica e sociale delle masse popolari.

Infine, anche al fine di sostanziare quanto appena detto con dei dati concreti, vogliamo fare un breve cenno alle più rilevanti trasformazioni istituzionali che ebbero luogo nel mondo greco durante questa prima fase dello sviluppo delle città-stato.

Tali cambiamenti furono essenzialmente di due tipi: da una parte vi fu una trasformazione radicale della carica del sovrano a vantaggio dei poteri politici della nobiltà e dei suoi organi di governo; dall’altra vi fu un ampliamento dei poteri politici popolari, attraverso in particolare l’istituzione di cariche elettive che accrebbero di molto l’influenza dell’Ecclesia.

Quanto al primo punto, il titolo regale – come si è già visto – non venne quasi mai cancellato dalle trasformazioni politiche in corso, ma piuttosto convertito in una carica che, a vita o a termine che fosse, era comunque sempre circoscritta a un qualche aspetto o a una qualche funzione specifica della vita civile (da quelle militari, come per esempio a Sparta, a quelle sacerdotali o di altro tipo). In ogni caso – ciò che del resto era stato vero anche in precedenza – a ricoprire tale carica erano sempre esponenti della classe nobiliare, i quali dopo l’eventuale scadenza del mandato entravano a far parte del Consiglio degli anziani o dei notabili (Bulè o Gerousia) ovvero del principale organo politico dell’aristocrazia.

Veniamo ora al’Ecclesia. Essa conobbe in questo periodo due sviluppi concomitanti e per molti versi opposti. Da una parte infatti, il maggior peso politico acquisito dal popolo (soprattutto dalle fasce più benestanti) incoraggiò rispetto al passato una maggiore partecipazione da parte degli aventi diritto alle riunioni pubbliche. Dall’altra, e parallelamente, il processo di impoverimento e di proletarizzazione di buona parte della popolazione minuta (formazione dei teti) diminuì il numero di coloro che facevano veramente parte dell’Ecclesia, in quanto essi erano appunto selezionati sulla base di criteri patrimoniali. Né fu un caso se, da un certo momento in avanti, almeno per le città-stato più popolose, le riunioni iniziarono a non tenersi più nell’agorà, ormai divenuta troppo angusta, ma in luoghi esterni al vero e proprio tracciato urbano (ad Atene, per esempio, il colle della Pnice).

Un altro aspetto essenziale di queste trasformazioni istituzionali fu poi la nascita di magistrati eletti dal popolo, alle volte attraverso il metodo ancora primitivo dell’acclamazione, altre invece attraverso un vero e proprio voto popolare. Tali magistrati, in virtù soprattutto della propria posizione intermedia tra l’Ecclesia e gli organi di governo nobiliari (a loro volta elettivi), potevano infatti (e anzi dovevano) vigilare contro il pericolo di un eccessivo accentramento dei poteri tra una ristretta élite di cittadini.

Dei cambiamenti istituzionali appena descritti, vedremo alcuni esempi concreti quando parleremo dei casi di Sparta e Atene.

(b.3.1.3) La tirannide e l’ascesa delle classi popolari

Molto spesso, anche se non sempre, il dominio politico dell’aristocrazia tra VII e VI secolo venne insediato dall’avvento delle tirannidi.

Contrariamente ai legislatori che, pur ostili al potere incontrastato della nobiltà, venivano comunque elevati alla propria carica attraverso regolari elezioni (e infatti Aristotele li definisce “tiranni a tempo determinato”), i tiranni veri e propri erano personaggi che si imponevano alla comunità con la forza, di solito attraverso una guardia armata personale composta da soldati mercenari, con la quale dopo la presa del potere si difendevano dal pericolo di attentati e aggressioni.

Ma il fenomeno della tirannide non ebbe, almeno in questo primo periodo, connotati soltanto negativi. Ciò poiché, pur in contrasto con le tradizioni della città-stato, essa assolse il compito di favorire l’affermazione economica e sociale delle classi popolari (soprattutto di quelle emergenti) stabilendo, anche con confische ed espropri ai danni delle grandi proprietà, un maggior equilibrio patrimoniale tra i cittadini ricchi e quelli poveri. In tal modo, i tiranni ridiedero spesso dignità alla povera gente, ponendo i presupposti di un’ulteriore affermazione del demos in campo politico (ad Atene, per esempio, la caduta della tirannide coincise con l’inizio delle riforme di Clistene, primo atto della vera e propria instaurazione democratica).

Se volessimo individuare il motivo per cui – specialmente in epoca arcaica – tanto frequenti furono i colpi di mano dei tiranni, non potremmo che trovarlo nell’impossibilità obiettiva per le classi popolari di scardinare un sistema di potere ancora dominato politicamente dall’aristocrazia, e fondamentalmente concepito (nonostante alcune concessioni, anche importanti) a vantaggio di essa. Il tiranno difatti – che solitamente era un membro della nobiltà locale, più raramente un avventuriero esterno – si faceva interprete di un malessere diffuso soprattutto tra il popolo, e aveva nell’appoggio di quest’ultimo il fattore essenziale alla base della propria stabilità.

Non si deve tuttavia dimenticare che molti tiranni (tra i quali Pisistrato d’Atene o Pittaco di Mitilene) brillarono per mitezza ed equilibrio, e seppero almeno in certa misura mettere d’accordo tra loro le controparti politiche, conquistandosi il rispetto di parte almeno della classe di cui erano nemici.

Quanto all’aspetto istituzionale, i tiranni di solito non modificarono in modo rilevante l’assetto degli stati nei quali si insediarono. Piuttosto, essi si limitarono a ricoprire cariche di grande prestigio e a dare ai propri uomini (spesso di estrazione non nobiliare) magisteri cruciali per il controllo dello stato, riuscendo così a dominarne la vita politica senza alterarne la struttura.

Ma le tirannidi sono un fenomeno interessante anche perché espressione dei profondi stravolgimenti sociali ed ideologici che attraversavano la Grecia tra VII e VI secolo. La conflittualità tra l’aristocrazia e la nascente “borghesia” infatti, trovava la sua traduzione sul piano politico in quella tra regimi aristocratici e tirannici. Non a caso, le oligarchie erano nemiche giurate delle tirannidi e Sparta – stato guida della Lega del Peloponneso, la coalizione oligarchica per eccellenza – fece della lotta contro tali regimi uno dei punti fermi della sua politica internazionale (essa aiutò ad esempio gli ateniesi a liberarsi dalla tirannide di Ippia, anche se un tale evento ebbe poi conseguenze non pronosticate né certo desiderate).

I tiranni d’altra parte, seppure di solito di estrazione aristocratica, erano i prototipi stessi dell’individuo che si ribella all’ordine vigente e ne scardina gli automatismi e le logiche di potere, e come tali ispiravano grande ammirazione nei parvenus di recente ricchezza, divisi da profondi contrasti di carattere ideologico dalle élite dominanti. Inoltre, essi portavano spesso avanti una politica coloniale che favoriva lo sviluppo commerciale e dava ai ceti emergenti nuove e cospicue occasioni di arricchimento. Infine e non in ultimo, i tiranni cercavano di solito, nei limiti del possibile, di arricchire la città con nuovi edifici e monumenti: un fatto da cui molti imprenditori locali, che riuscivano ad accaparrarsi gli appalti pubblici, traevano grandi vantaggi economici.

I regimi tirannici insomma, entavano in forte sintonia tanto con un clima di ribellione sociale e politica serpeggiante nelle città-stato (e in particolare, più orientate in senso mercantilistico), quanto – come già Aristotele notava nella sua Politica – con gli interessi economici delle classi imprenditoriali emergenti. (Le quali, del resto, come vedremo tra poco parlando della storia ateniese, proprio in questo periodo acquisivano in molti stati maggiore importanza politica attraverso l’introduzione di criteri censuari per l’accesso alle cariche amministrative.)

In sintesi, si può quindi dire che l’etica della ricchezza e dell’affermazione attraverso il lavoro – in opposizione a quella aristocratica basata sulla stirpe e sulla nascita – trovò una traduzione mirabile, anche se indubbiamente ulteriormente perfettibile, nelle politiche economiche e sociali portate avanti dai tiranni.

Ciononostante, sarebbe un errore credere che questi trovassero il loro più solido sostegno politico in una massa di persone pur sempre relativamente ristretta, qual era appunto quella costituita dai nuovi ricchi e dalle “classi medie”. Al contrario, tale sostegno proveniva ad essi soprattutto dai possidenti più poveri (la cittadinanza minuta), quando non addirittura dagli stessi teti. Classi che, oberate dai debiti e dalle necessità, erano pronte – anche attraverso mezzi illeciti – a favorire l’insediamento di individui spregiudicati (demagoghi) che promettessero loro un miglioramento delle proprie condizioni materiali.

Non vi è dubbio, d’altra parte, che i tiranni in genere non amassero particolarmente la “plebaglia”, come dimostra ad esempio il fatto che tendessero a impedirne l’accesso all’interno delle mura della città. Ma è anche vero che essa conobbe sotto di essi un si pur modesto miglioramento dei propri standard di vita, che ripagò molto spesso con un’accanita fedeltà politica. Né furono rari casi come quello di Pisistrato, il quale acquisì il favore e il sostegno delle masse popolari attraverso promesse che finì poi per non mantenere, se non in misura trascurabile, per lanciarsi in imprese espansive che avvantaggiavano invece soprattutto le classi imprenditoriali emergenti.

Dunque, volendo dare un giudizio d’insieme su queste prime tirannidi (l’ondata successiva si collocò nel periodo tardo-classico, ed ebbe caratteri ben più dispotici e violenti) possiamo dire che esse furono espressione di un ambiente in profonda trasformazione, ovvero dell’individualismo spregiudicato di una classe – quella affaristica e imprenditoriale, appunto – che desiderava a tutti i costi affermare i propri interessi e i propri orizzonti all’interno di stati che, nonostante le innegabili aperture politiche e istituzionali dei periodi precedenti, restavano ancora comunque fondamentalmente oligarchici, aristocratici ed eunomici.

Si può concludere allora che tali regimi assolsero, nella storia politica greca, un ruolo progressivo, sia poiché favorirono un’ulteriore affermazione in ambito politico di classi che per molti versi ne restavano ancora escluse, sia perché riequilibrarono almeno in parte quelle grandi sperequazioni di ricchezza fondiaria che minavano la pace e la stabilità delle società dell’epoca, ancora essenzialmente agricole.

(b.3.2) Un modello assoluto: Sparta

In un episodio della Guerra del Peloponneso di Tucidide, alcuni ambasciatori Corinzi debbono perorare la causa della guerra contro Atene di fronte ai cittadini spartani. La differenza essenziale tra i due principali sistemi politici e sociali della Grecia viene da essi stigmatizzata in un modo semplice ed efficace: gli Spartani infatti sono definiti “lenti”, gli ateniesi “veloci”.

Le due definizioni stavano ovviamente a significare l’una il conservatorismo degli spartani, i quali avevano conservato pressoché inalterate le proprie istituzioni originarie, l’altra invece il dinamismo degli ateniesi, la cui storia al contrario era stata ricca di trasformazioni sia interne (sociali, economiche e politiche) sia esterne (formazione dell’impero marittimo). Non a caso Atene e Sparta si ponevano, agli occhi dei loro connazionali, come i due poli di una dialettica che caratterizzava l’intero mondo delle città-stato greche: quella tra l’assoluta eunomia od oligarchia, e – anche se essa fu il traguardo di secoli di aspre lotte interne – l’assoluta isonomia, ovvero la democrazia.

In effetti, Sparta era il luogo in cui i sistemi oligarchici nella loro forma più antica (quelli sorti cioè con la scomparsa del potere dei sovrani) si erano meglio conservati: a differenza di tale città-stato infatti, tutti gli altri stati greci, anche quelli più conservatori, avevano col tempo conosciuto delle trasformazioni, delle modernizzazioni. Né una tale unicità spartana deve essere ritenuta causale, dal momento che i fattori alla base di quelle trasformazioni (ovvero essenzialmente: la moneta, il commercio e il diffondersi del nuovo spirito imprenditoriale) a Sparta non avevano mai potuto penetrare, se non in modo molto superficiale, in particolare nella vita sociale e nei costumi dell’aristocrazia dominante (gli spartiati) che sola deteneva le redini del potere politico.

Inoltre – fatto questo, del tutto inusuale per tutte le altre città-stato greche – i membri dello stato spartano vivevano in una condizione di forte eguaglianza giuridico-politica e, in gran parte almeno, patrimoniale, quale premessa necessaria per conservare la propria coesione di fronte al pericolo, costantemente presente, di una ribellione delle popolazioni asservite sia dentro che fuori i propri confini.

D’altronde, l’esigenza di mantenere un saldo dominio su popoli soggiogati da antichissima data (in gran parte dal tempo delle invasioni doriche, avvenute tra XIII e XII secolo) aveva determinato a Sparta un’organizzazione sociale rigidamente stratificata, la quale costituiva l’immagine stessa dell’oligarchia nella sua forma più ‘pura’, ovvero di una società basata sull’idea della stirpe e su criteri di nascita che inibivano ogni forma di dinamismo sociale.

Quello spartano era un sistema tripartito. In esso, vi erano innanzitutto gli spartitati, che costituivano la casta dominante (l’unica a godere dei diritti politici); al di sotto degli spartiati, vi erano poi i perieci (letteralmente, “quelli che abitano (oikeo) attorno (perì)”) cui erano delegate attività come l’artigianato o il commercio; ed infine, al di sotto di tutti, vi erano gli iloti che coltivavano le terre degli spartiati e che infondo altro non erano che degli schiavi di stato.

Qui avanti parleremo di questa città-stato da tre differenti punti di vista, i quali si integrano e si completano tra loro: quello genetico; quello strutturale o sociale; quello politico e istituzionale.

(b.3.2.1) Il percorso genetico di Sparta

Lo stato spartano – o meglio ciò che lo precedette – sorse dall’invasione e dall’espropriazione violenta delle regioni della fertile Laconia (la valle dell’Eurota) da parte dei Dori. Questi ultimi sottomisero le popolazioni achee che li avevano preceduti, riducendole in gran parte in schiavitù o comunque in una condizione di forte minorità. Già molto tempo prima delle guerre contro la vicina Messenia, dunque, la società spartana aveva iniziato a fondarsi sull’asservimento di popolazioni costrette a lavorare a vantaggio dei propri membri.

Ma un tale ordinamento richiedeva anche, per forza di cose, una grande coesione sociale tra i componenti dell’aristocrazia dominante, la cui vita si organizzò perciò molto presto attorno ad alcuni centri d’aggregazione stabile che ne rimarcavano la distanza dalle popolazioni sottomesse, soprattutto da quelle schiavizzate. Molto probabilmente dunque, in questa regione, la cittadella primitiva (la polis) costituì da subito l’epicentro di un processo di assembramento non occasionale, bensì stabile, dell’intera popolazione possidente. A partire da queste considerazioni si può quindi osservare come, in Laconia, le città – seppure in una forma particolare, caotica e poco strutturata – si affermassero prima che nel resto della Grecia e che ciò avvenisse inoltre per ragioni di natura più militare e difensiva che economica.

Gli spartiti inoltre, sin dai tempi più antichi, e con un andamento crescente soprattutto a partire dalla guerra messenica, improntarono tutta la propria esistenza a rigidissimi valori militari e comunitari cui erano iniziati fin dalla prima infanzia, secondo un processo formativo del tutto particolare, chiamato agoghè, che si svolgeva sotto la direzione e la vigilanza dello stato.

Un’altra differenza infine, tra Sparta e le altre città-stato greche (in particolare Atene) fu il precoce superamento dei particolarismi legati alle grandi famiglie nobiliari, ognuna delle quali tradizionalmente deteneva su un territorio determinato un proprio potere, che esercitava ovviamente a spese dell’autorità dello stato. Tali poteri feudali, formatisi in un lontano passato grazie alla debolezza dell’istituto monarchico, non furono altrettanto rapidamente superati dalle altre poleis greche, politicamente dominate da quella stessa aristocrazia terriera che di tali influenze era detentrice. A Sparta invece, i vari capi tribali si trovarono costretti molto presto a sacrificare le proprie ambizioni particolaristiche in nome proprio di quella necessità di coesione che li aveva spinti a federarsi in un vero e proprio stato. Non a caso, tale città costituì agli occhi dei greci lo stato forte per eccellenza e come tale fu spesso anche molto ammirata.

Un residuo delle antiche divisioni territoriali e familiari tuttavia rimase, nella costituzione dei periodi maturi, nella doppia monarchia (diarchia) che vedeva i membri delle due famiglie dominanti dell’aristocrazia – gli Euripontidi e gli Agiadi – ricoprire un ruolo di primissimo piano nella vita sociale dello stato, in qualità di supreme cariche militari.

Sin dalle fasi iniziali della loro storia, quindi, Sparta e in generale le società laconiche furono caratterizzate da una separazione nettissima tra una casta di dominatori e una di dominati; dalla tendenza dei popoli dorici conquistatori a costituirsi in una comunità il più possibile compatta e inattaccabile dall’esterno, a spese dei propri particolarismi interni (e ciò, ovviamente, in risposta al continuo pericolo di ribellioni da parte delle popolazioni sottomesse); da una spiccata attitudine a coltivare valori di carattere militare, basati sull’idea di una violenza organizzata, sistematicamente e incessantemente perseguita.

(b.3.2.2) La società spartana

Quella spartana era – come si è già detto – la società oligarchica e tradizionalista per eccellenza, in quanto fondata non sul censo, che poteva crescere o diminuire a seconda delle circostanze, ma sulla stirpe, che nessun evento poteva modificare. A base di essa vi erano quindi alcune caste chiuse, cui corrispondevano, per così dire, tre “stirpi” o ceppi etnici fondamentali: quello degli spartiati (le popolazioni doriche); quello dei perieci (le popolazioni laconiche, non doriche); e quello degli iloti (le popolazioni achee antecedenti le invasioni del XIII secolo).

Quanto ai primi (sui quali abbiamo più informazioni), essi potevano decadere dal proprio rango e divenire perieci, anche se nessuno che non fosse uno spartiate per nascita poteva divenirlo per meriti personali. Proprio questo aspetto di chiusura d'altronde, avrebbe finito sui tempi lunghi per costituire uno degli anelli deboli di tutta la società spartana, determinando un’elisione progressiva del numero dei suoi cittadini e rendendo sempre più difficoltoso il loro dominio sul resto della popolazione, che per converso tendeva a crescere.

Gli spartiati vivevano nelle zone più fertili della Laconia, nei pressi del fiume Eurota, su territori che, inoltre, avevano il vantaggio di essere naturalmente isolati e protetti da quelli vicini, abitati da popoli sottomessi e quindi ostili. La Laconia tendeva difatti ad essere divisa in tre cerchi concentrici, il più interno dei quali era appunto quello occupato dagli spartiati, quello intermedio invece dai perieci, e l'ultimo o il più esterno dagli iloti.

I perieci dunque, in questo come in altri aspetti della vita sociale spartana, svolgevano un compito cruciale: quello cioè di proteggere gli spartiati dal mondo esterno, da essi giustamente avvertito come una minaccia mortale alla propria integrità.

Lo stato spartano, del resto, inteso più come l'incarnazione della collettività che come un insieme di liberi individui (come invece, almeno indicativamente, accadeva nel resto della Grecia), giocava un ruolo essenziale nella vita di ogni singolo cittadino, guidandone il percorso esistenziale dalla nascita alla morte, spezzandone ogni velleità personale e inquadrandolo in schemi rigidissimi di comportamento.

Centrale – come si è già accennato – in questo percorso di maturazione era l'agoghè, l'educazione dello spartiate, che già a sei anni veniva sottratto alla famiglia e iniziava a condurre un'esistenza comunitaria (egli, ad esempio, mangiava sempre con i coetanei in mense pubbliche) improntata a una disciplina rigidissima, dalla quale apprendeva (o avrebbe dovuto apprendere) l'obbedienza e il rispetto assoluto della comunità e dei suoi valori, la capacità di sopravvivere anche in circostanze estreme e, più in generale, ad essere un perfetto soldato. Non a caso, quello spartano era l'unico popolo di soldati professionisti che la Grecia conoscesse. Per il resto, gli eserciti ellenici erano composti da cittadini che si sottoponevano ai rigori della disciplina militare solo in caso di necessità.

D'altronde, bisogna anche ricordare che il durissimo training formativo che abbiamo appena descritto terminava verso i trent'anni, età nella quale lo spartiate riacquisiva – almeno in parte – la propria libertà personale e poteva accedere alle cariche pubbliche e all'Assemblea, ovvero alla vita politica. Dopo i sessant'anni poi, iniziava per lui un'esistenza relativamente comoda, non priva di agi, che dimostra la venerazione che la società spartana aveva verso gli anziani, incarnazione e testimonianza vivente della tradizione, essenziale in una comunità che faceva della propria immutabilità il primo e il più importante dei suoi caratteri.

Un altro aspetto da considerare è quello riguardante la proprietà delle terre. La società spartana infatti, pur comunistica nel senso che i suoi membri conducevano un'esistenza comune (palestre, mense, assemblee, ecc.), non lo era affatto nel senso della proprietà collettiva delle terre e in genere dei beni. Unica proprietà collettiva erano gli iloti, che venivano distribuiti in quantità eguali tra i membri della comunità. Le terre tuttavia erano ereditarie e quindi private, e inoltre – attraverso matrimoni ed eredità – potevano col tempo accrescersi o diminuire.

L'importanza della ricchezza privata è resa manifesta dal fatto che per essere cittadini spartani era necessario conservare una certa quota di proprietà fondiaria, al di sotto della quale si veniva declassati al rango di perieci. Questa era una delle tante prove cui lo spartiate era sottoposto nel corso della sua vita. Egli doveva, inoltre, essere in grado di badare economicamente a se stesso, di pagare le spese della propria mensa e di quella dei figli, e di offrire alle figlie una dote per maritarsi.

Pur fortemente uniti tra loro dunque (homoioi o Eguali, appunto), gli spartiati non conoscevano il valore della solidarietà e della generosità reciproca: la quantità di ricchezza da essi posseduta era uno dei tanti segni del loro valore personale (altri erano ad esempio l'abilità nella lotta, la forza fisica, il coraggio in battaglia, ecc.) e quindi dell'effettivo diritto di ciascuno di continuare a ricoprire il ruolo di cittadino.

Questo atteggiamento selettivo però (contrariamente a quanto si potrebbe pensare) non portava la società spartana a cercare di integrare i suoi fuoriusciti con elementi provenienti dall'esterno. Ciò era molto probabilmente dovuto non solo ai pregiudizi razziali e alle preclusioni che erano a base di essa, ma anche al fatto che, per quanto predisposti a un’esistenza militare, tali candidati non avrebbero dato garanzia di adattamento ai peculiari stili di vita spartani, fondamento ultimo non solo dell’identità ma anche dell’esistenza materiale di tale società.

Se si considera poi che, col tempo, le differenze patrimoniali si accrebbero enormemente, ne segue necessariamente che anche il numero dei cittadini di pieno diritto finì per calare drasticamente, rendendo così impossibile a Sparta la conservazione sia dei propri domini messenici che della Lega Peloponnesiaca (i quali difatti, furono entrambi persi dopo la sconfitta subita a Leuttra del 371 a.C. dagli eserciti della Lega Beotica).

Ricorda a questo proposito Pierre Lévêque che “alla fine del periodo arcaico siamo ancora lontani dalle scandalose disparità di beni che rovineranno Sparta nel secolo IV. Nell'insieme gli Uguali restano poveri e vivono in una dura austerità. Ma basterà che Sparta si abbandoni alle seduzioni della società mercantili perché tutto l'antico ordine crolli.”

Accanto agli spartiati, cittadini di pieni diritti, vi erano poi i perieci e gli iloti.

I primi erano, come gli spartani, popoli di stirpe lacedemone, i quali per tale ragione, ancora probabilmente ai tempi dell’insediamento dorico sul territorio, erano stati sottoposti ad un regime più blando rispetto a quello riservato agli iloti. Essi non godevano infatti dei diritti politici, ma erano comunque liberi e non schiavi, e inoltre – date le molteplici proibizioni e restrizioni cui era sottoposta la vita degli spartiati – potevano svolgere con profitto, oltre all'agricoltura, anche attività come il commercio e l'artigianato.

Come si è già detto, i perieci costituivano una sorta di “cuscinetto” tra gli Spartani e il mondo esterno. Timorosi delle seduzioni delle attività mercantili, ma anche alla ricerca dei beni che da esse derivavano, questi ultimi lasciavano infatti ai perieci l'onere di svolgerle, traendone poi un vantaggio indiretto attraverso i loro mercati. (Si noti che la moneta in uso a Sparta era in ferro, cosa che rendeva praticamente impossibile agli spartiati esercitare il commercio con il mondo esterno.)

Tutto sommato, dunque, quella dei perieci dovette essere una condizione alquanto sopportabile, forse per molti aspetti addirittura migliore di quella degli stessi spartani. Al pari di questi ultimi poi, anche i perieci avevano il diritto di armarsi e di fare la guerra, seppure in eserciti separati e subordinati a quelli dei dominatori. Anche le popolazioni lacedemoni, non propriamente spartane, godevano inoltre all'interno e all'esterno del mondo greco della fama di grande valore bellico.

Infine – ultimo anello della catena sociale, ma anche vero fondamento della ricchezza della società spartana – vi erano gli iloti.

Dopo le guerre messeniche, avvenute nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. e conclusesi all’incirca nell’anno 715, il numero di essi era aumentato in modo esponenziale. Da quel momento infatti, non vi furono più solo gli iloti della Laconia, ma anche quelli della vicina Messenia, e il rapporto numerico tra iloti e spartiati si stabilizzò probabilmente attorno a un rapporto di uno a dieci.

La vita delle popolazioni asservite a questo regime duro, era materialmente tollerabile. Esse infatti vivevano in zone isolate (anche se, chiaramente, presidiate dagli spartiati), e coltivavano la terra per i loro padroni, cui dovevano versare un consistente tributo (apophorà) in prodotti agricoli. Per il resto godevano di una relativa libertà. E tuttavia, gli iloti non erano in alcun modo difesi dalla legge, ragion per cui erano sottoposti a continui abusi e vessazioni da parte dei loro aguzzini e dominatori. Ricorda Luciano Canfora che “simbolicamente, ma non troppo, gli efori “dichiarano guerra” ogni anno agli iloti, e giovani spartiati fanno il loro tirocinio come guerrieri dedicandosi allo sport della caccia notturna agli iloti, la cui uccisione ha anche – oltre al voluto effetto terroristico – un evidente significato rituale e sacrificale.”

Ma l'importanza di queste popolazioni, dissimulata sotto l'apparenza dell'odio e del disprezzo razziali, è posta in chiara luce dal fatto che, perduta la Messenia, ebbe inizio per Sparta un inesorabile processo di decadenza sia economica, sia politica (sul piano, prima di tutto, del prestigio internazionale) sia infine morale e dei costumi.

Già nei periodi immediatamente successivi alla vittoria su Atene del 404, quando Sparta era si era posta a guida della Grecia intera, il suo antico spirito egualitario aveva iniziato a vacillare sotto il peso dei tributi delle altre città-stato, attraverso cui si era arricchita soprattutto una parte dei suoi cittadini. Ma fu a partire dalla sconfitta di Leuttra (alla quale abbiamo già accennato), da cui fu messa definitivamente in ginocchio, che Sparta iniziò a perdere i suoi connotati originari. Sconfortati dal dilagare della profonda crisi che tale evento aveva innescato, i suoi cittadini caddero infatti vittime di quello stesso “individualismo” che tanto criticavano negli altri greci, e che ovunque aveva determinato intollerabili sperequazioni tra grandi e piccoli proprietari terrieri. Con in più però l'aggravante, a Sparta, dell'assenza di quelle attività che negli altri stati costituivano una fonte di ricchezza alternativa a quella fondiaria, contribuendo a stemperare e a tamponare tali differenze.

Abbiamo fin qui affrontato il tema della società spartana, della sua particolare struttura, senza mai soffermarci – se non in modo molto marginale – sulla sua organizzazione politica ed istituzionale. A conclusione di quanto detto fin qui, vogliamo dunque parlare di quest'ultimo argomento. Ma il nostro discorso si soffermerà esclusivamente sugli spartiati. Per quanto concerne i perieci infatti, anche se sappiamo per certo che essi godevano di notevole autonomia politica, della loro organizzazione concreta non possiamo dire praticamente nulla. Lo stesso vale poi per gli iloti, sempre ammesso che anche a essi fosse lasciata una qualche facoltà d'autogoverno.

(b.3.2.3) La struttura istituzionale dello stato spartano

Anche sul piano delle istituzioni, Sparta rimase sempre estremamente vicina alle fasi più arcaiche del proprio sviluppo, nonché a quelle delle città-stato in generale. La sconfitta storica dei re aveva portato l'aristocrazia, attraverso il proprio organo di controllo, la Bulè, che a Sparta era chiamata Gerousia, a conquistare le principali leve del potere statale. Gli anziani membri di questo “Senato greco” infatti, rappresentanti delle più influenti e ricche famiglie spartane (l'aristocrazia dell'aristocrazia, per così dire), componevano una ristretta camarilla che aveva un peso essenziale nelle decisioni della comunità.

Al di sotto della Bulè vi era il popolo, riunito nell'Assemblea (l'Apella, equivalente spartano dell'Ecclesia), i cui poteri, pur crescendo nel corso del tempo, restarono sempre comunque piuttosto limitati, proprio in virtù di quell'eguaglianza e di quella concordia che dovevano caratterizzare i cittadini spartani, gli homoioi.

I sovrani, dal canto loro, non solo non scomparvero ma continuarono anche a costituire le cariche più importanti e prestigiose dell’intero sistema spartano: ad essi spettava infatti, di guidare gli eserciti in caso di guerra. Inoltre, il fatto di essere due permetteva loro di non lasciare sguarnita e indifesa militarmente la città in caso di conflitti fuori dai propri confini. Anche se uno si allontanava infatti, l’altro poteva restare a presidiare la città vigilando sull’ordine e la pace interni.

Quella dei re era inoltre una carica a vita, e in ciò essa aveva conservato connotati inconsueti per il mondo greco, almeno per quello delle città-stato. La sovranità pura infatti, si era mantenuta solo in quelle regioni – come la Tessaglia o la Macedonia – in cui le città-stato non si erano mai sviluppate e in cui l’organizzazione sociale era di conseguenza rimasta fondamentalmente ferma a uno stadio tribale.

Anche Sparta però conobbe l'esigenza di contrastare il predominio di una ristretta minoranza di cittadini, componenti dell’aristocrazia. E anche a Sparta perciò, come nel resto della Grecia, sorsero magistrature i cui membri erano eletti dal popolo, ovvero dai cittadini riuniti nell’Apella.

A tale scopo venne fondata la magistratura degli efori. Essi – il cui numero era di cinque – erano i supremi “guardiani” (è questo infatti il significato del termine greco eforos) dell'ordine e del corretto funzionamento della società degli spartiati. Eletti attraverso il voto popolare, gli efori costituivano l'anima democratica di uno stato per il resto intrinsecamente oligarchico e reazionario (vedremo più avanti, in che senso si possa parlare di una “democrazia spartana”). Loro compito era appunto quello di vigilare su eventuali abusi di potere, da qualsiasi parte essi provenissero. In realtà però, tali abusi non potevano che provenire dalle cariche più alte e influenti dello stato: i re da una parte, su cui a partire dal V secolo gli efori ebbero una notevole capacità di controllo; e la Gerousia, ovvero l'aristocrazia, dall'altra. Non a torto dunque, anche in tempi recenti, tale carica è stata paragonata a quella dei tribuni romani, come noto difensori dei diritti e degli interessi della plebe di fronte al Senato e alla nobilitas.

Il potere degli efori, d'altronde, conobbe una crescita costante nel corso del tempo, tanto che in epoca classica essi costituivano orami il centro nevralgico dello stato, ed erano di gran lunga l’istituzione più temuta e autorevole della società spartana.

Gli efori inoltre, a differenza dei membri della Gerousia, erano eleggibili senza vincoli di censo o di provenienza familiare e in ciò veniva ribadita la natura democratica ed egualitaria della loro carica. Essi erano quindi, almeno nei primi secoli, i presidi del popolo nella vita politica di Sparta, anche se, col tempo, accumularono poteri tanto smisurati da perdere gran parte di quella valenza democratica e filo-popolare che li aveva caratterizzati nei periodi precedenti.

Dagli efori inoltre dipendevano tutte le magistrature minori, molte delle quali peraltro cruciali nella vita dello stato. Controllandole, essi controllavano quindi la stessa vita politica e civile di Sparta. In particolare, dagli efori dipendevano i magistrati preposti all'educazione dei fanciulli (pedonomoi), cosa che conferiva loro un potere e un prestigio quasi illimitati in una società che – come si è visto – faceva dell'irreggimentazione dei propri membri uno dei presupposti della sua sopravvivenza.

Infine, gli efori erano gli interlocutori privilegiati del popolo, che da una parte li eleggeva e dall’altra, attraverso un proprio organismo rappresentativo (la “piccola Ecclesia”), poteva dialogare e confrontarsi con essi.

L'Apellla infatti (ovvero la grande Assemblea dei cittadini) era troppo vasta per potersi esprimere in modo diverso che attraverso il voto. Essa, ad esempio, non aveva diritto di proporre le leggi ma solo di approvarle o respingerle – cosa che del resto avveniva anche negli altri stati greci. Le uniche funzioni che essa poteva svolgere concretamente, erano appunto quella di eleggere i magistrati e di accettare o rifiutare proposte provenienti da altri organi costituzionali.

Da quanto si è detto, emerge dunque un quadro istituzionale relativamente semplice, quadro che inoltre si mantenne – almeno nei suoi tratti essenziali – pressoché immutato nel corso dei secoli, molto probabilmente anche oltre l'età classica.

Né è difficile osservare, a conclusione di quanto finora detto, come la scelta fondamentale della società spartana (da essa peraltro abbracciata con una determinazione del tutto sconosciuta non solo al resto del mondo ellenico, ma anche a quello extra-ellenico) fosse quella di sacrificare quasi totalmente la libertà individuale dei propri membri, allo scopo di conservarne immutati i privilegi in quanto casta/etnia dominante. In questo, ancor più che in altri aspetti, essa si pose effettivamente agli antipodi rispetto alla sua rivale storica, la società ateniese.

(b.3.2.4) Sparta: uno stato “democratico”?

Dopo quanto finora detto, parrebbe assurdo chiedersi se quella spartana sia stata una società democratica. Eppure, Sparta fu da molti punti di vista la prima vera democrazia del mondo greco. Se infatti con “democrazia” intendiamo un regime di sostanziale eguaglianza tra i membri di una comunità più o meno ristretta, allora possiamo dire, e senza timore di smentite, che Sparta fu una democrazia!

Né questa osservazione è frutto delle elucubrazioni di autori moderni. Al contrario, ricorda Luciano Canfora nel suo scritto sul cittadino, come nel mondo greco la distinzione tra democrazia e oligarchia – ovvero tra sistemi politici isonomici ed eunomici – fosse molto meno scontata di quanto non appaia oggi a noi moderni. In realtà, egli spiega, “ciò che cambia [tra i diversi stati greci] non è la natura del sistema politico, ma il novero dei suoi beneficiari”. Ciò poiché tutte le città-stato erano per loro natura basate sullo sfruttamento di una parte della popolazione, esterna al corpo della cittadinanza ufficiale, a vantaggio di un’altra, che proprio grazie alla prima aveva il tempo e le risorse necessarie per esercitare i propri diritti politici. In quest’ottica dunque, le città greche erano tutte oligarchiche, ovvero basate sul dominio di una minoranza di privilegiati, che pure – come osservava acutamente Aristotele – potevano quantitativamente essere anche una maggioranza.

E sempre Canfora, poco più avanti, ricorda come possa “accadere, scorrendo la letteratura politica ateniese, di imbattersi in elogi della “democrazia” spartana”, e che “addirittura Isocrate, nell’Areopagitico, giunge a proclamare l’identità profonda dell’ordinamento spartano e di quello ateniese”.

Guardandolo da questo punto d’osservazione dunque, il dominio degli Eguali spartani sugli iloti non si distingue in modo sostanziale da quello esercitato dagli ateniesi sulle proprie alleate, o sulle fasce svantaggiate della propria popolazione (schiavi, donne, meteci). Mentre al contrario, il rigido egualitarismo degli spartiati sul piano dei diritti e dei doveri, l’austera morale comunistica e militaristica tra essi in vigore poteva e può tutt’oggi essere giudicata più democratica dell’individualismo e dell’anarchia ateniesi, forieri di grandi differenze sia economiche che di prestigio tra i cittadini, e minanti perciò la loro effettiva eguaglianza politica.

Certo, come si è già mostrato, il prezzo di una tale “omogeneità forzata” era pur sempre molto alto.

Soprattutto – anche se, come abbiamo già detto, a Sparta non vigeva una vera e propria comunione dei beni – erano le differenze patrimoniali a essere più rigidamente tenute sotto controllo. E ciò sia attraverso leggi che imponevano una condotta di vita priva (almeno teoricamente) di agi e beni superflui, oltre che dell’esercizio di qualsiasi attività affaristica (la moneta infatti doveva servire solo come mezzo per soddisfare le necessità quotidiane, senza divenire un fine o un bene in se stessa!), sia attraverso l’espulsione dal corpo della cittadinanza di tutti coloro che decadevano oltre una certa soglia patrimoniale. Tali misure permettevano di mantenere una certa omogeneità economica tra gli spartiati, impedendo così il fenomeno della lotta di classe, fonte di un dinamismo e di una divisione sociali intollerabili per la società spartana.

Tuttavia, già verso la seconda metà del IV secolo questa democrazia era sulla via declino, e le disparità sociali stavano cominciando ad affermarsi in modo perentorio, come ben si evince ad esempio dalla lettura delle Vite di Agide e Cleomene di Plutarco, due re spartani del III secolo – non a caso accostati dall’autore ai Gracchi – che cercarono inutilmente di ristabilire una parte dell’antica eguaglianza patrimoniale tra la cittadinanza, scontrandosi con gli interessi di un ristretto ma potente ceto dominante.

Dopo il collasso seguito alla sconfitta di Leuttra, la “democrazia spartana”, fondata su misure repressive e coercitive paragonabili per molti versi a quelle del cosiddetto “socialismo reale” del XX secolo, non ebbe più alcun seguito. Troppo anacronistica infatti, era oramai la stessa idea di uomo su cui essa si fondava, così come il proposito di respingere fuori dai propri confini trasformazioni sociali e culturali oramai affermatesi in tutto il resto della Grecia, e in parte anche fuori di essa.

Certo, se gli spartani fossero riusciti a mantenere più a lungo il controllo sulla Messenia e sulle popolazioni ilotiche, probabilmente anche i loro peculiari stili di vita avrebbero conosciuto un più lento declino, ma non vi è dubbio che una volta decaduti, almeno in Grecia, essi non avrebbero più potuto risorgere in nessuno stato, nemmeno a Sparta. Mentre al contrario – e questo deve far pensare – la democrazia ateniese, anche dopo la tragica sconfitta del 404, cui fece seguito la fugace instaurazione di un regime oligarchico (il cosiddetto regime dei Trenta Tiranni) e lo smantellamento sia della flotta che dell’impero marittimi, risorse proprio per la decisa e disperata volontà dei suoi stessi cittadini. A proposito di questa “resurrezione democratica”, scrive Luciano Canfora:

“L’Attica aveva rifiutato la “laconizzazione”: la scelta consolidatasi a partire da Clistene era dunque divenuta una struttura profonda della realtà politica ateniese; il sistema basato sulla garanzia ai non possidenti di partecipare alla cittadinanza si era rivelato più forte e durevole dello stesso nesso (originario) tra democrazia e potere marittimo.”

(b.3.3) Atene prima della democrazia

Se Sparta fu lo stato più coeso e unitario del mondo ellenico, e se in questo senso si può in qualche modo definire una democrazia, Atene fu al contrario lo stato pluralista e dinamico per eccellenza, caratteristica nella quale possiamo scorgere le origini e i presupposti della sua futura costituzione – e più in generale della sua “vocazione” – democratica.

Qui avanti cercheremo di fare il punto sull’evoluzione della società attica ed ateniese (e ciò dal momento che Atene fu, in realtà, il centro politico di uno stato comprendente tutti i territori dell’Attica), sia da un punto di vista sociale più generale sia da un punto di vista più specifico: quello istituzionale. Il periodo trattato sarà quello che va dalle fasi precedenti alla nascita della città-stato ateniese fino ai periodi della tirannide dei Pisistratidi. Centrale nella nostra analisi sarà la svolta impressa da Solone a tale storia.

(b.3.3.1) L’evoluzione della società ateniese fino alle riforme di Solone

Per comprendere la vicenda e, in certo modo, il temperamento delle popolazioni attiche, è necessario innanzitutto prendere coscienza dei caratteri fondamentali del territorio sul quale erano insediate. L'Attica era infatti naturalmente isolata dalle regioni vicine da alte catene montuose, fattore a cui era dovuta la sua relativa omogeneità etnica. I rimescolamenti avvenuti nelle zone circostanti (ad esempio, quelli conseguenti alla discesa dei Dori, che si sarebbero poi stabiliti nel Peloponneso meridionale) furono per essa, anche se non del tutto inesistenti, certamente molto attenuati. Non a caso gli ateniesi si definivano autoctoni (che significa “nati dalla stessa terra”) e omogalacti (cioè nutriti con lo stesso latte).

Una tale omogeneità razziale (e l'assenza dei contrasti sociali da essa derivanti) fu decisiva per gli sviluppi storici di quella regione. Ricorda a tale proposito Pierre Lévêque, che “contrariamente a quanto avvenne nel Peloponneso e in Tessaglia, Atene non dovette subire l’assoggettamento di una parte della sua popolazione ad opera dei vincitori; si può vedere in ciò, senza esagerazione, l’origine del sistema sociale relativamente elastico che fu una sua caratteristica costante.” Mentre Moses Finley osserva che: “non solo Atene fu territorialmente la più grande città-stato, salvo Sparta, ma a differenza di quest'ultima essa diventò uno stato unificato senza sudditi all'interno, neppure perieci, per non parlare degli iloti. Tutti gli uomini liberi dall'Attica erano egualmente ateniesi, sia che vivessero nel capoluogo o in Maratona o in Eleusi, o in qualsiasi altra località del contado. Le nette diseguaglianze di classe non erano fondate né su distinzioni territoriali né su distinzioni etniche, ma si ripetevano nei vari demi o distretti dello stato; gli schiavi venivano da altri paesi.”

Anche in Attica certo, esistevano profondi squilibri economici tra classi alte (nobiliari) e classi basse (popolari), i quali, assieme ai tradizionali privilegi dell’aristocrazia, determinavano notevoli diseguaglianze sociali. Ed anzi, come vedremo più avanti, le sperequazioni di ricchezza erano qui ancora più profonde che nel resto della Grecia. Ciò non toglie tuttavia che le popolazioni dell'Attica non conoscessero al proprio interno fratture etniche paragonabili a quelle che laceravano non solo lo stato spartano ma anche, seppure in una forma molto più blanda, la maggior parte delle altre città-stato greche (dove, pur esistendo, esse non determinavano il frazionamento della società in caste chiuse e impenetrabili). Fu dunque proprio la relativa fluidità della società attica uno dei fattori che, assieme ad altri, favorì l'ascesa graduale del popolo alle cariche di governo, attraverso un processo storico che culminò nell'instaurazione di un vero e proprio sistema democratico.

Un altro aspetto strettamente legato alla conformazione territoriale dell'Attica fu la lentezza e la “riluttanza” delle sue popolazioni, frazionate in insediamenti indipendenti disseminati su un ampio suolo, a riunirsi in uno stato unico (sinecismo).

Mentre il sincesimo spartano – come si è visto – fu molto veloce, quello ateniese al contrario fu quanto mai lento e graduale.  Il fattore alla base del primo infatti, mancò in gran parte al secondo. La condizione di insicurezza costante delle popolazioni doriche, costantemente assediate da genti asservite e soggiogate con la forza, non esisteva in una regione come l’Attica, in cui tutto sommato – nonostante le già ricordate disparità economiche – vi era pur sempre una notevole uniformità culturale e un naturale isolamento dal mondo esterno dovuto a confini difficili da valicare. Per tali ragioni, la fusione dei diversi villaggi in una medesima entità politica e territoriale avvenne qui molto lentamente, ovvero soprattutto sotto la spinta dei mercati che, ampliandosi, cercavano centri sempre più ampi e rinomati in cui esercitarsi, in primis ovviamente quello di Atene. La polis ateniese, oltre che un rifugio sicuro per l’intera popolazione della regione, divenne così gradualmente la sede delle principali attività di mercato e, in un secondo momento, politiche del nascente stato attico.

E tuttavia, un tale centro aveva notevoli difficoltà a costituirsi come un’entità forte. I motivi che lo avevano fatto nascere difatti, non condizionavano pesantemente la vita dei singoli villaggi, che continuavano a basarsi in gran parte sull’autoconsumo e che erano inoltre da sempre governati da grandi famiglie decise a conservare i propri poteri territoriali.

Oltre a tutto, lo stesso motore economico alla base dell’unificazione territoriale – le attività di mercato – non rivestiva in tale regione un ruolo analogo a quello che ricopriva in altre, come ad esempio Corinto, nelle quali l’economia mercantile aveva conosciuto un decollo molto più veloce e vigoroso rispetto all’Attica. Infatti, proprio nei periodi in cui, dalle regioni vicine e lontane della Grecia, partivano copiose spedizioni per la fondazione di colonie (le quali avrebbero poi istituito con la madrepatria dei floridi e intensi traffici commerciali), l’Attica rimaneva al contrario ostinatamente richiusa in se stessa, legata ad un’economia essenzialmente autarchica. Per tutto il settimo secolo, ad esempio, nonostante l’alta qualità dei vasi attici, furono quelli corinzi a conoscere la massima diffusione internazionale, e ciò a causa soprattutto della scarsità della produzione ateniese.

Oltre ai fattori appena menzionati, dobbiamo poi considerarne altri che – pur strettamente legati a essi – ebbero comunque un peso indipendente nel determinare gli sviluppi socio-economici, nonché politici, di questa regione. Soprattutto, fu la lotta tra piccoli e grandi proprietari terrieri (questi ultimi, al tempo, ancora prevalentemente nobili) ciò che segnò più pesantemente la vita sociale dell’Attica e di Atene nei suoi periodi più arcaici. L’assenza di colonie in cui poter riversare parte degli scontenti e dei poveri aveva qui difatti ulteriormente esacerbato una situazione di carenza e di graduale concentrazione delle terre che – come si ricorderà – tendeva a minare la stabilità politica di un po’ tutti gli stati ellenici.

Ma questa situazione di estrema conflittualità sociale, anziché inibire l’instaurazione di riforme favorevoli al popolo, finì al contrario per fungere da “motore di avviamento”, per così dire, di una rivoluzione sociale che avvenne in modo graduale nel corso di decenni, o meglio di secoli.

Una delle prime figure a noi note, a farsi interpreti delle esigenze popolari e delle tensioni che attraversavano la società ateniese del suo tempo, fu Solone. Già Dracone (circa un secolo prima) aveva iniziato un’opera di fissazione scritta delle leggi consuetudinarie, della quale però non si sa praticamente nulla, a parte la particolare attenzione riservata alle problematiche della giustizia (ancora oggi, si usa dire “misure draconiane” a significare leggi estremamente dure e repressive, che evocano un’idea di diritto ormai superata). Né ciò fu senz’altro un caso, dal momento che una delle prime manifestazioni della formazione di veri e propri poteri statali fu una prima sostituzione delle autorità centrali ai poteri tribali in materia giudiziaria. Attraverso tali trasformazioni infatti, lo stato iniziava a minare il predominio incontrastato delle famiglie degli eupatridi sui loro stessi territori. La città diveniva così il luogo in cui – almeno teoricamente – le controversie tra i cittadini e i membri della comunità venivano giudicate con imparzialità, sulla base di leggi scritte e di una giustizia realmente egualitaria. (Giova rimandare, a questo proposito, a quanto si è detto precedentemente in merito al valore dell’opera dei primi legislatori per l’emancipazione e i diritti del popolo.)

Ma torniamo a Solone. Per comprendere l’opera di questi però, è necessario fare il punto non solo su quanto egli fece ma anche sulla situazione in cui versava l’Attica ai tempi delle sue riforme. Egli visse a cavallo tra VII e VI secolo, ma in realtà fu uomo più del primo che del secondo di essi. Momento cruciale per la sua missione politica fu senza dubbio il 594, anno in cui, oramai anziano e rinomato tra i suoi concittadini, in qualità di arconte eponimo (cui inoltre erano stati concessi speciali poteri costituzionali) poté operare una vera e propria rivoluzione istituzionale, oltre a porre le linee essenziali di una politica sociale che avrebbe dato i suoi frutti nei decenni successivi.

L’Attica, come si è detto, era percorsa da fortissime tensioni sociali: i grandi proprietari, di origine prevalentemente nobiliare, (la ricchezza commerciale, infatti, non doveva essere particolarmente diffusa in questa regione) avevano consolidato il proprio predominio sulle classi popolari, espropriando molti cittadini dei loro averi a causa dei debiti e riducendoli alle volte in schiavitù, altre volte al rango di nullatenenti, altre ancora assottigliandone molto i possedimenti. La società rischiava perciò di spaccarsi in due pezzi: una massa di poveri o di individui a rischio di povertà da una parte, e una minoranza di ricchi dall’altra. Solo la politica poteva porre rimedio a tale situazione, e ciò andava fatto per il bene della comunità, ancor prima che per i suoi singoli individui. Non a caso Solone dichiarò sempre di agire nel nome della concordia, del senso di responsabilità comune di tutti i membri (maschi) della società, anziché a favore di una determinata fascia di essa.

Come si è già accennato, le sue riforme furono essenzialmente di due tipi: politiche (cancellazione dei debiti e della schiavitù per debiti; diritto di cittadinanza – ovvero di partecipazione all’Assemblea – ai teti; instaurazione di un sistema di governo timocratico, anziché – come in passato e come in molte altre città-stato del tempo – oligarchico/aristocratico), e sociali (ovvero essenzialmente provvedimenti in favore delle classi medie, in particolare attraverso l’incoraggiamento delle attività produttive urbane e commerciali).

Quel che innanzitutto bisogna notare, è il fatto che Solone non tendesse a un’equiparazione vera e propria dei cittadini sul piano dei diritti e della ricchezza (come avveniva, ad esempio, all’interno della casta degli homoioi spartani), bensì da una parte a un alleggerimento delle differenze patrimoniali e dall’altra a dare a molti nuovi cittadini, anche attraverso i nuovi principi timocratici, la capacità di contribuire al governo sulla base delle loro reali possibilità patrimoniali. Oggi diremmo, che egli cercava di dare ai propri concittadini una maggiore possibilità di affermazione in quanto individui, a dispetto di quelle convenzioni sociali arcaiche che volevano il “sangue blu” come base e segno distintivo di prestigio sociale, a prescindere dal valore reale delle singole persone. Potremmo dire, usando un termine moderno ma senza dubbio efficace, che egli avesse in fondo un’idea meritocratica di società.

D’altra parte, dalle testimonianze che ci restano su di lui e dai suoi stessi versi, emerge chiaramente il profilo di un nobile (come, del resto, la maggior parte dei leader politici dei secoli successivi) e come tale assertore, almeno in un certo grado, della superiorità della propria classe rispetto alle classi popolari. Ciò tuttavia non toglie che egli si pose al principio di una rivoluzione che permise gradualmente al popolo (demos) di conquistare maggiori diritti e di avvicinarsi all’aristocrazia sul piano sia politico che sociale. Egli introdusse insomma, con la propria opera politica, quell’elemento di dinamismo che avrebbe caratterizzato in modo più spiccato delle regioni circostanti la società attica nei secoli successivi.

Venendo alle riforme politiche di Solone, e riservandoci di trattarne in un apposito paragrafetto gli aspetti più tecnici, possiamo dire in sintesi che egli impose la remissione dei debiti che affliggevano la parte più povera della comunità, dandole così nuovo ossigeno e interrompendo una spirale che rischiava di soffocare del tutto la classe dei piccoli e medi possidenti a vantaggio di quella dei grandi proprietari. Essa fu chiamata seisachteia, cioè “scuotimento dei pesi”, ovvero dei debiti che opprimevano la parte più povera della popolazione.

Egli non operò tuttavia, quella redistribuzione delle terre che le plebi immiserite chiedevano a gran voce: troppo lontana difatti sarebbe stata una simile misura dalla sua etica e dalla sua concezione aristocratiche. E tuttavia, rese illegale la pratica di privare della libertà e di vendere come schiavi coloro che erano incapaci di saldare i propri debiti in altro modo che con la loro stessa persona.

Inoltre, fatto rivoluzionario non solo per Atene, ma più in generale per l’intero mondo ellenico, Solone diede il diritto di partecipare all’Assemblea anche ai teti (ovvero ai cittadini non possidenti), rendendoli in tal modo parte della fascia più bassa della cittadinanza, dotata dei diritti politici elementari.

Un altro aspetto essenziale della sua opera di riforma politica – che verrà peraltro analizzato meglio più avanti – fu l’instaurazione di un governo di carattere timocratico.

Il termine timocrazia (da timao che in greco significa “avere rispetto, stima”, e cratos che significa “potere” o “autorità”) stava a indicare un sistema nel quale a qualsiasi cittadino era data la possibilità di accedere alle cariche dello stato in proporzione alla sua ricchezza e alla sua conseguente capacità di contribuzione alla vita della comunità (nel mondo delle città-stato infatti, la ricchezza privata si traduceva in gran parte in interventi ed elargizioni di carattere pubblico). Caratteristico di questo tipo di organizzazione sociale era perciò il fatto di porre in secondo piano la nobiltà o la stirpe in favore della ricchezza e del merito personali. Il fatto poi che, soprattutto in una società conservatrice quale quella ateniese del tempo, molto spesso questi due aspetti coincidessero, non toglie molto alla portata rivoluzionaria di una tale trasformazione istituzionale.

Bisogna però, a questo proposito, fare anche delle precisazioni. Non si deve credere difatti che l’Atene di questo periodo fosse particolarmente avanzata rispetto alle altre città-stato elleniche. La storia politica ateniese infatti, almeno fino alla rivoluzione soloniana, coincise – quantomeno nei suoi tratti essenziali – con quella della maggior parte delle altre città-stato greche.

In queste ultime, tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo (spesso come conseguenza dell’instaurazione delle tirannidi), si erano spesso affermate delle costituzioni “aggiornate” o miste: ovvero ancora di tipo oligarchico tradizionale, ma corrette in parte con criteri timocratici. Il che significa che, anche se per legge la maggioranza del popolo non poteva avere accesso alle magistrature e alle cariche elettive, gli esponenti più ricchi e influenti della società, qualunque fosse la loro origine familiare, avevano la possibilità, come riconoscimento del loro valore sociale, di svolgere un ruolo attivo nel governo della città.

Quel che distinse la storia di Atene rispetto al resto della Grecia, fu il fatto che a una tale rivoluzione timocratica (in tale stato peraltro, attuata molto probabilmente in modo più radicale che nel resto della Grecia), seguisse dopo pochi decenni l’instaurazione di un vero e proprio regime isonomico e democratico, basato cioè su una sostanziale equiparazione di tutti i cittadini sul piano dei diritti politici, senza rilevanti distinzioni di ricchezza o di stirpe. Una trasformazione che – come si è già più volte detto – fu grandemente favorita dalla relativa uniformità etnica e culturale della popolazione attica.

Oltre a quelle appena citate, Solone pose in atto anche un secondo gruppo di riforme, che potremmo definire “sociali”, in quanto volte a modificare la struttura e la composizione della società. Riguardo a queste ultime, la sua opera può essere accostata a quella del suo successore, il tiranno Pisistrato. Entrambi difatti cercarono di favorire, contro lo strapotere delle classi nobiliari e fondiarie, l'emergere di nuovi ceti legati ad attività economiche urbane, avendo ben compreso che le riforme richieste con tanta decisione da una parte del popolo (annullamento dei debiti, redistribuzione delle terre, ecc.), pur potendosi forse attuare con grandi rischi e sofferenze, non avrebbero mai potuto costituire un duraturo rimedio al problema della progressiva concentrazione delle terre. Solo la formazione di una solida classe media, che si arricchisse attraverso i traffici e l'industria e fosse proprietaria di ricchezze sufficienti a vivere senza dipendere dalla nobiltà terriera, avrebbe potuto infatti arginare un tale processo. Per tale ragione, sia Solone che Pisistrato si adoperarono – seppure in modi diversi – per favorire e assecondare lo sviluppo di tali classi.

Solone operò prevalentemente in tre settori: quello monetario, quello metrico (dei pesi e delle misure), quello professionale.

Mentre prima delle sue riforme, gli ateniesi si erano appoggiati alla moneta di Egina (un vicino stato col quale, tra l’altro, intrattenevano rapporti fortemente conflittuali), a partire da esse poterono invece utilizzare una propria moneta: la dracma, in futuro mezzo di scambio pressoché universale nell'area mediterranea e egea, almeno fino alla conquista romana. Non che questo cambiamento avesse come unico effetto quello di favorire gli scambi commerciali. Il frazionamento monetario del mondo greco (ovvero il fatto che molti stati pretendessero di battere una propria moneta) era infatti uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo dei traffici al suo interno. Tale scelta però, fu al tempo stesso manifestazione dell'orgoglio nazionalistico di Atene e dell’importanza che andavano acquisendo le attività commerciali tra molti dei suoi cittadini.

Sul piano delle misure poi, regnava una confusione che rendeva complicati e poco agevoli gli scambi commerciali tra gli stessi membri della comunità attica. A ciò Solone pose rimedio imponendo al suo interno delle unità metriche universali sia per i pesi che per le misure spaziali.

Ma il provvedimento principale per la trasformazione dell'Attica in direzione delle attività urbane e dei commerci, fu un'opera sistematica di attrazione degli stranieri ad Atene. Attraverso agevolazioni di varia natura, egli incoraggiava questi ultimi, chiamati meteci, a insediarsi stabilmente o comunque per lunghi periodi all’interno della città. Il fatto poi che essi non potessero per legge acquistare terre (la proprietà di queste era diritto esclusivo dei cittadini a pieno titolo) li costringeva a svolgere attività urbane quali il commercio, l'artigianato o i prestiti. In poco tempo, Atene si popolò così di una nuova classe di “imprenditori urbani”, che con le proprie intraprese incoraggiarono tra i cittadini lo sviluppo di colture specializzate finalizzate a traffici internazionali (una strada peraltro, inizialmente praticata soprattutto dai piccoli e medi proprietari, dal momento che quelli più grandi rimanevano legati all'ideale e alla pratica dell’autosufficienza alimentare). Non vi è da stupirsi dunque, se a partire da Solone Atene iniziò a divenire una città di mercanti e di artigiani e un centro di smercio sempre più rinomato nel mondo egeo.

Con Pisistrato poi, che perseguì una politica di espansione coloniale verso gli Stretti del Bosforo, preziosissimi sbocchi per il rifornimento granario dalle vicine regioni orientali, tale processo di espansione commerciale proseguì a vele spiegate, mentre, come vedremo nel prossimo capitolo, a partire dalle guerre Persiane (478) la capitale dell'Attica si trasformò nella principale potenza marittima (e militare) del mondo greco.

Quanto a Pisistrato, nel suo caso non si può parlare di vere e proprie riforme. I tiranni, difatti, erano di solito tanto sovvertitori dell'ordine sostanziale e delle tradizioni, quanto – per compensazione – conservatori dell'ordine formale, ovvero delle istituzioni. Piuttosto, Pisistrato pose in essere una politica interna ed estera che mirava a guadagnarsi l'appoggio e l'amicizia sia delle classi borghesi-imprenditoriali che di quelle più umili.

A favore dei piccoli proprietari delle montagne (diacri), che avevano dato un appoggio sostanziale alla sua ascesa politica e al colpo di mano che lo aveva portato ad instaurare la tirannide (la quale non fu peraltro mai particolarmente stabile: Pisistrato infatti fu cacciato per ben due volte dalla città e per due volte vi tornò, mantenendovi infine il potere sino alla morte), egli operò molte espropriazioni delle terre nobiliari e istituì un sistema di prestiti di stato che favorì ulteriormente la riconversione delle loro colture a criteri intensivi, favorevoli al commercio internazionale. Egli fu dunque un “democratico” nel senso più letterale del termine, dal momento che seppe sedurre e farsi amico il demos, il popolino, riservandogli attenzioni estranee anche alla politica di un aristocratico – pur non del tutto convenzionale – come Solone.

Ma in realtà Pisistrato fu, oltre che un nemico giurato dei grandi proprietari delle pianure (pediei) e dei loro privilegi, un accesso sostenitore delle classi commerciali e mercantili delle coste (paralii). Furono queste ultime difatti, ancor più che il popolino, le principali beneficiarie delle sue politiche più originali ed innovative: quelle coloniali e marittime. Egli fu il primo uomo politico ateniese a comprendere la necessità per la propria città di dotarsi di una flotta marittima, intuendo i possibili sviluppi nella politica e nell’economia che tale fatto avrebbe comportato.

Con lui Atene avviò un’espansione coloniale ritardata di circa un secolo rispetto alle altre città-stato elleniche, ma il cui vigoroso sviluppo la portò in pochi decenni a divenire una delle maggiori potenze marittime greche (e, dopo le guerre persiane, l’indiscussa protagonista della vita militare, politica ed economica della Grecia orientale).

Una tale espansione fu diretta – come già si è accennato – principalmente verso le regioni del Bosforo e dell’Ellesponto, ponte di accesso alle pianure della Tracia, ricchissime produttrici di grano. Dati i vincoli che le colonie e i territori d’influenza ateniese avevano con la madrepatria, Atene finì così in pochi anni per acquisire una sorta di monopolio sulle merci che da tali regioni affluivano in Grecia, divenendo, a causa della loro importanza, uno dei più ricchi centri del mondo ellenico.

Pisistrato diede insomma, un ulteriore impulso a quel processo di sviluppo delle classi urbane e mercantili che già il suo predecessore Solone aveva avviato con molto profitto. Non è esagerato affermare quindi che questi due personaggi posero i presupposti sociali ed economici della storia ateniese classica, anticipando inoltre – soprattutto il secondo – molti aspetti di quella politica di potenza che fu a base degli sviluppi democratici di essa.

Pisistrato morì tiranno. I suoi figli invece, che avevano ereditato dal padre la città quasi come una “proprietà personale”, no. L’uno (Ipparco) fu ucciso, l’altro (Ippia) esiliato in seguito a un’insurrezione popolare, guidata da una fazione nobiliare (quella degli Alcmeonidi) avversa a quella del tiranno. Né la cosa deve stupire, data l’idiosincrasia dimostrata dal popolo greco – sin dai cosiddetti periodi oscuri – verso ogni forma di potere assoluto. Come infatti ricorda giustamente Pierre Lévêque, “la tirannide portava in sé la cause della propria rovina nella misura in cui le sue riforme contribuivano a risolvere le crisi sociale della quale essa era nata: tutti i cittadini desideravano allora ritornare a un governo regolare, in cui l’esercizio del potere non fosse riservato ad un solo uomo.”

(b.3.3.2) Le istituzioni di Atene dalle origini a Solone

La polis o città-stato si caratterizza da subito come centro dell’attività politica, come luogo di confronto e di scontro, nonché – almeno in parte – di condivisione di valori da parte di due mondi (quello aristocratico e quello popolare) che nelle epoche precedenti erano rimasti tra loro molto più rigidamente separati. (Moses Finley, ad esempio, a proposito delle epoche buie parla di una “assenza delle nette categorie sociali proprie delle società dei tempi posteriori, in particolare di una netta distinzione tra categorie della “libertà” e della “servitù”.” E afferma che solo “la demarcazione fondamentale tra nobili e non nobili è abbastanza chiara. Al di sopra e al di sotto di questa linea le distinzioni appaiono incerte”.)

Un tale processo di convergenza e di reciproca contaminazione, può peraltro essere scorto anche nella storia delle istituzioni, e ciò tanto più quanto più esse sono connotate in senso democratico. Basti, a tale proposito, considerare l’evoluzione della Bulè ateniese: all'inizio organo interamente nobiliare, che gradualmente mutò la propria composizione e struttura, fino a divenire uno dei cardini della costruzione democratica.

La storia delle poleis greche fu dunque quella del graduale avvicinamento del popolo all’aristocrazia, ovvero – nell’ambito specifico della politica – della graduale elisione popolare del monopolio decisionale della nobiltà, attraverso la conquista, tra l’altro, di poteri e istituti che in passato erano stati una prerogativa esclusiva di quest’ultima. Certo, un tale processo di avvicinamento non fu per nulla lineare, né univoco nei suoi esiti, ma comunque vi fu e costituì uno degli aspetti essenziali della vita politica greca del periodo arcaico e classico, che si manifestò ovviamente con intensità crescente quanto più il popolo riusciva a guadagnare terreno rispetto all’aristocrazia.

Veniamo ora a descrivere brevemente l’evoluzione delle istituzioni ateniesi dalla nascita della città-stato fino alle riforme soloniane.

Se ad Atene le istituzioni regali si conservarono a lungo dopo la nascita della città-stato (ovvero una volta avvenuto il sinecismo), ciò fu dovuto non solo all'indole tradizionalista delle popolazioni attiche (un tema del quale abbiamo già avuto modo di parlare), ma anche al fatto che le istituzioni del periodo miceneo (organizzate, come si ricorderà, attorno all'autorità regale) furono qui meno profondamente scardinate che nel resto della Grecia, data l'assenza o quasi su tali territori delle incursioni dei popoli dorici, apportatori di morte, distruzione e sconvolgimenti politici ovunque passarono. Si deve inoltre notare che, almeno nei primi tempi, vi furono ad Atene più re contemporaneamente, ognuno quasi certamente in corrispondenza con una delle famiglie dell’antica nobiltà tribale (gli Eupatridi).

E tuttavia, anche ad Atene i sovrani furono alla fine spodestati. Qui essi furono sostituiti da tre magistrati, chiamati arconti, in carica inizialmente per dieci e successivamente per un anno, i quali frazionavano tra diverse figure istituzionali prerogative (militari, religiose ed esecutive) che un tempo erano accentrate intorno al sovrano. Gli arconti inoltre, in quanto magistrati, erano eletti dall'Ecclesia con un mandato a termine. L’arconte eponimo era tra tutti quello più importante, dal momento che deteneva i più alti poteri esecutivi dello stato; l’arconte basilues era invece la più alta carcica religiosa; l’arconte polemarco infine, quella militare.

Anche ad Atene, come nel resto della Grecia, dopo la caduta dei sovrani le istituzioni principali divennero l'Assemblea (Ecclesia) e il Consiglio degli anziani (Bulè). Mentre però la seconda vide col tempo assottigliarsi i propri poteri, la prima al contrario – da un’iniziale condizione di minorità rispetto all’altra – li vide aumentare, in concomitanza con la trasformazione in senso democratico dello stato.

Quella ateniese d’altronde era, al contrario di altre, una Bulè estremamente “popolosa”, dal momento che, per essere rappresentativa di tutta l’Attica, doveva riunire membri della nobiltà provenienti dai molti distretti di cui tale regione era composta. Proprio per tale ragione, venne presto istituito un organo superiore composto da un più ristretto numero di individui, i pritani, che in sostanza ne dirigevano i lavori.

Tra le altre cose, la Bulè doveva decidere quali questioni andassero sottoposte al giudizio dell'Assemblea, che aveva quindi anche il compito di convocare. Essa inoltre doveva stabilire l'idoneità o meno dei magistrati eletti dal popolo a ricoprire le cariche loro assegnate. Dunque, anche se molte decisioni erano effettivamente prese dall'Ecclesia, la Bulè poteva condizionare – ed anzi, si potrebbe dire guidarein modo sostanziale la vita della comunità. E anche se questi due poteri tendevano a bilanciarsi tra loro, ciò avveniva – almeno inizialmente – con notevole vantaggio per la Bulè.

A partire dalla riforma di Dracone poi, la Bulè ebbe anche il compito di decidere in merito alle questioni giudiziarie più importanti, le quali venivano così sottratte ai poteri tribali locali a favore del potere centrale dello stato. (Per le cause meno rilevanti, invece, esisteva un tribunale minore, quello degli efeti, a sua volta espressione del potere statale.)

Ma la Bulè, tra tutte le istituzioni ateniesi, fu anche quella che nel corso dei secoli conobbe la trasformazione più considerevole. Tralasciando per ora quella che ebbe luogo sotto Clistene verso la fine del VI secolo, dobbiamo qui ricordare l’evoluzione avvenuta sotto l'arcontato di Solone.

Se prima delle riforme di quest’ultimo un tale organo era rimasto un dominio esclusivo degli Eupatridi (ovvero dalle più importanti famiglie nobiliari), da allora in avanti l'accesso ad esso fu regolato invece su criteri censuari o timocratici. Dal momento che, ovviamente, il patrimonio era un segno tangibile di prestigio e di influenza sociale, più esso cresceva, più doveva crescere di conseguenza la possibilità per il singolo cittadino di accedere ad incarichi istituzionali prestigiosi. Così, per la prima volta, con le riforme di Solone anche cittadini non nobili acquisirono la possibilità di entrare a fare parte di quest’organo supremo: un evento, peraltro approvato da gran parte della nobiltà, la cui portata epocale non è difficile immaginare.

Più in dettaglio, le classi di censo stabilite da Solone furono le seguenti: sopra tutti vi erano i pentacosiomedimni (ovvero coloro la cui rendita annuale superava i cinquecento medimni l’anno), subito dopo vi erano i cavalieri (cioè coloro che in guerra andavano a cavallo, e che quindi non erano opliti, e la cui rendita annuale era compresa tra i cinquecento e i quattrocento medimni), dopo questi vi erano gli zeugiti (gli opliti appunto, cittadini le cui entrate erano stimate tra i trecento e i duecento medimni annui), e infine i teti (la cui rendita annua era inferiore ai duecento medimni).

Mentre gli arconti e i tesorieri di stato potevano provenire solo dalla prima categoria, tutti gli altri magistrati potevano essere indifferentemente scelti dalla prima, dalla seconda e dalla terza. Solo i teti rimanevano dunque confinati alla sola Assemblea, alla quale tuttavia non avevano fino ad allora mai avuto accesso.

Ma l'antica Bulè, pur rimpiazzata da quella nuova istituita da Solone (detta dei Quattrocento per il numero dei suoi membri), non scomparve ma continuò a esistere con il nome di Areopago, anche se con poteri molto ridotti rispetto al passato. L’assottigliamento dei poteri di un tale organo fu un fatto costante nel corso dei decenni, che culminò probabilmente con le riforme di Efialte, che ne limitarono la giurisdizione ai soli delitti di sangue.

È evidente dunque, da quanto si è detto finora, che il periodo soloniano costituì lo spartiacque a partire dal quale il popolo iniziò ad acquisire un potere decisionale sostanziale.

Sul piano giudiziario poi, va ricordata la creazione da parte di Solone di un nuovo tribunale, chiamato Elieia, che andava ad affiancarsi a quello, risalente ancora a Dracone, dell’antica Bulè, ora divenuta Areopago. Tale tribunale era definito popolare, in quanto i suoi membri provenivano indifferentemente da tutte le classi di censo. Sua caratteristica essenziale era il fatto di costituire l’ultima spiaggia per imputati già condannati dal tribunale dell’Areopago e da quello degli efeti. Ricorrere ad esso era un po’ quel che è oggi ricorrere in appello.

Anche quest'ultimo fatto dunque, fa risaltare come, con le riforme di Solone, il popolo fece grandi progressi sul piano del riconoscimento politico e civile, mentre la nobiltà – la stessa peraltro, i cui membri componevano le più importanti cariche istituzionali – vedeva vacillare sia i propri poteri politici generali che quelli territoriali, questi ultimi a favore delle istituzioni centrali dello stato che avevano sede in Atene.

Non si deve tuttavia credere che esso avesse oramai smantellato le antiche organizzazioni tribali risalenti al periodo oscuro, per vari ordini di ragioni ancora molto solide e forti. Anche se infatti esso era riuscito ad indebolirle, per molti aspetti doveva ancora scendervi a patti, cercando anzi di mantenere con esse rapporti di fattiva collaborazione. Lo stato infatti, non aveva ancora gli strumenti materiali e l’autorevolezza necessari a esercitare un controllo effettivo sulle campagne e sulle zone esterne ad Atene con l’eccezione, forse, degli altri centri urbani.

Una dimostrazione di ciò può essere scorta nella divisione dei territori statali nelle cosiddette naucrarie, distretti in linea di massima coincidenti con le zone di influenza delle principali famiglie nobiliari. Fu solo a partire da Clistene, che il suolo attico venne ripartito secondo criteri non coincidenti con tali zone, ciò che – come vedremo meglio avanti – determinò la fine sostanziale degli antichi poteri tribali prestatali sul piano politico e amministrativo.

(b.3.4) La politica nel mondo arcaico

A conclusione di quanto detto finora, vorremmo fare alcune considerazioni molto generali sulla politica in Grecia nel periodo arcaico, sulle sue caratteristiche essenziali e sulle differenze rispetto al mondo vicino orientale.

Due ci paiono i caratteri peculiari e distintivi di tale realtà, caratteri che peraltro essa condivise con la successiva età classica: la concezione della politica come lotta, come agone tra diversi individui o soggetti politici; e la presenza di una vasta classe intermedia tra l’aristocrazia terriera e le classi rurali povere.

(b.3.4.1) la politica come lotta sociale, il rischio della stasis e i valori aristocratici

Cominciamo dal primo punto. La città-stato fu, sin dai suoi albori e con un’intensità crescente nel corso dei secoli, il luogo del dibattito e del confronto/scontro tra diverse classi sociali o gruppi di interesse.

La politica come lotta di classe non era a quel tempo concepibile in nessun altro luogo al di fuori del mondo greco, così come del resto non lo era stata nella Grecia dei periodi precedenti. Prima e al di fuori della Grecia arcaica difatti le decisioni riguardanti la vita della comunità erano rimaste appannaggio, se non di un Sovrano dai poteri illimitati, quantomeno di una ristretta cerchia di notabili.

Ci si potrebbe del resto chiedere quali fattori contribuissero allo sviluppo di questo tipo di organizzazione politica, tipicamente greca. Si può tentare di dare una risposta, per quanto incerta e approssimativa, a questa domanda.

Innanzitutto vi fu la ristrettezza dei confini dello stato, che permetteva una vita a stretto contatto tra tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla loro collocazione sociale (un fattore che fu ulteriormente favorito dalla nascita della città come luogo di riunione ricorrente della popolazione adulta).

Un altro fattore favorevole a tale sviluppo fu l'assenza pressoché totale, prima della nascita della polis, di un'organizzazione sociale stabile. La polis sorse quindi in un clima di anarchia latente, nel quale le classi popolari ebbero relativa facilità a inserirsi come soggetto politico rilevante, in grado di avanzare delle proprie rivendicazioni – cosa tanto più vera per coloro che, attraverso la propria intraprendenza personale, avessero acquisito una certa ricchezza e un certo prestigio sociale.

Ma in un contesto variegato e conflittuale quale quello appena descritto, erano anche impliciti dei rischi. In particolare, sempre in agguato era il pericolo della stasis, la guerra civile, che infatti fu una costante della storia delle città-stato greche dai loro albori fin oltre l'età ellenistica. La formazione di fazioni in lotta tra loro, di solito (anche se non sempre) con una forte connotazione di classe, teneva la comunità costantemente in bilico tra la pace e la guerra.

Non per caso, molti studiosi hanno osservato come il concetto moderno di pace fosse del tutto sconosciuto al mondo greco antico, sia per ciò che riguarda la vita interna che per quella esterna ai singoli stati. Mentre infatti noi moderni siamo abituati a concepire la pace come una condizione normale, destinata a durare indeterminatamente, e la guerra come una condizione momentanea, al contrario gli antichi – e in particolare i Greci – consideravano la prima come una condizione transitoria, un accordo a termine tra stati, che determinava un interludio tra periodi di belligeranza ritenuti invece normali. Molti storici antichi del resto, ritenevano che nei periodi di pace non accadesse pressoché nulla di rilevante e degno di essere registrato, e quindi se ne disinteressavano. Questa particolare concezione era senza dubbio espressione di quella mentalità agonale che caratterizzava da sempre i popoli greci, ma era anche al tempo stesso il risultato di quell’endemica instabilità politica, sia interna che esterna, che affliggeva le città-stato.

In ogni caso, il fatto stesso della lotta sociale come base della vita della comunità comportava il pericolo costante della guerra civile.

Il rischio era che una o più parti della popolazione si autodesignassero come la “vera” cittadinanza, le uniche eredi dello spirito della comunità di cui facevano parte, e che per tale ragione si sentissero in diritto/dovere di debellare dalla città, eliminandole o mandandole in esilio, le fazioni avverse. Scoppiava allora la guerra civile (stasis), un evento tragico non solo in se stesso, ma anche per gli strascichi che si portava dietro. I membri delle fazioni esiliate difatti, cercavano successivamente di ritornare in patria e di vendicarsi di coloro che li avevano scacciati ed espropriati dei loro beni, ciò che dava adito a nuove lotte intestine, secondo un processo che rischiava di non avere mai termine.

Ogni società sviluppa degli “anticorpi” al proprio interno, per difendersi dalle proprie storture. La città-stato sviluppò il principio dell’equilibrio e dell’equidistanza, come valore sommo dell’esistenza sia individuale che sociale.

I greci avevano inventato diversi nomi e concetti, peraltro strettamente interconnessi tra loro, per designare questa idea fondamentale. È del resto significativo il fatto che tali concetti furono elaborati e formalizzati per la prima volta dai membri delle classi aristocratiche, in un periodo e in un contesto in cui esse godevano ancora di un primato indiscusso all’interno della vita decisionale della comunità, proprio al fine di giustificare il proprio diritto a governare.

Secondo tale visione, le classi aristocratiche, libere dalle cure materiali che affliggevano il resto della popolazione, erano le portatrici naturali di questo tipo di nobiltà, cui davano diversi nomi. I più comuni erano: aretè (virtù, valore), kalokagathia (l’equilibrio del corpo e dello spirito), sophrosyne (assennatezza, prudenza, sanità di mente): concetti che rimandavano tutti, anche se con sfumature diverse, alla capacità di operare in modo conveniente, senza cadere negli eccessi, e che erano intimamente connessi al senso del limite umano. Senza quest’ultimo, gli uomini cadevano inevitabilmente nell’empietà, nella hubris (la tracotanza verso gli dèi), scatenando così lo fthonos theòn (l’ira divina) e la giusta punizione che ne derivava.

Di questa costellazione di concetti troviamo più di una testimonianza non solo nei versi di molti poeti lirici (specialmente di quelli politici, come Solone o Teognide), ma anche in Esiodo e, seppure in forma ancora abbozzata e primitiva, nello stesso Omero.

E non è un caso che nei successivi periodi classici, anche laddove (come per esempio ad Atene) l’aristocrazia aveva ormai definitivamente perduto il monopolio sulla vita politica, tali valori rimanessero uno dei più importanti principi direttivi di quest’ultima. Essi infatti avevano un significato e una portata che andava ben oltre le esigenze ideologiche e di propaganda che avevano portato l’aristocrazia a elaborarli e a formularli, attribuendoseli. Essi costituivano una delle basi stesse del buon funzionamento della città-stato.

L’ideale dell’armonia e dell’equilibrio fu dunque una costante, tanto etica quanto estetica, della polis greca in tutti i suoi stadi evolutivi: dalle fasi più arcaiche fino a quelle classiche e postclassiche. E se ciò avvenne, causa ne fu il fatto che un tale ideale rifletteva una necessità obiettiva in un contesto costantemente dilaniato da fazioni avverse, le quali spesso non si accontentavano di combattersi attraverso i normali strumenti politici, ma ricorrevano a strumenti illegali e clandestini (come le “eterie”, o società segrete) quando non addirittura alla guerra aperta.

(b.3.4.2) le classi medie come base del rinnovamento politico del mondo greco

Alla base dell’originalità pressoché assoluta del mondo politico greco arcaico, vi fu poi anche un altro aspetto, inscindibile peraltro da quello appena descritto: lo sviluppo di una consistente classe intermedia – tanto in senso economico, quanto in senso politico e ideologico – tra i due estremi della nobiltà terriera e delle masse rurali. Un fenomeno questo, che (come già gli antichi avevano compreso) costituì l’origine più profonda della città-stato come forma di organizzazione politica alternativa a quella, ancora essenzialmente feudale, del periodo oscuro.

La centralità nella storia greca di queste classi fu legata in primo luogo al fatto che esse godessero di una solida autosufficienza economica, che le affrancava dalla tradizionale dipendenza dalla nobiltà terriera. Proprio per tale ragione, esse diedero inizio e sostennero in modo sostanziale quel processo di emancipazione della comunità dallo strapotere nobiliare che – come abbiamo già più volte visto – costituì la componente più profonda ed essenziale della vita politica delle città-stato.

È evidente infatti che, anche se il popolo minuto si accodò successivamente a questo trend, accampando a sua volta delle rivendicazioni politiche, un tale fatto fu reso possibile proprio dall’affermazione preventiva di queste classi intermedie, che sole erano in grado, per i motivi appena enunciati, di costituire una reale alternativa politica al tradizionale predominio aristocratico e quindi di scardinarlo.

Merito di tali classi inoltre, fu quello di farsi promotrici di una nuova etica, la quale per molti versi andava oltre sia l’egualitarismo popolare che l’individualismo eroico dell’aristocrazia, che superava e sintetizzava in un’idea superiore. Esse erano infatti promotrici di una concezione della vita basata su una competizione fondata su leggi imparziali e egualitarie, la cui realizzazione in campo economico avveniva attraverso quelle attività commerciali, produttive e di mercato cui tali classi si dedicavano.

Questa particolare visione etica, assieme ai peculiari stili di vita che vi erano legati, finì col tempo per diffondersi anche tra gli altri membri della polis, contribuendo così a creare quell’uniformità morale e materiale che rese possibile la coesione e l’identificazione di tutti i cittadini in un unico organismo sociale e politico, nonché quindi il dibattito e la partecipazione politica al suo interno.

Questo processo di uniformazione del resto della società agli ideali egualitari e isonomici della popolazione media, si può vedere bene nella trasformazione delle élite politiche che ebbe luogo in città-stato come Atene. In esse, l’antica aristocrazia oligarchica tese col tempo a dividersi in due opposte fazioni: da una parte una ristretta minoranza di irriducibili conservatori (i cosiddetti “oligarchi”) i quali, seppure in un contesto mutato, continuavano a perorare la causa della superiorità e del predominio politico dell’aristocrazia sul popolo (eunomia); e dall’altra una nuova e più cospicua leva politica di leader democratici, tra i quali – tanto per fare qualche esempio – Clistene e Pericle, che al contrario divennero i protagonisti della vita democratica della città-stato.

La presenza di una forte classe media, emancipata da poteri superiori e promotrice di un’etica egualitaria in ambito politico, fu dunque un fenomeno tipicamente greco, fondamentalmente assente negli stati del vicino mondo orientale.

Ed è in tali classi che bisogna ricercare le radici più profonde di quell’etica – legalitaria ed egualitaria, ma anche profondamente individualistica e agonale – che caratterizzò la città-stato nei suoi periodi di maggiore splendore. Così come, del resto, la decadenza di tali classi coincise con quella delle stesse città-stato e dei loro valori fondanti.


a cura di Adriano Torricelli

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Antica
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Aggiornamento: 01/05/2015