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LE ORIGINI E LA NATURA DELLA DEMOCRAZIA IN GRECIA
1-2-3-4-5-6-7
IL PERCORSO CULTURALE E POLITICO DEI GRECI

(b.3) Principali forme di
organizzazione politica dell’età arcaica
Qui avanti vogliamo soffermarci sulle
forme d’organizzazione propriamente politica che caratterizzarono il mondo greco
nel periodo arcaico. Argomento non facile, data l’estrema varietà di situazioni
che lo caratterizzarono. Proprio per questa ragione, la nostra analisi si
muoverà essenzialmente su due piani: uno più generale; e un altro invece
specificamente legato alla situazione spartana e a quella
ateniese.
Infine, faremo alcune considerazioni
sulla natura dello stato e della politica in Grecia, con un occhio alle
differenze rispetto al mondo vicino orientale.
(b.3.1) Monarchia, oligarchia,
tirannide
Anche se la città-stato in Grecia non
era sempre esistita, la polis al contrario aveva origini antichissime.
Essa era stata in epoca oscura, più che un villaggio al pari degli altri, il
luogo in cui si svolgevano le attività decisive per la comunità: da quelle
legate al culto degli dei a quelle politiche, che vedevano il re confrontarsi
con l’aristocrazia, o meglio con un ristretto Consiglio di nobili (Bulè)
che la rappresentava. Infine, fatto per nulla trascurabile, in caso di guerra
essa era stata il rifugio dell’intera popolazione.
Con la rinascita economica della
Grecia (IX – VIII secolo) la polis iniziò a diventare un centro in cui si
riuniva, prima solo saltuariamente, poi in modo sempre più continuativo, una
parte consistente della popolazione per scambiare i propri prodotti. Essa
iniziava cioè a non essere più monopolio delle classi alte, per diventare un
luogo accessibile anche al popolo.
L’entrata di quest’ultimo
all’interno delle mura della città – le cui dimensioni e struttura
rendevano ancora molto distante da un vero e proprio centro urbano – segnò
l’inizio di un lungo processo che culminò nella nascita della città-stato
propriamente detta. Tale evento si pose difatti all’origine non solo della
partecipazione popolare alla vita politica, ma anche del sorgere di un
nuovo concetto di comunità, fondata su leggi scritte (ovvero sul concetto di
legalità) e su istituzioni che andavano al di là delle
organizzazioni tribali, fino ad allora base della vita associata.
E anche se la democrazia vera e
propria era un traguardo ancora molto lontano a venire, a partire da tale
rivoluzione la storia greca coincise con un processo – più o meno accentuato, a
seconda dei casi – di ascesa e di affermazione politica del popolo e di
restringimento dei privilegi delle classi aristocratiche.
Qui avanti cercheremo di ripercorrere
questo cammino dalle sue fasi iniziali fino a quelle che precedettero l’età
classica.
(b.3.1.1) La monarchia: la prima forma della città-stato
Nella prima fase del suo sviluppo la
polis era ancora dominata da uno o più re (basileis). Al di sotto
di questi vi era l’aristocrazia (rappresentata dalla Bulè) e al disotto
di entrambi il popolo (radunato nell’Ecclesia).
Il potere del sovrano affondava le
proprie radici nelle epoche oscure, ma aveva comunque un fondamento e una reale
ragione d’essere anche a quel tempo: tale carica infatti si poneva a base e a
garanzia dell’unità e della pace dell’intera comunità, fondandosi inoltre, in
quanto egli era anche il maggiore possidente terriero, su una ricchezza e una
potenza effettive. Il sovrano svolgeva compiti giudiziari, militari e religiosi,
ma il suo potere era ben lungi dall’essere privo di limiti. Al suo fianco stava
difatti un consiglio di anziani notabili capace di condizionarne le scelte.
La decisionalità politica era dunque
essenzialmente frutto della dialettica tra la nobiltà e il sovrano, mentre
all’Assemblea popolare (ovvero l’insieme dei piccoli e medi possidenti che
avessero raggiunto la maggiore età) spettava di approvare per acclamazione le
loro decisioni. A tale scopo, essa si riuniva periodicamente in un luogo
pubblico, di solito la piazza della città, dove tali decisioni le venivano
comunicate. Se poi l’Ecclesia avesse anche qualche capacità di influenza
su di esse è cosa difficile a dirsi, ma tale potere – se pure esisteva – era
comunque certamente marginale.
Come si vede, la situazione qui
descritta non è molto distante da quella del periodo oscuro, nel quale il popolo
era ancora totalmente soggiogato dai poteri nobiliari e dall’autorità del re.
Tuttavia, rispetto ad esso, entravano ora in gioco anche degli elementi nuovi:
la città o polis come luogo di aggregazione dell’intera popolazione
adulta e possidente, e una prima forma di partecipazione di quest’ultima (anche
se fondamentalmente ancora in veste di semplice spettatrice) alle attività
decisionali delle classi dominanti.
(b.3.1.2) L’oligarchia e il dominio delle classi aristocratiche (eunomia)
In una fase più matura dello sviluppo
delle poleis, si ebbe la scomparsa dei sovrani. Tale evento, che nella
maggior parte dei casi fu il risultato di un processo graduale e quindi pacifico
(e ciò anche perché la carica regale, pur snaturata, continuò di solito a
esistere ricoprendo ruoli più specifici), fu determinato essenzialmente da due
fattori.
Da una parte infatti col tempo la
nobiltà ampliò ulteriormente le sue proprietà terriere, avvicinandosi così alla
ricchezza e alla potenza del sovrano e vanificandone le ultime velleità di
dominio; dall’altra la città-stato, in quanto entità politica stabile e
organizzata in modo collegiale, ne rese sempre più superflua la presenza. Essa
aveva difatti oramai sviluppato nuove forme di organizzazione politica,
inconciliabili con un potere che (pur con inevitabili condizionamenti) tendeva
comunque a decidere tutto dall’alto.
Tuttavia la nobiltà, che aveva appena
vinto sul sovrano, si trovava ora di fronte a un nemico ben più temibile: il
popolo, il cui peso sociale diveniva col tempo sempre più consistente.
E infatti, i due processi
concomitanti – di cui abbiamo già parlato – di arricchimento di una parte
di esso attraverso i mercati e di impoverimento di un’altra per ragioni
patrimoniali, ne rendevano la presenza politicamente sempre più inquieta e
significativa. Se difatti alcuni, in qualità di possidenti ricchi (e in seguito
anche di opliti) rivendicavano maggiori diritti politici, altri, soprattutto
attraverso la richiesta di redistribuzione delle terre, creavano tensioni
sociali sempre più profonde e pericolose per il potere
costituito.
La nobiltà, che si era appena
impossessata delle leve decisionali della società a scapito dei re, vedeva
insomma minato il suo incontrastato predominio ad opera delle classi popolari.
È un buon esempio questo – uno dei tanti nella storia – di come il momento
di maggiore splendore di una classe sociale possa corrisponda a volte con
l’inizio del suo declino.
Certo, indiscutibilmente i nobili
ebbero un ruolo politicamente egemone nella storia delle città-stato arcaiche,
ma già a partire dall’VIII secolo dovettero convivere con una realtà – quella
del popolo, appunto – che progressivamente e inesorabilmente andava minandone
l’egemonia sociale e politica.
Segno di una tale elisione del potere
nobiliare fu senza dubbio, tra VIII e VII secolo, la nascita delle prime
legislazioni scritte, ad opera dei primi legislatori.
Costoro, a quanto pare, erano figure
pacificatrici elette col consenso sia dei nobili che dei plebei, quindi
dell’intera cittadinanza. Ma attraverso la loro opera essi negavano
all’aristocrazia guerriera un privilegio di cui aveva goduto per alcuni secoli:
quello di amministrare a suo capriccio la giustizia e la vita della società.
Mentre fino ad allora infatti, le leggi erano state tramandate oralmente
all’interno delle grandi famiglie (le quali perciò le avevano facilmente
manipolate sulla base delle proprie convenienze), a partire dall’opera di tali
legislatori, appunto in quanto scritte, esse divennero un patrimonio comune
dell’intera comunità.
Il che non significa chiaramente che,
soprattutto se paragonate a quelle delle età successive, tali leggi fossero
particolarmente favorevoli al popolo. Ma il fatto stesso di essere fissate una
volta per sempre ed esposte pubblicamente costituiva per quest’ultimo un’enorme
conquista, tanto che possiamo dire con Pierre Lévêque che “l’opera dei grandi
legislatori segna una data fondamentale nella storia del diritto e assicura il
primo trionfo del demos sui nobili.”
Eppure, nonostante tutto ciò,
quest’epoca di essenziale predominio fu guardata dalla nobiltà dei periodi
successivi con grande nostalgia, anche se proprio in essa prese corpo quella
secolare lotta tra aristocratici e plebei (ovvero tra ricchi e poveri) che, in
forme ovviamente aggiornate, avrebbe caratterizzato tutti i successivi
periodi della storia greca, fin oltre l’età ellenistica.
Di tale lotta troviamo i segni – come
abbiamo già ricordato – nei versi di molti poeti lirici del VII secolo.
L’esempio più celebre è costituito senz’altro da Teognide, il quale tra le altre
cose si lamentava dell’ingresso nella città di soggetti “che un tempo – senza
legge, senza giustizia – / logoravano una pelle di capra intorno ai fianchi / e
pascolavano come cervi, fuori dalle mura”: in altre parole per l’ingresso nelle
mura urbane del popolo, della povera gente.
Anche Alceo poi, nobile costretto
all’esilio proprio da uno di questi legislatori, un certo Pittaco di Mitilene,
mostra nei suoi versi grande acredine sia verso il popolo che verso i suoi
difensori. In un frammento, per esempio, egli canta con gioia la morte di uno di
essi. (“Era ora! Bisogna prendere la sbornia. / Si beva a viva forza: è morto
Mirsilo.”)
Ed è sempre in questo periodo, che la
nobiltà – ancora detentrice dei più rilevanti poteri politici, ma al tempo
stesso consapevole della propria difficile condizione – elabora quegli ideali
etici ed estetici attraverso i quali cerca di dare una giustificazione alla
propria supremazia politica. Ricorda a tale proposito Giudo Carotenuto come “nel
momento in cui cominciano ad avvertire la crisi che va investendo la loro
posizione di privilegio, i nobili rendono a se stessi consapevoli le basi della
loro ideologia nei principi della kalokaghatìa, della sophrosyne,
della aretà, quasi per opporre un’estrema resistenza alle nuove forze
sociali che li minacciano”.
Ed è altresì interessante osservare
come questi ideali di saggezza, equilibrio e moderazione (dei quali peraltro
parleremo ancora), sarebbero stati in seguito, almeno in parte, fatti propri da
quelle stesse classi che stavano guadagnando terreno a spese della nobiltà. Il
che peraltro ci induce a riflettere, una volta di più, su come la città-stato
fosse per molti aspetti una realtà unitaria, basata cioè su valori trasversali,
accettati da tutti i suoi membri senza rilevanti distinzioni di rango o di
classe. La città-stato fu insomma il risultato della confluenza e
dell’amalgama in un unico luogo fisico di diverse componenti ed apporti
culturali, ciò che creò – pur nelle inevitabili diversità di fondo –
quell’ambiente relativamente omogeneo che fu una delle basi essenziali del suo
buon funzionamento.
Nonostante i conflitti di cui abbiamo
appena parlato, comunque, si può dire che l’età arcaica fu rispetto alle
successive quella maggiormente dominata da sistemi politici eunomici,
basati cioè sul “potere dei pochi”, dei “migliori” (aristoi), dei nobili.
(Eunomia infatti in greco significa “buona (eu) legge
(nomos)”, ovvero legge della minoranza o della nobiltà).
Soprattutto nella prima fase di
questa età (diciamo all’incirca l’VIII e la prima metà del VII secolo), a
prevalere nettamente furono infatti i sistemi oligarchici, nei quali il potere
era detenuto da pochi (oligoi) mentre la maggioranza della cittadinanza
rimaneva, anche se non del tutto esclusa, comunque sostanzialmente ai margini
della decisionalità politica vera e propria. Solo a partire dal VII secolo, come
vedremo, iniziarono a diffondersi le tirannidi, espressione tra l’altro
dell’ansia di affermazione politica e sociale delle masse
popolari.
Infine, anche al fine di sostanziare
quanto appena detto con dei dati concreti, vogliamo fare un breve cenno alle più
rilevanti trasformazioni istituzionali che ebbero luogo nel mondo greco
durante questa prima fase dello sviluppo delle città-stato.
Tali cambiamenti furono
essenzialmente di due tipi: da una parte vi fu una trasformazione radicale della
carica del sovrano a vantaggio dei poteri politici della nobiltà e dei suoi
organi di governo; dall’altra vi fu un ampliamento dei poteri politici popolari,
attraverso in particolare l’istituzione di cariche elettive che accrebbero di
molto l’influenza dell’Ecclesia.
Quanto al primo punto, il titolo
regale – come si è già visto – non venne quasi mai cancellato dalle
trasformazioni politiche in corso, ma piuttosto convertito in una carica che, a
vita o a termine che fosse, era comunque sempre circoscritta a un qualche
aspetto o a una qualche funzione specifica della vita civile (da quelle
militari, come per esempio a Sparta, a quelle sacerdotali o di altro tipo). In
ogni caso – ciò che del resto era stato vero anche in precedenza – a ricoprire
tale carica erano sempre esponenti della classe nobiliare, i quali dopo
l’eventuale scadenza del mandato entravano a far parte del Consiglio degli
anziani o dei notabili (Bulè o Gerousia) ovvero del principale
organo politico dell’aristocrazia.
Veniamo ora al’Ecclesia. Essa
conobbe in questo periodo due sviluppi concomitanti e per molti versi opposti.
Da una parte infatti, il maggior peso politico acquisito dal popolo (soprattutto
dalle fasce più benestanti) incoraggiò rispetto al passato una maggiore
partecipazione da parte degli aventi diritto alle riunioni pubbliche.
Dall’altra, e parallelamente, il processo di impoverimento e di
proletarizzazione di buona parte della popolazione minuta (formazione dei
teti) diminuì il numero di coloro che facevano veramente parte
dell’Ecclesia, in quanto essi erano appunto selezionati sulla base di
criteri patrimoniali. Né fu un caso se, da un certo momento in avanti, almeno
per le città-stato più popolose, le riunioni iniziarono a non tenersi più
nell’agorà, ormai divenuta troppo angusta, ma in luoghi esterni al vero e
proprio tracciato urbano (ad Atene, per esempio, il colle della
Pnice).
Un altro aspetto essenziale di queste
trasformazioni istituzionali fu poi la nascita di magistrati eletti dal
popolo, alle volte attraverso il metodo ancora primitivo dell’acclamazione,
altre invece attraverso un vero e proprio voto popolare. Tali magistrati, in
virtù soprattutto della propria posizione intermedia tra l’Ecclesia e gli
organi di governo nobiliari (a loro volta elettivi), potevano infatti (e anzi
dovevano) vigilare contro il pericolo di un eccessivo accentramento dei
poteri tra una ristretta élite di cittadini.
Dei cambiamenti istituzionali appena
descritti, vedremo alcuni esempi concreti quando parleremo dei casi di Sparta e
Atene.
(b.3.1.3) La tirannide e l’ascesa delle classi popolari
Molto spesso, anche se non sempre, il
dominio politico dell’aristocrazia tra VII e VI secolo venne insediato
dall’avvento delle tirannidi.
Contrariamente ai legislatori che,
pur ostili al potere incontrastato della nobiltà, venivano comunque elevati alla
propria carica attraverso regolari elezioni (e infatti Aristotele li definisce
“tiranni a tempo determinato”), i tiranni veri e propri erano personaggi che si
imponevano alla comunità con la forza, di solito attraverso una guardia armata
personale composta da soldati mercenari, con la quale dopo la presa del potere
si difendevano dal pericolo di attentati e aggressioni.
Ma il fenomeno della tirannide non
ebbe, almeno in questo primo periodo, connotati soltanto negativi. Ciò
poiché, pur in contrasto con le tradizioni della città-stato, essa assolse il
compito di favorire l’affermazione economica e sociale delle classi popolari
(soprattutto di quelle emergenti) stabilendo, anche con confische ed espropri ai
danni delle grandi proprietà, un maggior equilibrio patrimoniale tra i cittadini
ricchi e quelli poveri. In tal modo, i tiranni ridiedero spesso dignità alla
povera gente, ponendo i presupposti di un’ulteriore affermazione del demos
in campo politico (ad Atene, per esempio, la caduta della tirannide coincise
con l’inizio delle riforme di Clistene, primo atto della vera e propria
instaurazione democratica).
Se volessimo individuare il motivo
per cui – specialmente in epoca arcaica – tanto frequenti furono i colpi di mano
dei tiranni, non potremmo che trovarlo nell’impossibilità obiettiva per le
classi popolari di scardinare un sistema di potere ancora dominato politicamente
dall’aristocrazia, e fondamentalmente concepito (nonostante alcune concessioni,
anche importanti) a vantaggio di essa. Il tiranno difatti – che solitamente era
un membro della nobiltà locale, più raramente un avventuriero esterno – si
faceva interprete di un malessere diffuso soprattutto tra il popolo, e aveva
nell’appoggio di quest’ultimo il fattore essenziale alla base della propria
stabilità.
Non si deve tuttavia dimenticare che
molti tiranni (tra i quali Pisistrato d’Atene o Pittaco di
Mitilene) brillarono per mitezza ed equilibrio, e seppero almeno in certa misura
mettere d’accordo tra loro le controparti politiche, conquistandosi il rispetto
di parte almeno della classe di cui erano nemici.
Quanto all’aspetto istituzionale, i
tiranni di solito non modificarono in modo rilevante l’assetto degli stati nei
quali si insediarono. Piuttosto, essi si limitarono a ricoprire cariche di
grande prestigio e a dare ai propri uomini (spesso di estrazione non
nobiliare) magisteri cruciali per il controllo dello stato, riuscendo così a
dominarne la vita politica senza alterarne la struttura.
Ma le tirannidi sono un fenomeno
interessante anche perché espressione dei profondi stravolgimenti sociali ed
ideologici che attraversavano la Grecia tra VII e VI secolo. La conflittualità
tra l’aristocrazia e la nascente “borghesia” infatti, trovava la sua traduzione
sul piano politico in quella tra regimi aristocratici e tirannici. Non a caso,
le oligarchie erano nemiche giurate delle tirannidi e Sparta – stato guida della
Lega del Peloponneso, la coalizione oligarchica per eccellenza – fece della
lotta contro tali regimi uno dei punti fermi della sua politica internazionale
(essa aiutò ad esempio gli ateniesi a liberarsi dalla tirannide di Ippia, anche
se un tale evento ebbe poi conseguenze non pronosticate né certo
desiderate).
I tiranni d’altra parte, seppure di
solito di estrazione aristocratica, erano i prototipi stessi dell’individuo che
si ribella all’ordine vigente e ne scardina gli automatismi e le logiche di
potere, e come tali ispiravano grande ammirazione nei parvenus di recente
ricchezza, divisi da profondi contrasti di carattere ideologico dalle élite
dominanti. Inoltre, essi portavano spesso avanti una politica coloniale che
favoriva lo sviluppo commerciale e dava ai ceti emergenti nuove e cospicue
occasioni di arricchimento. Infine e non in ultimo, i tiranni cercavano di
solito, nei limiti del possibile, di arricchire la città con nuovi edifici e
monumenti: un fatto da cui molti imprenditori locali, che riuscivano ad
accaparrarsi gli appalti pubblici, traevano grandi vantaggi
economici.
I regimi tirannici insomma, entavano
in forte sintonia tanto con un clima di ribellione sociale e politica
serpeggiante nelle città-stato (e in particolare, più orientate in senso
mercantilistico), quanto – come già Aristotele notava nella sua Politica
– con gli interessi economici delle classi imprenditoriali emergenti. (Le quali,
del resto, come vedremo tra poco parlando della storia ateniese, proprio in
questo periodo acquisivano in molti stati maggiore importanza politica
attraverso l’introduzione di criteri censuari per l’accesso alle cariche
amministrative.)
In sintesi, si può quindi dire che
l’etica della ricchezza e dell’affermazione attraverso il lavoro – in
opposizione a quella aristocratica basata sulla stirpe e sulla nascita – trovò
una traduzione mirabile, anche se indubbiamente ulteriormente perfettibile,
nelle politiche economiche e sociali portate avanti dai tiranni.
Ciononostante, sarebbe un errore
credere che questi trovassero il loro più solido sostegno politico in una massa
di persone pur sempre relativamente ristretta, qual era appunto quella
costituita dai nuovi ricchi e dalle “classi medie”. Al contrario, tale sostegno
proveniva ad essi soprattutto dai possidenti più poveri (la cittadinanza
minuta), quando non addirittura dagli stessi teti. Classi che, oberate
dai debiti e dalle necessità, erano pronte – anche attraverso mezzi illeciti – a
favorire l’insediamento di individui spregiudicati (demagoghi) che
promettessero loro un miglioramento delle proprie condizioni
materiali.
Non vi è dubbio, d’altra parte, che i
tiranni in genere non amassero particolarmente la “plebaglia”, come dimostra ad
esempio il fatto che tendessero a impedirne l’accesso all’interno delle mura
della città. Ma è anche vero che essa conobbe sotto di essi un si pur modesto
miglioramento dei propri standard di vita, che ripagò molto spesso con
un’accanita fedeltà politica. Né furono rari casi come quello di Pisistrato, il
quale acquisì il favore e il sostegno delle masse popolari attraverso promesse
che finì poi per non mantenere, se non in misura trascurabile, per lanciarsi in
imprese espansive che avvantaggiavano invece soprattutto le classi
imprenditoriali emergenti.
Dunque, volendo dare un giudizio
d’insieme su queste prime tirannidi (l’ondata successiva si collocò nel
periodo tardo-classico, ed ebbe caratteri ben più dispotici e violenti) possiamo
dire che esse furono espressione di un ambiente in profonda trasformazione,
ovvero dell’individualismo spregiudicato di una classe – quella affaristica e
imprenditoriale, appunto – che desiderava a tutti i costi affermare i propri
interessi e i propri orizzonti all’interno di stati che, nonostante le
innegabili aperture politiche e istituzionali dei periodi precedenti, restavano
ancora comunque fondamentalmente oligarchici, aristocratici ed
eunomici.
Si può concludere allora che tali
regimi assolsero, nella storia politica greca, un ruolo progressivo, sia poiché
favorirono un’ulteriore affermazione in ambito politico di classi che per molti
versi ne restavano ancora escluse, sia perché riequilibrarono almeno in parte
quelle grandi sperequazioni di ricchezza fondiaria che minavano la pace e la
stabilità delle società dell’epoca, ancora essenzialmente
agricole.
(b.3.2) Un modello assoluto: Sparta
In un episodio della Guerra del
Peloponneso di Tucidide, alcuni ambasciatori Corinzi debbono perorare la
causa della guerra contro Atene di fronte ai cittadini spartani. La differenza
essenziale tra i due principali sistemi politici e sociali della Grecia viene da
essi stigmatizzata in un modo semplice ed efficace: gli Spartani infatti sono
definiti “lenti”, gli ateniesi “veloci”.
Le due definizioni stavano ovviamente
a significare l’una il conservatorismo degli spartani, i quali avevano
conservato pressoché inalterate le proprie istituzioni originarie, l’altra
invece il dinamismo degli ateniesi, la cui storia al contrario era stata ricca
di trasformazioni sia interne (sociali, economiche e politiche) sia esterne
(formazione dell’impero marittimo). Non a caso Atene e Sparta si ponevano, agli
occhi dei loro connazionali, come i due poli di una dialettica che
caratterizzava l’intero mondo delle città-stato greche: quella tra l’assoluta
eunomia od oligarchia, e – anche se essa fu il traguardo di secoli di
aspre lotte interne – l’assoluta isonomia, ovvero la
democrazia.
In effetti, Sparta era il luogo in
cui i sistemi oligarchici nella loro forma più antica (quelli sorti cioè con la
scomparsa del potere dei sovrani) si erano meglio conservati: a differenza di
tale città-stato infatti, tutti gli altri stati greci, anche quelli più
conservatori, avevano col tempo conosciuto delle trasformazioni, delle
modernizzazioni. Né una tale unicità spartana deve essere ritenuta causale, dal
momento che i fattori alla base di quelle trasformazioni (ovvero essenzialmente:
la moneta, il commercio e il diffondersi del nuovo spirito
imprenditoriale) a Sparta non avevano mai potuto penetrare, se non in modo
molto superficiale, in particolare nella vita sociale e nei costumi
dell’aristocrazia dominante (gli spartiati) che sola deteneva le redini
del potere politico.
Inoltre – fatto questo, del tutto
inusuale per tutte le altre città-stato greche – i membri dello stato spartano
vivevano in una condizione di forte eguaglianza giuridico-politica e, in
gran parte almeno, patrimoniale, quale premessa necessaria per conservare la
propria coesione di fronte al pericolo, costantemente presente, di una
ribellione delle popolazioni asservite sia dentro che fuori i propri
confini.
D’altronde, l’esigenza di mantenere
un saldo dominio su popoli soggiogati da antichissima data (in gran parte dal
tempo delle invasioni doriche, avvenute tra XIII e XII secolo) aveva determinato
a Sparta un’organizzazione sociale rigidamente stratificata, la quale
costituiva l’immagine stessa dell’oligarchia nella sua forma più ‘pura’, ovvero
di una società basata sull’idea della stirpe e su criteri di
nascita che inibivano ogni forma di dinamismo sociale.
Quello spartano era un sistema
tripartito. In esso, vi erano innanzitutto gli spartitati, che
costituivano la casta dominante (l’unica a godere dei diritti politici); al di
sotto degli spartiati, vi erano poi i perieci (letteralmente, “quelli che
abitano (oikeo) attorno (perì)”) cui erano delegate attività come
l’artigianato o il commercio; ed infine, al di sotto di tutti, vi erano gli
iloti che coltivavano le terre degli spartiati e che infondo altro non
erano che degli schiavi di stato.
Qui avanti parleremo di questa
città-stato da tre differenti punti di vista, i quali si integrano e si
completano tra loro: quello genetico; quello strutturale o
sociale; quello politico e istituzionale.
(b.3.2.1) Il percorso genetico di Sparta
Lo stato spartano – o meglio ciò che
lo precedette – sorse dall’invasione e dall’espropriazione violenta delle
regioni della fertile Laconia (la valle dell’Eurota) da parte dei Dori. Questi
ultimi sottomisero le popolazioni achee che li avevano preceduti, riducendole in
gran parte in schiavitù o comunque in una condizione di forte minorità. Già
molto tempo prima delle guerre contro la vicina Messenia, dunque, la società
spartana aveva iniziato a fondarsi sull’asservimento di popolazioni costrette a
lavorare a vantaggio dei propri membri.
Ma un tale ordinamento richiedeva
anche, per forza di cose, una grande coesione sociale tra i componenti
dell’aristocrazia dominante, la cui vita si organizzò perciò molto presto
attorno ad alcuni centri d’aggregazione stabile che ne rimarcavano la distanza
dalle popolazioni sottomesse, soprattutto da quelle schiavizzate. Molto
probabilmente dunque, in questa regione, la cittadella primitiva (la
polis) costituì da subito l’epicentro di un processo di
assembramento non occasionale, bensì stabile, dell’intera popolazione
possidente. A partire da queste considerazioni si può quindi osservare come, in
Laconia, le città – seppure in una forma particolare, caotica e poco strutturata
– si affermassero prima che nel resto della Grecia e che ciò avvenisse
inoltre per ragioni di natura più militare e difensiva che
economica.
Gli spartiti inoltre, sin dai tempi
più antichi, e con un andamento crescente soprattutto a partire dalla guerra
messenica, improntarono tutta la propria esistenza a rigidissimi valori militari
e comunitari cui erano iniziati fin dalla prima infanzia, secondo un processo
formativo del tutto particolare, chiamato agoghè, che si svolgeva sotto
la direzione e la vigilanza dello stato.
Un’altra differenza infine, tra
Sparta e le altre città-stato greche (in particolare Atene) fu il precoce
superamento dei particolarismi legati alle grandi famiglie nobiliari, ognuna
delle quali tradizionalmente deteneva su un territorio determinato un proprio
potere, che esercitava ovviamente a spese dell’autorità dello stato. Tali poteri
feudali, formatisi in un lontano passato grazie alla debolezza dell’istituto
monarchico, non furono altrettanto rapidamente superati dalle altre
poleis greche, politicamente dominate da quella stessa aristocrazia
terriera che di tali influenze era detentrice. A Sparta invece, i vari capi
tribali si trovarono costretti molto presto a sacrificare le proprie ambizioni
particolaristiche in nome proprio di quella necessità di coesione che li aveva
spinti a federarsi in un vero e proprio stato. Non a caso, tale città
costituì agli occhi dei greci lo stato forte per eccellenza e come tale fu
spesso anche molto ammirata.
Un residuo delle antiche divisioni
territoriali e familiari tuttavia rimase, nella costituzione dei periodi maturi,
nella doppia monarchia (diarchia) che vedeva i membri delle due famiglie
dominanti dell’aristocrazia – gli Euripontidi e gli Agiadi – ricoprire un ruolo
di primissimo piano nella vita sociale dello stato, in qualità di supreme
cariche militari.
Sin dalle fasi iniziali della loro
storia, quindi, Sparta e in generale le società laconiche furono caratterizzate
da una separazione nettissima tra una casta di dominatori e una di
dominati; dalla tendenza dei popoli dorici conquistatori a costituirsi in una
comunità il più possibile compatta e inattaccabile
dall’esterno, a spese dei propri particolarismi interni (e ciò, ovviamente,
in risposta al continuo pericolo di ribellioni da parte delle popolazioni
sottomesse); da una spiccata attitudine a coltivare valori di carattere
militare, basati sull’idea di una violenza organizzata, sistematicamente e
incessantemente perseguita.
(b.3.2.2) La società spartana
Quella spartana era – come si è già
detto – la società oligarchica e tradizionalista per eccellenza, in quanto
fondata non sul censo, che poteva crescere o diminuire a seconda delle
circostanze, ma sulla stirpe, che nessun evento poteva modificare. A base
di essa vi erano quindi alcune caste chiuse, cui corrispondevano, per così dire,
tre “stirpi” o ceppi etnici fondamentali: quello degli spartiati (le
popolazioni doriche); quello dei perieci (le popolazioni laconiche, non
doriche); e quello degli iloti (le popolazioni achee antecedenti le
invasioni del XIII secolo).
Quanto ai primi (sui quali abbiamo
più informazioni), essi potevano decadere dal proprio rango e divenire perieci,
anche se nessuno che non fosse uno spartiate per nascita poteva divenirlo per
meriti personali. Proprio questo aspetto di chiusura d'altronde, avrebbe finito
sui tempi lunghi per costituire uno degli anelli deboli di tutta la società
spartana, determinando un’elisione progressiva del numero dei suoi cittadini e
rendendo sempre più difficoltoso il loro dominio sul resto della popolazione,
che per converso tendeva a crescere.
Gli spartiati vivevano nelle zone più
fertili della Laconia, nei pressi del fiume Eurota, su territori che, inoltre,
avevano il vantaggio di essere naturalmente isolati e protetti da quelli vicini,
abitati da popoli sottomessi e quindi ostili. La Laconia tendeva difatti ad
essere divisa in tre cerchi concentrici, il più interno dei quali era appunto
quello occupato dagli spartiati, quello intermedio invece dai perieci, e l'ultimo
o il più esterno dagli iloti.
I perieci dunque, in questo come in
altri aspetti della vita sociale spartana, svolgevano un compito cruciale:
quello cioè di proteggere gli spartiati dal mondo esterno, da essi giustamente
avvertito come una minaccia mortale alla propria integrità.
Lo stato spartano, del resto, inteso
più come l'incarnazione della collettività che come un insieme di liberi
individui (come invece, almeno indicativamente, accadeva nel resto della
Grecia), giocava un ruolo essenziale nella vita di ogni singolo cittadino,
guidandone il percorso esistenziale dalla nascita alla morte, spezzandone ogni
velleità personale e inquadrandolo in schemi rigidissimi di comportamento.
Centrale – come si è già accennato –
in questo percorso di maturazione era l'agoghè, l'educazione dello
spartiate, che già a sei anni veniva sottratto alla famiglia e iniziava a
condurre un'esistenza comunitaria (egli, ad esempio, mangiava sempre con i
coetanei in mense pubbliche) improntata a una disciplina rigidissima, dalla
quale apprendeva (o avrebbe dovuto apprendere) l'obbedienza e il rispetto
assoluto della comunità e dei suoi valori, la capacità di sopravvivere anche in
circostanze estreme e, più in generale, ad essere un perfetto soldato. Non a
caso, quello spartano era l'unico popolo di soldati professionisti che la
Grecia conoscesse. Per il resto, gli eserciti ellenici erano composti da
cittadini che si sottoponevano ai rigori della disciplina militare solo in caso
di necessità.
D'altronde, bisogna anche ricordare
che il durissimo training formativo che abbiamo appena descritto terminava verso
i trent'anni, età nella quale lo spartiate riacquisiva – almeno in parte – la
propria libertà personale e poteva accedere alle cariche pubbliche e
all'Assemblea, ovvero alla vita politica. Dopo i sessant'anni poi, iniziava per
lui un'esistenza relativamente comoda, non priva di agi, che dimostra la
venerazione che la società spartana aveva verso gli anziani, incarnazione e
testimonianza vivente della tradizione, essenziale in una comunità che
faceva della propria immutabilità il primo e il più importante dei suoi
caratteri.
Un altro aspetto da considerare è
quello riguardante la proprietà delle terre. La società spartana infatti,
pur comunistica nel senso che i suoi membri conducevano un'esistenza comune
(palestre, mense, assemblee, ecc.), non lo era affatto nel senso della proprietà
collettiva delle terre e in genere dei beni. Unica proprietà collettiva erano
gli iloti, che venivano distribuiti in quantità eguali tra i membri della
comunità. Le terre tuttavia erano ereditarie e quindi private, e inoltre –
attraverso matrimoni ed eredità – potevano col tempo accrescersi o diminuire.
L'importanza della ricchezza privata
è resa manifesta dal fatto che per essere cittadini spartani era necessario
conservare una certa quota di proprietà fondiaria, al di sotto della quale si
veniva declassati al rango di perieci. Questa era una delle tante prove cui lo
spartiate era sottoposto nel corso della sua vita. Egli doveva, inoltre, essere
in grado di badare economicamente a se stesso, di pagare le spese della propria
mensa e di quella dei figli, e di offrire alle figlie una dote per maritarsi.
Pur fortemente uniti tra loro dunque
(homoioi o Eguali, appunto), gli spartiati non conoscevano il valore
della solidarietà e della generosità reciproca: la quantità di ricchezza da essi
posseduta era uno dei tanti segni del loro valore personale (altri erano ad
esempio l'abilità nella lotta, la forza fisica, il coraggio in battaglia, ecc.)
e quindi dell'effettivo diritto di ciascuno di continuare a ricoprire il ruolo
di cittadino.
Questo atteggiamento selettivo però
(contrariamente a quanto si potrebbe pensare) non portava la società spartana a
cercare di integrare i suoi fuoriusciti con elementi provenienti dall'esterno.
Ciò era molto probabilmente dovuto non solo ai pregiudizi razziali e alle
preclusioni che erano a base di essa, ma anche al fatto che, per quanto
predisposti a un’esistenza militare, tali candidati non avrebbero dato garanzia
di adattamento ai peculiari stili di vita spartani, fondamento ultimo non solo
dell’identità ma anche dell’esistenza materiale di tale società.
Se si considera poi che, col tempo,
le differenze patrimoniali si accrebbero enormemente, ne segue necessariamente
che anche il numero dei cittadini di pieno diritto finì per calare
drasticamente, rendendo così impossibile a Sparta la conservazione sia dei
propri domini messenici che della Lega Peloponnesiaca (i quali difatti, furono
entrambi persi dopo la sconfitta subita a Leuttra del 371 a.C. dagli eserciti
della Lega Beotica).
Ricorda a questo proposito Pierre
Lévêque che “alla fine del periodo arcaico siamo ancora lontani dalle scandalose
disparità di beni che rovineranno Sparta nel secolo IV. Nell'insieme gli Uguali
restano poveri e vivono in una dura austerità. Ma basterà che Sparta si
abbandoni alle seduzioni della società mercantili perché tutto l'antico ordine
crolli.”
Accanto agli spartiati, cittadini di pieni diritti, vi erano poi i perieci e gli iloti.
I primi erano, come gli spartani,
popoli di stirpe lacedemone, i quali per tale ragione, ancora probabilmente ai
tempi dell’insediamento dorico sul territorio, erano stati sottoposti ad un
regime più blando rispetto a quello riservato agli iloti. Essi non godevano
infatti dei diritti politici, ma erano comunque liberi e non schiavi, e inoltre
– date le molteplici proibizioni e restrizioni cui era sottoposta la vita degli
spartiati – potevano svolgere con profitto, oltre all'agricoltura, anche
attività come il commercio e l'artigianato.
Come si è già detto, i perieci
costituivano una sorta di “cuscinetto” tra gli Spartani e il mondo esterno.
Timorosi delle seduzioni delle attività mercantili, ma anche alla ricerca dei
beni che da esse derivavano, questi ultimi lasciavano infatti ai perieci l'onere
di svolgerle, traendone poi un vantaggio indiretto attraverso i loro mercati.
(Si noti che la moneta in uso a Sparta era in ferro, cosa che rendeva
praticamente impossibile agli spartiati esercitare il commercio con il mondo
esterno.)
Tutto sommato, dunque, quella dei
perieci dovette essere una condizione alquanto sopportabile, forse per molti
aspetti addirittura migliore di quella degli stessi spartani. Al pari di questi
ultimi poi, anche i perieci avevano il diritto di armarsi e di fare la guerra,
seppure in eserciti separati e subordinati a quelli dei dominatori. Anche le
popolazioni lacedemoni, non propriamente spartane, godevano inoltre all'interno
e all'esterno del mondo greco della fama di grande valore bellico.
Infine – ultimo anello della catena
sociale, ma anche vero fondamento della ricchezza della società spartana – vi
erano gli iloti.
Dopo le guerre messeniche, avvenute
nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. e conclusesi all’incirca nell’anno 715,
il numero di essi era aumentato in modo esponenziale. Da quel momento infatti,
non vi furono più solo gli iloti della Laconia, ma anche quelli della vicina
Messenia, e il rapporto numerico tra iloti e spartiati si stabilizzò
probabilmente attorno a un rapporto di uno a dieci.
La vita delle popolazioni asservite a
questo regime duro, era materialmente tollerabile. Esse infatti vivevano in zone
isolate (anche se, chiaramente, presidiate dagli spartiati), e coltivavano la
terra per i loro padroni, cui dovevano versare un consistente tributo
(apophorà) in prodotti agricoli. Per il resto godevano di una relativa
libertà. E tuttavia, gli iloti non erano in alcun modo difesi dalla legge,
ragion per cui erano sottoposti a continui abusi e vessazioni da parte dei loro
aguzzini e dominatori. Ricorda Luciano Canfora che “simbolicamente, ma non
troppo, gli efori “dichiarano guerra” ogni anno agli iloti, e giovani spartiati
fanno il loro tirocinio come guerrieri dedicandosi allo sport della caccia
notturna agli iloti, la cui uccisione ha anche – oltre al voluto effetto
terroristico – un evidente significato rituale e sacrificale.”
Ma l'importanza di queste
popolazioni, dissimulata sotto l'apparenza dell'odio e del disprezzo razziali, è
posta in chiara luce dal fatto che, perduta la Messenia, ebbe inizio per Sparta
un inesorabile processo di decadenza sia economica, sia politica (sul piano,
prima di tutto, del prestigio internazionale) sia infine morale e dei costumi.
Già nei periodi immediatamente
successivi alla vittoria su Atene del 404, quando Sparta era si era posta a
guida della Grecia intera, il suo antico spirito egualitario aveva iniziato a
vacillare sotto il peso dei tributi delle altre città-stato, attraverso cui si
era arricchita soprattutto una parte dei suoi cittadini. Ma fu a partire dalla
sconfitta di Leuttra (alla quale abbiamo già accennato), da cui fu messa
definitivamente in ginocchio, che Sparta iniziò a perdere i suoi connotati
originari. Sconfortati dal dilagare della profonda crisi che tale evento aveva
innescato, i suoi cittadini caddero infatti vittime di quello stesso
“individualismo” che tanto criticavano negli altri greci, e che ovunque aveva
determinato intollerabili sperequazioni tra grandi e piccoli proprietari
terrieri. Con in più però l'aggravante, a Sparta, dell'assenza di quelle
attività che negli altri stati costituivano una fonte di ricchezza alternativa a
quella fondiaria, contribuendo a stemperare e a tamponare tali differenze.
Abbiamo fin qui affrontato il tema
della società spartana, della sua particolare struttura, senza mai soffermarci –
se non in modo molto marginale – sulla sua organizzazione politica ed
istituzionale. A conclusione di quanto detto fin qui, vogliamo dunque parlare di
quest'ultimo argomento. Ma il nostro discorso si soffermerà esclusivamente sugli
spartiati. Per quanto concerne i perieci infatti, anche se sappiamo per certo
che essi godevano di notevole autonomia politica, della loro organizzazione
concreta non possiamo dire praticamente nulla. Lo stesso vale poi per gli iloti,
sempre ammesso che anche a essi fosse lasciata una qualche facoltà d'autogoverno.
(b.3.2.3) La struttura istituzionale dello stato spartano
Anche sul piano delle istituzioni,
Sparta rimase sempre estremamente vicina alle fasi più arcaiche del proprio
sviluppo, nonché a quelle delle città-stato in generale. La sconfitta storica
dei re aveva portato l'aristocrazia, attraverso il proprio organo di controllo,
la Bulè, che a Sparta era chiamata Gerousia, a conquistare le
principali leve del potere statale. Gli anziani membri di questo “Senato greco”
infatti, rappresentanti delle più influenti e ricche famiglie spartane
(l'aristocrazia dell'aristocrazia, per così dire), componevano una ristretta
camarilla che aveva un peso essenziale nelle decisioni della comunità.
Al di sotto della Bulè vi era
il popolo, riunito nell'Assemblea (l'Apella, equivalente spartano
dell'Ecclesia), i cui poteri, pur crescendo nel corso del tempo,
restarono sempre comunque piuttosto limitati, proprio in virtù di
quell'eguaglianza e di quella concordia che dovevano caratterizzare i cittadini
spartani, gli homoioi.
I sovrani, dal canto loro, non solo
non scomparvero ma continuarono anche a costituire le cariche più importanti e
prestigiose dell’intero sistema spartano: ad essi spettava infatti, di guidare
gli eserciti in caso di guerra. Inoltre, il fatto di essere due permetteva loro
di non lasciare sguarnita e indifesa militarmente la città in caso di conflitti
fuori dai propri confini. Anche se uno si allontanava infatti, l’altro poteva
restare a presidiare la città vigilando sull’ordine e la pace
interni.
Quella dei re era inoltre una carica
a vita, e in ciò essa aveva conservato connotati inconsueti per il mondo greco,
almeno per quello delle città-stato. La sovranità pura infatti, si era mantenuta
solo in quelle regioni – come la Tessaglia o la Macedonia – in cui le
città-stato non si erano mai sviluppate e in cui l’organizzazione sociale era di
conseguenza rimasta fondamentalmente ferma a uno stadio
tribale.
Anche Sparta però conobbe l'esigenza
di contrastare il predominio di una ristretta minoranza di cittadini, componenti
dell’aristocrazia. E anche a Sparta perciò, come nel resto della Grecia, sorsero
magistrature i cui membri erano eletti dal popolo, ovvero dai cittadini riuniti
nell’Apella.
A tale scopo venne fondata la
magistratura degli efori. Essi – il cui numero era di cinque – erano i
supremi “guardiani” (è questo infatti il significato del termine greco
eforos) dell'ordine e del corretto funzionamento della società degli
spartiati. Eletti attraverso il voto popolare, gli efori costituivano l'anima
democratica di uno stato per il resto intrinsecamente oligarchico e reazionario
(vedremo più avanti, in che senso si possa parlare di una “democrazia
spartana”). Loro compito era appunto quello di vigilare su eventuali abusi di
potere, da qualsiasi parte essi provenissero. In realtà però, tali abusi non
potevano che provenire dalle cariche più alte e influenti dello stato: i re da
una parte, su cui a partire dal V secolo gli efori ebbero una notevole capacità
di controllo; e la Gerousia, ovvero l'aristocrazia, dall'altra. Non a
torto dunque, anche in tempi recenti, tale carica è stata paragonata a quella
dei tribuni romani, come noto difensori dei diritti e degli interessi della
plebe di fronte al Senato e alla nobilitas.
Il potere degli efori, d'altronde,
conobbe una crescita costante nel corso del tempo, tanto che in epoca classica
essi costituivano orami il centro nevralgico dello stato, ed erano di gran lunga
l’istituzione più temuta e autorevole della società spartana.
Gli efori inoltre, a differenza dei
membri della Gerousia, erano eleggibili senza vincoli di censo o di
provenienza familiare e in ciò veniva ribadita la natura democratica ed
egualitaria della loro carica. Essi erano quindi, almeno nei primi secoli, i
presidi del popolo nella vita politica di Sparta, anche se, col tempo,
accumularono poteri tanto smisurati da perdere gran parte di quella valenza
democratica e filo-popolare che li aveva caratterizzati nei periodi
precedenti.
Dagli efori inoltre dipendevano tutte
le magistrature minori, molte delle quali peraltro cruciali nella vita dello
stato. Controllandole, essi controllavano quindi la stessa vita politica e
civile di Sparta. In particolare, dagli efori dipendevano i magistrati preposti
all'educazione dei fanciulli (pedonomoi), cosa che conferiva loro un
potere e un prestigio quasi illimitati in una società che – come si è visto –
faceva dell'irreggimentazione dei propri membri uno dei presupposti della sua
sopravvivenza.
Infine, gli efori erano gli
interlocutori privilegiati del popolo, che da una parte li eleggeva e
dall’altra, attraverso un proprio organismo rappresentativo (la “piccola
Ecclesia”), poteva dialogare e confrontarsi con essi.
L'Apellla infatti (ovvero la
grande Assemblea dei cittadini) era troppo vasta per potersi esprimere in modo
diverso che attraverso il voto. Essa, ad esempio, non aveva diritto di proporre
le leggi ma solo di approvarle o respingerle – cosa che del resto avveniva anche
negli altri stati greci. Le uniche funzioni che essa poteva svolgere
concretamente, erano appunto quella di eleggere i magistrati e di
accettare o rifiutare proposte provenienti da altri organi
costituzionali.
Da quanto si è detto, emerge dunque
un quadro istituzionale relativamente semplice, quadro che inoltre si mantenne –
almeno nei suoi tratti essenziali – pressoché immutato nel corso dei secoli,
molto probabilmente anche oltre l'età classica.
Né è difficile osservare, a
conclusione di quanto finora detto, come la scelta fondamentale della società
spartana (da essa peraltro abbracciata con una determinazione del tutto
sconosciuta non solo al resto del mondo ellenico, ma anche a quello
extra-ellenico) fosse quella di sacrificare quasi totalmente la libertà
individuale dei propri membri, allo scopo di conservarne immutati i privilegi in
quanto casta/etnia dominante. In questo, ancor più che in altri aspetti,
essa si pose effettivamente agli antipodi rispetto alla sua rivale storica, la
società ateniese.
(b.3.2.4) Sparta: uno stato “democratico”?
Dopo quanto finora detto, parrebbe
assurdo chiedersi se quella spartana sia stata una società democratica. Eppure,
Sparta fu da molti punti di vista la prima vera democrazia del mondo greco. Se
infatti con “democrazia” intendiamo un regime di sostanziale eguaglianza tra i
membri di una comunità più o meno ristretta, allora possiamo dire, e senza
timore di smentite, che Sparta fu una democrazia!
Né questa osservazione è frutto delle
elucubrazioni di autori moderni. Al contrario, ricorda Luciano Canfora nel suo
scritto sul cittadino, come nel mondo greco la distinzione tra democrazia e
oligarchia – ovvero tra sistemi politici isonomici ed eunomici –
fosse molto meno scontata di quanto non appaia oggi a noi moderni. In realtà,
egli spiega, “ciò che cambia [tra i diversi stati greci] non è la natura del
sistema politico, ma il novero dei suoi beneficiari”. Ciò poiché tutte le
città-stato erano per loro natura basate sullo sfruttamento di una parte della
popolazione, esterna al corpo della cittadinanza ufficiale, a vantaggio
di un’altra, che proprio grazie alla prima aveva il tempo e le risorse
necessarie per esercitare i propri diritti politici. In quest’ottica dunque, le
città greche erano tutte oligarchiche, ovvero basate sul dominio di una
minoranza di privilegiati, che pure – come osservava acutamente Aristotele –
potevano quantitativamente essere anche una maggioranza.
E sempre Canfora, poco più avanti,
ricorda come possa “accadere, scorrendo la letteratura politica ateniese, di
imbattersi in elogi della “democrazia” spartana”, e che “addirittura Isocrate,
nell’Areopagitico, giunge a proclamare l’identità profonda
dell’ordinamento spartano e di quello ateniese”.
Guardandolo da questo punto
d’osservazione dunque, il dominio degli Eguali spartani sugli iloti non si
distingue in modo sostanziale da quello esercitato dagli ateniesi sulle proprie
alleate, o sulle fasce svantaggiate della propria popolazione (schiavi, donne,
meteci). Mentre al contrario, il rigido egualitarismo degli spartiati sul piano
dei diritti e dei doveri, l’austera morale comunistica e militaristica tra essi
in vigore poteva e può tutt’oggi essere giudicata più democratica
dell’individualismo e dell’anarchia ateniesi, forieri di grandi differenze sia
economiche che di prestigio tra i cittadini, e minanti perciò la loro effettiva
eguaglianza politica.
Certo, come si è già mostrato, il
prezzo di una tale “omogeneità forzata” era pur sempre molto alto.
Soprattutto – anche se, come abbiamo
già detto, a Sparta non vigeva una vera e propria comunione dei beni – erano le
differenze patrimoniali a essere più rigidamente tenute sotto controllo. E ciò
sia attraverso leggi che imponevano una condotta di vita priva (almeno
teoricamente) di agi e beni superflui, oltre che dell’esercizio di qualsiasi
attività affaristica (la moneta infatti doveva servire solo come mezzo per
soddisfare le necessità quotidiane, senza divenire un fine o un bene in se
stessa!), sia attraverso l’espulsione dal corpo della cittadinanza di tutti
coloro che decadevano oltre una certa soglia patrimoniale. Tali misure
permettevano di mantenere una certa omogeneità economica tra gli spartiati,
impedendo così il fenomeno della lotta di classe, fonte di un dinamismo e di una
divisione sociali intollerabili per la società spartana.
Tuttavia, già verso la seconda metà
del IV secolo questa democrazia era sulla via declino, e le disparità sociali
stavano cominciando ad affermarsi in modo perentorio, come ben si evince ad
esempio dalla lettura delle Vite di Agide e Cleomene di Plutarco, due re
spartani del III secolo – non a caso accostati dall’autore ai Gracchi – che
cercarono inutilmente di ristabilire una parte dell’antica eguaglianza
patrimoniale tra la cittadinanza, scontrandosi con gli interessi di un ristretto
ma potente ceto dominante.
Dopo il collasso seguito alla
sconfitta di Leuttra, la “democrazia spartana”, fondata su misure repressive e
coercitive paragonabili per molti versi a quelle del cosiddetto “socialismo
reale” del XX secolo, non ebbe più alcun seguito. Troppo anacronistica infatti,
era oramai la stessa idea di uomo su cui essa si fondava, così come il proposito
di respingere fuori dai propri confini trasformazioni sociali e culturali oramai
affermatesi in tutto il resto della Grecia, e in parte anche fuori di
essa.
Certo, se gli spartani fossero
riusciti a mantenere più a lungo il controllo sulla Messenia e sulle popolazioni
ilotiche, probabilmente anche i loro peculiari stili di vita avrebbero
conosciuto un più lento declino, ma non vi è dubbio che una volta decaduti,
almeno in Grecia, essi non avrebbero più potuto risorgere in nessuno stato,
nemmeno a Sparta. Mentre al contrario – e questo deve far pensare – la
democrazia ateniese, anche dopo la tragica sconfitta del 404, cui fece seguito
la fugace instaurazione di un regime oligarchico (il cosiddetto regime dei
Trenta Tiranni) e lo smantellamento sia della flotta che dell’impero marittimi,
risorse proprio per la decisa e disperata volontà dei suoi stessi
cittadini. A proposito di questa “resurrezione democratica”, scrive Luciano
Canfora:
“L’Attica aveva rifiutato la
“laconizzazione”: la scelta consolidatasi a partire da Clistene era dunque
divenuta una struttura profonda della realtà politica ateniese; il sistema
basato sulla garanzia ai non possidenti di partecipare alla cittadinanza si era
rivelato più forte e durevole dello stesso nesso (originario) tra democrazia e
potere marittimo.”
(b.3.3) Atene prima della democrazia
Se Sparta fu lo stato più coeso e
unitario del mondo ellenico, e se in questo senso si può in qualche modo
definire una democrazia, Atene fu al contrario lo stato pluralista e dinamico
per eccellenza, caratteristica nella quale possiamo scorgere le origini e i
presupposti della sua futura costituzione – e più in generale della sua
“vocazione” – democratica.
Qui avanti cercheremo di fare il
punto sull’evoluzione della società attica ed ateniese (e ciò dal momento che
Atene fu, in realtà, il centro politico di uno stato comprendente tutti i
territori dell’Attica), sia da un punto di vista sociale più generale sia da un
punto di vista più specifico: quello istituzionale. Il periodo trattato sarà
quello che va dalle fasi precedenti alla nascita della città-stato ateniese fino
ai periodi della tirannide dei Pisistratidi. Centrale nella nostra analisi sarà
la svolta impressa da Solone a tale storia.
(b.3.3.1) L’evoluzione della
società ateniese fino alle riforme di Solone
Per comprendere la vicenda e, in
certo modo, il temperamento delle popolazioni attiche, è necessario innanzitutto
prendere coscienza dei caratteri fondamentali del territorio sul quale erano
insediate. L'Attica era infatti naturalmente isolata dalle regioni vicine da
alte catene montuose, fattore a cui era dovuta la sua relativa omogeneità
etnica. I rimescolamenti avvenuti nelle zone circostanti (ad esempio, quelli
conseguenti alla discesa dei Dori, che si sarebbero poi stabiliti nel
Peloponneso meridionale) furono per essa, anche se non del tutto inesistenti,
certamente molto attenuati. Non a caso gli ateniesi si definivano
autoctoni (che significa “nati dalla stessa terra”) e omogalacti
(cioè nutriti con lo stesso latte).
Una tale omogeneità razziale (e
l'assenza dei contrasti sociali da essa derivanti) fu decisiva per gli sviluppi
storici di quella regione. Ricorda a tale proposito Pierre Lévêque, che
“contrariamente a quanto avvenne nel Peloponneso e in Tessaglia, Atene non
dovette subire l’assoggettamento di una parte della sua popolazione ad opera dei
vincitori; si può vedere in ciò, senza esagerazione, l’origine del sistema
sociale relativamente elastico che fu una sua caratteristica costante.” Mentre
Moses Finley osserva che: “non solo Atene fu territorialmente la più grande
città-stato, salvo Sparta, ma a differenza di quest'ultima essa diventò uno
stato unificato senza sudditi all'interno, neppure perieci, per non parlare
degli iloti. Tutti gli uomini liberi dall'Attica erano egualmente ateniesi, sia
che vivessero nel capoluogo o in Maratona o in Eleusi, o in qualsiasi altra
località del contado. Le nette diseguaglianze di classe non erano fondate né su
distinzioni territoriali né su distinzioni etniche, ma si ripetevano nei vari
demi o distretti dello stato; gli schiavi venivano da altri
paesi.”
Anche in Attica certo, esistevano
profondi squilibri economici tra classi alte (nobiliari) e classi basse
(popolari), i quali, assieme ai tradizionali privilegi dell’aristocrazia,
determinavano notevoli diseguaglianze sociali. Ed anzi, come vedremo più avanti,
le sperequazioni di ricchezza erano qui ancora più profonde che nel resto della
Grecia. Ciò non toglie tuttavia che le popolazioni dell'Attica non conoscessero
al proprio interno fratture etniche paragonabili a quelle che laceravano non
solo lo stato spartano ma anche, seppure in una forma molto più blanda, la
maggior parte delle altre città-stato greche (dove, pur esistendo, esse non
determinavano il frazionamento della società in caste chiuse e impenetrabili).
Fu dunque proprio la relativa fluidità della società attica uno dei
fattori che, assieme ad altri, favorì l'ascesa graduale del popolo alle cariche
di governo, attraverso un processo storico che culminò nell'instaurazione di un
vero e proprio sistema democratico.
Un altro aspetto strettamente legato
alla conformazione territoriale dell'Attica fu la lentezza e la “riluttanza”
delle sue popolazioni, frazionate in insediamenti indipendenti disseminati su un
ampio suolo, a riunirsi in uno stato unico (sinecismo).
Mentre il sincesimo spartano –
come si è visto – fu molto veloce, quello ateniese al contrario fu quanto mai
lento e graduale. Il fattore alla base del primo infatti, mancò in gran
parte al secondo. La condizione di insicurezza costante delle popolazioni
doriche, costantemente assediate da genti asservite e soggiogate con la forza,
non esisteva in una regione come l’Attica, in cui tutto sommato – nonostante le
già ricordate disparità economiche – vi era pur sempre una notevole uniformità
culturale e un naturale isolamento dal mondo esterno dovuto a confini difficili
da valicare. Per tali ragioni, la fusione dei diversi villaggi in una medesima
entità politica e territoriale avvenne qui molto lentamente, ovvero soprattutto
sotto la spinta dei mercati che, ampliandosi, cercavano centri sempre più ampi e
rinomati in cui esercitarsi, in primis ovviamente quello di Atene. La
polis ateniese, oltre che un rifugio sicuro per l’intera popolazione
della regione, divenne così gradualmente la sede delle principali attività di
mercato e, in un secondo momento, politiche del nascente stato
attico.
E tuttavia, un tale centro aveva
notevoli difficoltà a costituirsi come un’entità forte. I motivi che lo
avevano fatto nascere difatti, non condizionavano pesantemente la vita dei
singoli villaggi, che continuavano a basarsi in gran parte sull’autoconsumo e
che erano inoltre da sempre governati da grandi famiglie decise a conservare i
propri poteri territoriali.
Oltre a tutto, lo stesso motore
economico alla base dell’unificazione territoriale – le attività di mercato –
non rivestiva in tale regione un ruolo analogo a quello che ricopriva in altre,
come ad esempio Corinto, nelle quali l’economia mercantile aveva conosciuto un
decollo molto più veloce e vigoroso rispetto all’Attica. Infatti, proprio nei
periodi in cui, dalle regioni vicine e lontane della Grecia, partivano copiose
spedizioni per la fondazione di colonie (le quali avrebbero poi istituito con la
madrepatria dei floridi e intensi traffici commerciali), l’Attica rimaneva al
contrario ostinatamente richiusa in se stessa, legata ad un’economia
essenzialmente autarchica. Per tutto il settimo secolo, ad esempio,
nonostante l’alta qualità dei vasi attici, furono quelli corinzi a conoscere la
massima diffusione internazionale, e ciò a causa soprattutto della scarsità
della produzione ateniese.
Oltre ai fattori appena menzionati,
dobbiamo poi considerarne altri che – pur strettamente legati a essi – ebbero
comunque un peso indipendente nel determinare gli sviluppi socio-economici,
nonché politici, di questa regione. Soprattutto, fu la lotta tra piccoli e
grandi proprietari terrieri (questi ultimi, al tempo, ancora prevalentemente
nobili) ciò che segnò più pesantemente la vita sociale dell’Attica e di Atene
nei suoi periodi più arcaici. L’assenza di colonie in cui poter riversare parte
degli scontenti e dei poveri aveva qui difatti ulteriormente esacerbato una
situazione di carenza e di graduale concentrazione delle terre che – come si
ricorderà – tendeva a minare la stabilità politica di un po’ tutti gli stati
ellenici.
Ma questa situazione di estrema
conflittualità sociale, anziché inibire l’instaurazione di riforme favorevoli al
popolo, finì al contrario per fungere da “motore di avviamento”, per così dire,
di una rivoluzione sociale che avvenne in modo graduale nel corso di decenni, o
meglio di secoli.
Una delle prime figure a noi note, a
farsi interpreti delle esigenze popolari e delle tensioni che attraversavano la
società ateniese del suo tempo, fu Solone. Già Dracone (circa un
secolo prima) aveva iniziato un’opera di fissazione scritta delle leggi
consuetudinarie, della quale però non si sa praticamente nulla, a parte la
particolare attenzione riservata alle problematiche della giustizia (ancora
oggi, si usa dire “misure draconiane” a significare leggi estremamente dure e
repressive, che evocano un’idea di diritto ormai superata). Né ciò fu senz’altro
un caso, dal momento che una delle prime manifestazioni della formazione di veri
e propri poteri statali fu una prima sostituzione delle autorità centrali ai
poteri tribali in materia giudiziaria. Attraverso tali trasformazioni infatti,
lo stato iniziava a minare il predominio incontrastato delle famiglie degli
eupatridi sui loro stessi territori. La città diveniva così il luogo in
cui – almeno teoricamente – le controversie tra i cittadini e i membri della
comunità venivano giudicate con imparzialità, sulla base di leggi scritte e di
una giustizia realmente egualitaria. (Giova rimandare, a questo proposito, a
quanto si è detto precedentemente in merito al valore dell’opera dei primi
legislatori per l’emancipazione e i diritti del popolo.)
Ma torniamo a Solone. Per comprendere
l’opera di questi però, è necessario fare il punto non solo su quanto egli fece
ma anche sulla situazione in cui versava l’Attica ai tempi delle sue
riforme. Egli visse a cavallo tra VII e VI secolo, ma in realtà fu uomo più del
primo che del secondo di essi. Momento cruciale per la sua missione politica fu
senza dubbio il 594, anno in cui, oramai anziano e rinomato tra i suoi
concittadini, in qualità di arconte eponimo (cui inoltre erano stati concessi
speciali poteri costituzionali) poté operare una vera e propria rivoluzione
istituzionale, oltre a porre le linee essenziali di una politica sociale che
avrebbe dato i suoi frutti nei decenni successivi.
L’Attica, come si è detto, era
percorsa da fortissime tensioni sociali: i grandi proprietari, di origine
prevalentemente nobiliare, (la ricchezza commerciale, infatti, non doveva essere
particolarmente diffusa in questa regione) avevano consolidato il proprio
predominio sulle classi popolari, espropriando molti cittadini dei loro averi a
causa dei debiti e riducendoli alle volte in schiavitù, altre volte al rango di
nullatenenti, altre ancora assottigliandone molto i possedimenti. La società
rischiava perciò di spaccarsi in due pezzi: una massa di poveri o di individui a
rischio di povertà da una parte, e una minoranza di ricchi dall’altra. Solo la
politica poteva porre rimedio a tale situazione, e ciò andava fatto per il bene
della comunità, ancor prima che per i suoi singoli individui. Non a caso
Solone dichiarò sempre di agire nel nome della concordia, del senso di
responsabilità comune di tutti i membri (maschi) della società, anziché a favore
di una determinata fascia di essa.
Come si è già accennato, le sue
riforme furono essenzialmente di due tipi: politiche (cancellazione dei
debiti e della schiavitù per debiti; diritto di cittadinanza –
ovvero di partecipazione all’Assemblea – ai teti; instaurazione di un
sistema di governo timocratico, anziché – come in passato e come in molte
altre città-stato del tempo – oligarchico/aristocratico), e sociali (ovvero
essenzialmente provvedimenti in favore delle classi medie, in particolare
attraverso l’incoraggiamento delle attività produttive urbane e
commerciali).
Quel che innanzitutto bisogna notare,
è il fatto che Solone non tendesse a un’equiparazione vera e propria dei
cittadini sul piano dei diritti e della ricchezza (come avveniva, ad esempio,
all’interno della casta degli homoioi spartani), bensì da una parte a un
alleggerimento delle differenze patrimoniali e dall’altra a dare a molti nuovi
cittadini, anche attraverso i nuovi principi timocratici, la capacità di
contribuire al governo sulla base delle loro reali possibilità patrimoniali.
Oggi diremmo, che egli cercava di dare ai propri concittadini una maggiore
possibilità di affermazione in quanto individui, a dispetto di quelle
convenzioni sociali arcaiche che volevano il “sangue blu” come base e segno
distintivo di prestigio sociale, a prescindere dal valore reale delle singole
persone. Potremmo dire, usando un termine moderno ma senza dubbio efficace, che
egli avesse in fondo un’idea meritocratica di società.
D’altra parte, dalle testimonianze
che ci restano su di lui e dai suoi stessi versi, emerge chiaramente il profilo
di un nobile (come, del resto, la maggior parte dei leader politici dei secoli
successivi) e come tale assertore, almeno in un certo grado, della superiorità
della propria classe rispetto alle classi popolari. Ciò tuttavia non toglie che
egli si pose al principio di una rivoluzione che permise gradualmente al popolo
(demos) di conquistare maggiori diritti e di avvicinarsi all’aristocrazia
sul piano sia politico che sociale. Egli introdusse insomma, con la propria
opera politica, quell’elemento di dinamismo che avrebbe caratterizzato in
modo più spiccato delle regioni circostanti la società attica nei secoli
successivi.
Venendo alle riforme politiche
di Solone, e riservandoci di trattarne in un apposito paragrafetto gli aspetti
più tecnici, possiamo dire in sintesi che egli impose la remissione dei
debiti che affliggevano la parte più povera della comunità, dandole così nuovo
ossigeno e interrompendo una spirale che rischiava di soffocare del tutto la
classe dei piccoli e medi possidenti a vantaggio di quella dei grandi
proprietari. Essa fu chiamata seisachteia, cioè “scuotimento dei pesi”,
ovvero dei debiti che opprimevano la parte più povera della
popolazione.
Egli non operò tuttavia, quella
redistribuzione delle terre che le plebi immiserite chiedevano a gran
voce: troppo lontana difatti sarebbe stata una simile misura dalla sua etica e
dalla sua concezione aristocratiche. E tuttavia, rese illegale la pratica di
privare della libertà e di vendere come schiavi coloro che erano incapaci di
saldare i propri debiti in altro modo che con la loro stessa persona.
Inoltre, fatto rivoluzionario non
solo per Atene, ma più in generale per l’intero mondo ellenico, Solone diede il
diritto di partecipare all’Assemblea anche ai teti (ovvero ai cittadini
non possidenti), rendendoli in tal modo parte della fascia più bassa della
cittadinanza, dotata dei diritti politici elementari.
Un altro aspetto essenziale della sua
opera di riforma politica – che verrà peraltro analizzato meglio più avanti – fu
l’instaurazione di un governo di carattere timocratico.
Il termine timocrazia (da
timao che in greco significa “avere rispetto, stima”, e cratos che
significa “potere” o “autorità”) stava a indicare un sistema nel quale a
qualsiasi cittadino era data la possibilità di accedere alle cariche dello stato
in proporzione alla sua ricchezza e alla sua conseguente capacità di
contribuzione alla vita della comunità (nel mondo delle città-stato infatti, la
ricchezza privata si traduceva in gran parte in interventi ed elargizioni di
carattere pubblico). Caratteristico di questo tipo di organizzazione sociale era
perciò il fatto di porre in secondo piano la nobiltà o la stirpe in favore della
ricchezza e del merito personali. Il fatto poi che, soprattutto in una società
conservatrice quale quella ateniese del tempo, molto spesso questi due aspetti
coincidessero, non toglie molto alla portata rivoluzionaria di una tale
trasformazione istituzionale.
Bisogna però, a questo proposito,
fare anche delle precisazioni. Non si deve credere difatti che l’Atene di questo
periodo fosse particolarmente avanzata rispetto alle altre città-stato
elleniche. La storia politica ateniese infatti, almeno fino alla rivoluzione
soloniana, coincise – quantomeno nei suoi tratti essenziali – con quella della
maggior parte delle altre città-stato greche.
In queste ultime, tra la fine del VII
e l’inizio del VI secolo (spesso come conseguenza dell’instaurazione delle
tirannidi), si erano spesso affermate delle costituzioni “aggiornate” o miste:
ovvero ancora di tipo oligarchico tradizionale, ma corrette in parte con criteri
timocratici. Il che significa che, anche se per legge la maggioranza del
popolo non poteva avere accesso alle magistrature e alle cariche elettive, gli
esponenti più ricchi e influenti della società, qualunque fosse la loro origine
familiare, avevano la possibilità, come riconoscimento del loro valore sociale,
di svolgere un ruolo attivo nel governo della città.
Quel che distinse la storia di Atene
rispetto al resto della Grecia, fu il fatto che a una tale rivoluzione
timocratica (in tale stato peraltro, attuata molto probabilmente in modo più
radicale che nel resto della Grecia), seguisse dopo pochi decenni
l’instaurazione di un vero e proprio regime isonomico e democratico, basato cioè
su una sostanziale equiparazione di tutti i cittadini sul piano dei
diritti politici, senza rilevanti distinzioni di ricchezza o di stirpe. Una
trasformazione che – come si è già più volte detto – fu grandemente favorita
dalla relativa uniformità etnica e culturale della popolazione
attica.
Oltre a quelle appena citate, Solone
pose in atto anche un secondo gruppo di riforme, che potremmo definire
“sociali”, in quanto volte a modificare la struttura e la composizione della
società. Riguardo a queste ultime, la sua opera può essere accostata a quella
del suo successore, il tiranno Pisistrato. Entrambi difatti cercarono di
favorire, contro lo strapotere delle classi nobiliari e fondiarie, l'emergere di
nuovi ceti legati ad attività economiche urbane, avendo ben compreso che le
riforme richieste con tanta decisione da una parte del popolo (annullamento dei
debiti, redistribuzione delle terre, ecc.), pur potendosi forse attuare con
grandi rischi e sofferenze, non avrebbero mai potuto costituire un duraturo
rimedio al problema della progressiva concentrazione delle terre. Solo la
formazione di una solida classe media, che si arricchisse attraverso i
traffici e l'industria e fosse proprietaria di ricchezze sufficienti a vivere
senza dipendere dalla nobiltà terriera, avrebbe potuto infatti arginare un tale
processo. Per tale ragione, sia Solone che Pisistrato si adoperarono – seppure
in modi diversi – per favorire e assecondare lo sviluppo di tali
classi.
Solone operò prevalentemente in tre
settori: quello monetario, quello metrico (dei pesi e delle
misure), quello professionale.
Mentre prima delle sue riforme, gli
ateniesi si erano appoggiati alla moneta di Egina (un vicino stato col quale,
tra l’altro, intrattenevano rapporti fortemente conflittuali), a partire da esse
poterono invece utilizzare una propria moneta: la dracma, in futuro mezzo
di scambio pressoché universale nell'area mediterranea e egea, almeno fino alla
conquista romana. Non che questo cambiamento avesse come unico effetto quello di
favorire gli scambi commerciali. Il frazionamento monetario del mondo greco
(ovvero il fatto che molti stati pretendessero di battere una propria
moneta) era infatti uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo dei traffici al suo
interno. Tale scelta però, fu al tempo stesso manifestazione dell'orgoglio
nazionalistico di Atene e dell’importanza che andavano acquisendo le attività
commerciali tra molti dei suoi cittadini.
Sul piano delle misure poi,
regnava una confusione che rendeva complicati e poco agevoli gli scambi
commerciali tra gli stessi membri della comunità attica. A ciò Solone pose
rimedio imponendo al suo interno delle unità metriche universali sia per i pesi
che per le misure spaziali.
Ma il provvedimento principale per la
trasformazione dell'Attica in direzione delle attività urbane e dei commerci, fu
un'opera sistematica di attrazione degli stranieri ad Atene. Attraverso
agevolazioni di varia natura, egli incoraggiava questi ultimi, chiamati
meteci, a insediarsi stabilmente o comunque per lunghi periodi
all’interno della città. Il fatto poi che essi non potessero per legge
acquistare terre (la proprietà di queste era diritto esclusivo dei cittadini
a pieno titolo) li costringeva a svolgere attività urbane quali il
commercio, l'artigianato o i prestiti. In poco tempo, Atene si popolò così di
una nuova classe di “imprenditori urbani”, che con le proprie intraprese
incoraggiarono tra i cittadini lo sviluppo di colture specializzate
finalizzate a traffici internazionali (una strada peraltro, inizialmente
praticata soprattutto dai piccoli e medi proprietari, dal momento che quelli più
grandi rimanevano legati all'ideale e alla pratica dell’autosufficienza
alimentare). Non vi è da stupirsi dunque, se a partire da Solone Atene iniziò a
divenire una città di mercanti e di artigiani e un centro di smercio sempre più
rinomato nel mondo egeo.
Con Pisistrato poi, che perseguì una
politica di espansione coloniale verso gli Stretti del Bosforo, preziosissimi
sbocchi per il rifornimento granario dalle vicine regioni orientali, tale
processo di espansione commerciale proseguì a vele spiegate, mentre, come
vedremo nel prossimo capitolo, a partire dalle guerre Persiane (478) la capitale
dell'Attica si trasformò nella principale potenza marittima (e militare) del
mondo greco.
Quanto a Pisistrato, nel suo caso non
si può parlare di vere e proprie riforme. I tiranni, difatti, erano di solito
tanto sovvertitori dell'ordine sostanziale e delle tradizioni, quanto – per
compensazione – conservatori dell'ordine formale, ovvero delle istituzioni.
Piuttosto, Pisistrato pose in essere una politica interna ed estera che mirava a
guadagnarsi l'appoggio e l'amicizia sia delle classi borghesi-imprenditoriali
che di quelle più umili.
A favore dei piccoli proprietari
delle montagne (diacri), che avevano dato un appoggio sostanziale alla
sua ascesa politica e al colpo di mano che lo aveva portato ad instaurare la
tirannide (la quale non fu peraltro mai particolarmente stabile: Pisistrato
infatti fu cacciato per ben due volte dalla città e per due volte vi tornò,
mantenendovi infine il potere sino alla morte), egli operò molte
espropriazioni delle terre nobiliari e istituì un sistema di
prestiti di stato che favorì ulteriormente la riconversione delle loro
colture a criteri intensivi, favorevoli al commercio internazionale. Egli fu
dunque un “democratico” nel senso più letterale del termine, dal momento che
seppe sedurre e farsi amico il demos, il popolino, riservandogli
attenzioni estranee anche alla politica di un aristocratico – pur non del tutto
convenzionale – come Solone.
Ma in realtà Pisistrato fu,
oltre che un nemico giurato dei grandi proprietari delle pianure (pediei)
e dei loro privilegi, un accesso sostenitore delle classi commerciali e
mercantili delle coste (paralii). Furono queste ultime difatti, ancor più
che il popolino, le principali beneficiarie delle sue politiche più originali ed
innovative: quelle coloniali e marittime. Egli fu il primo uomo politico
ateniese a comprendere la necessità per la propria città di dotarsi di una
flotta marittima, intuendo i possibili sviluppi nella politica e
nell’economia che tale fatto avrebbe comportato.
Con lui Atene avviò un’espansione
coloniale ritardata di circa un secolo rispetto alle altre città-stato
elleniche, ma il cui vigoroso sviluppo la portò in pochi decenni a divenire una
delle maggiori potenze marittime greche (e, dopo le guerre persiane,
l’indiscussa protagonista della vita militare, politica ed economica della
Grecia orientale).
Una tale espansione fu diretta – come
già si è accennato – principalmente verso le regioni del Bosforo e
dell’Ellesponto, ponte di accesso alle pianure della Tracia, ricchissime
produttrici di grano. Dati i vincoli che le colonie e i territori
d’influenza ateniese avevano con la madrepatria, Atene finì così in pochi anni
per acquisire una sorta di monopolio sulle merci che da tali regioni affluivano
in Grecia, divenendo, a causa della loro importanza, uno dei più ricchi centri
del mondo ellenico.
Pisistrato diede insomma, un
ulteriore impulso a quel processo di sviluppo delle classi urbane e mercantili
che già il suo predecessore Solone aveva avviato con molto profitto. Non è
esagerato affermare quindi che questi due personaggi posero i presupposti
sociali ed economici della storia ateniese classica, anticipando inoltre –
soprattutto il secondo – molti aspetti di quella politica di potenza che
fu a base degli sviluppi democratici di essa.
Pisistrato morì tiranno. I suoi figli
invece, che avevano ereditato dal padre la città quasi come una “proprietà
personale”, no. L’uno (Ipparco) fu ucciso, l’altro (Ippia) esiliato in seguito a
un’insurrezione popolare, guidata da una fazione nobiliare (quella degli
Alcmeonidi) avversa a quella del tiranno. Né la cosa deve stupire, data
l’idiosincrasia dimostrata dal popolo greco – sin dai cosiddetti periodi oscuri
– verso ogni forma di potere assoluto. Come infatti ricorda giustamente Pierre
Lévêque, “la tirannide portava in sé la cause della propria rovina nella misura
in cui le sue riforme contribuivano a risolvere le crisi sociale della quale
essa era nata: tutti i cittadini desideravano allora ritornare a un governo
regolare, in cui l’esercizio del potere non fosse riservato ad un solo uomo.”
(b.3.3.2) Le istituzioni di Atene dalle origini a Solone
La polis o città-stato si
caratterizza da subito come centro dell’attività politica, come luogo di
confronto e di scontro, nonché – almeno in parte – di condivisione di valori da
parte di due mondi (quello aristocratico e quello popolare) che nelle epoche
precedenti erano rimasti tra loro molto più rigidamente separati. (Moses Finley,
ad esempio, a proposito delle epoche buie parla di una “assenza delle nette
categorie sociali proprie delle società dei tempi posteriori, in particolare di
una netta distinzione tra categorie della “libertà” e della “servitù”.” E
afferma che solo “la demarcazione fondamentale tra nobili e non nobili è
abbastanza chiara. Al di sopra e al di sotto di questa linea le distinzioni
appaiono incerte”.)
Un tale processo di
convergenza e di reciproca contaminazione, può peraltro essere scorto
anche nella storia delle istituzioni, e ciò tanto più quanto più esse sono
connotate in senso democratico. Basti, a tale proposito, considerare
l’evoluzione della Bulè ateniese: all'inizio organo interamente
nobiliare, che gradualmente mutò la propria composizione e struttura, fino a
divenire uno dei cardini della costruzione democratica.
La storia delle poleis greche
fu dunque quella del graduale avvicinamento del popolo all’aristocrazia, ovvero
– nell’ambito specifico della politica – della graduale elisione popolare del
monopolio decisionale della nobiltà, attraverso la conquista, tra l’altro, di
poteri e istituti che in passato erano stati una prerogativa esclusiva di
quest’ultima. Certo, un tale processo di avvicinamento non fu per nulla
lineare, né univoco nei suoi esiti, ma comunque vi fu e costituì uno degli
aspetti essenziali della vita politica greca del periodo arcaico e classico, che
si manifestò ovviamente con intensità crescente quanto più il popolo riusciva a
guadagnare terreno rispetto all’aristocrazia.
Veniamo ora a descrivere brevemente
l’evoluzione delle istituzioni ateniesi dalla nascita della città-stato fino
alle riforme soloniane.
Se ad Atene le istituzioni regali si
conservarono a lungo dopo la nascita della città-stato (ovvero una volta
avvenuto il sinecismo), ciò fu dovuto non solo all'indole tradizionalista
delle popolazioni attiche (un tema del quale abbiamo già avuto modo di parlare),
ma anche al fatto che le istituzioni del periodo miceneo (organizzate, come si
ricorderà, attorno all'autorità regale) furono qui meno profondamente scardinate
che nel resto della Grecia, data l'assenza o quasi su tali territori delle
incursioni dei popoli dorici, apportatori di morte, distruzione e sconvolgimenti
politici ovunque passarono. Si deve inoltre notare che, almeno nei primi tempi,
vi furono ad Atene più re contemporaneamente, ognuno quasi certamente in
corrispondenza con una delle famiglie dell’antica nobiltà tribale (gli
Eupatridi).
E tuttavia, anche ad Atene i sovrani
furono alla fine spodestati. Qui essi furono sostituiti da tre magistrati,
chiamati arconti, in carica inizialmente per dieci e successivamente per
un anno, i quali frazionavano tra diverse figure istituzionali prerogative
(militari, religiose ed esecutive) che un tempo erano accentrate intorno al
sovrano. Gli arconti inoltre, in quanto magistrati, erano eletti
dall'Ecclesia con un mandato a termine. L’arconte eponimo era tra
tutti quello più importante, dal momento che deteneva i più alti poteri
esecutivi dello stato; l’arconte basilues era invece la più alta carcica
religiosa; l’arconte polemarco infine, quella militare.
Anche ad Atene, come nel resto della
Grecia, dopo la caduta dei sovrani le istituzioni principali divennero
l'Assemblea (Ecclesia) e il Consiglio degli anziani (Bulè). Mentre
però la seconda vide col tempo assottigliarsi i propri poteri, la prima al
contrario – da un’iniziale condizione di minorità rispetto all’altra – li vide
aumentare, in concomitanza con la trasformazione in senso democratico dello
stato.
Quella ateniese d’altronde era, al
contrario di altre, una Bulè estremamente “popolosa”, dal momento che,
per essere rappresentativa di tutta l’Attica, doveva riunire membri della
nobiltà provenienti dai molti distretti di cui tale regione era composta.
Proprio per tale ragione, venne presto istituito un organo superiore composto da
un più ristretto numero di individui, i pritani, che in sostanza ne
dirigevano i lavori.
Tra le altre cose, la Bulè
doveva decidere quali questioni andassero sottoposte al giudizio dell'Assemblea,
che aveva quindi anche il compito di convocare. Essa inoltre doveva stabilire
l'idoneità o meno dei magistrati eletti dal popolo a ricoprire le cariche loro
assegnate. Dunque, anche se molte decisioni erano effettivamente prese
dall'Ecclesia, la Bulè poteva condizionare – ed anzi, si potrebbe
dire guidare – in modo sostanziale la vita della comunità. E anche se
questi due poteri tendevano a bilanciarsi tra loro, ciò avveniva – almeno
inizialmente – con notevole vantaggio per la Bulè.
A partire dalla riforma di Dracone
poi, la Bulè ebbe anche il compito di decidere in merito alle questioni
giudiziarie più importanti, le quali venivano così sottratte ai poteri tribali
locali a favore del potere centrale dello stato. (Per le cause meno rilevanti,
invece, esisteva un tribunale minore, quello degli efeti, a sua volta
espressione del potere statale.)
Ma la Bulè, tra tutte le
istituzioni ateniesi, fu anche quella che nel corso dei secoli conobbe la
trasformazione più considerevole. Tralasciando per ora quella che ebbe luogo
sotto Clistene verso la fine del VI secolo, dobbiamo qui ricordare l’evoluzione
avvenuta sotto l'arcontato di Solone.
Se prima delle riforme di
quest’ultimo un tale organo era rimasto un dominio esclusivo degli Eupatridi
(ovvero dalle più importanti famiglie nobiliari), da allora in avanti
l'accesso ad esso fu regolato invece su criteri censuari o timocratici. Dal
momento che, ovviamente, il patrimonio era un segno tangibile di prestigio e di
influenza sociale, più esso cresceva, più doveva crescere di conseguenza la
possibilità per il singolo cittadino di accedere ad incarichi istituzionali
prestigiosi. Così, per la prima volta, con le riforme di Solone anche cittadini
non nobili acquisirono la possibilità di entrare a fare parte di quest’organo
supremo: un evento, peraltro approvato da gran parte della nobiltà, la cui
portata epocale non è difficile immaginare.
Più in dettaglio, le classi di censo
stabilite da Solone furono le seguenti: sopra tutti vi erano i
pentacosiomedimni (ovvero coloro la cui rendita annuale superava i
cinquecento medimni l’anno), subito dopo vi erano i cavalieri (cioè
coloro che in guerra andavano a cavallo, e che quindi non erano opliti, e
la cui rendita annuale era compresa tra i cinquecento e i quattrocento medimni),
dopo questi vi erano gli zeugiti (gli opliti appunto, cittadini le
cui entrate erano stimate tra i trecento e i duecento medimni annui), e infine i
teti (la cui rendita annua era inferiore ai duecento medimni).
Mentre gli arconti e i tesorieri
di stato potevano provenire solo dalla prima categoria, tutti gli altri
magistrati potevano essere indifferentemente scelti dalla prima, dalla seconda e
dalla terza. Solo i teti rimanevano dunque confinati alla sola Assemblea, alla
quale tuttavia non avevano fino ad allora mai avuto
accesso.
Ma l'antica Bulè, pur
rimpiazzata da quella nuova istituita da Solone (detta dei Quattrocento per il
numero dei suoi membri), non scomparve ma continuò a esistere con il nome di
Areopago, anche se con poteri molto ridotti rispetto al passato.
L’assottigliamento dei poteri di un tale organo fu un fatto costante nel corso
dei decenni, che culminò probabilmente con le riforme di Efialte, che ne
limitarono la giurisdizione ai soli delitti di sangue.
È evidente dunque, da quanto si è
detto finora, che il periodo soloniano costituì lo spartiacque a partire dal
quale il popolo iniziò ad acquisire un potere decisionale
sostanziale.
Sul piano giudiziario poi, va
ricordata la creazione da parte di Solone di un nuovo tribunale, chiamato
Elieia, che andava ad affiancarsi a quello, risalente ancora a Dracone,
dell’antica Bulè, ora divenuta Areopago. Tale tribunale era
definito popolare, in quanto i suoi membri provenivano indifferentemente da
tutte le classi di censo. Sua caratteristica essenziale era il fatto di
costituire l’ultima spiaggia per imputati già condannati dal tribunale
dell’Areopago e da quello degli efeti. Ricorrere ad esso era un
po’ quel che è oggi ricorrere in appello.
Anche quest'ultimo fatto dunque, fa
risaltare come, con le riforme di Solone, il popolo fece grandi progressi sul
piano del riconoscimento politico e civile, mentre la nobiltà – la stessa
peraltro, i cui membri componevano le più importanti cariche istituzionali –
vedeva vacillare sia i propri poteri politici generali che quelli territoriali,
questi ultimi a favore delle istituzioni centrali dello stato che avevano sede
in Atene.
Non si deve tuttavia credere che esso
avesse oramai smantellato le antiche organizzazioni tribali risalenti al periodo
oscuro, per vari ordini di ragioni ancora molto solide e forti. Anche se infatti
esso era riuscito ad indebolirle, per molti aspetti doveva ancora scendervi a
patti, cercando anzi di mantenere con esse rapporti di fattiva collaborazione.
Lo stato infatti, non aveva ancora gli strumenti materiali e l’autorevolezza
necessari a esercitare un controllo effettivo sulle campagne e sulle zone
esterne ad Atene con l’eccezione, forse, degli altri centri urbani.
Una dimostrazione di ciò può essere
scorta nella divisione dei territori statali nelle cosiddette naucrarie,
distretti in linea di massima coincidenti con le zone di influenza delle
principali famiglie nobiliari. Fu solo a partire da Clistene, che il suolo
attico venne ripartito secondo criteri non coincidenti con tali zone, ciò che –
come vedremo meglio avanti – determinò la fine sostanziale degli antichi poteri
tribali prestatali sul piano politico e amministrativo.
(b.3.4) La politica nel mondo arcaico
A conclusione di quanto detto finora,
vorremmo fare alcune considerazioni molto generali sulla politica in Grecia nel
periodo arcaico, sulle sue caratteristiche essenziali e sulle differenze
rispetto al mondo vicino orientale.
Due ci paiono i caratteri peculiari e
distintivi di tale realtà, caratteri che peraltro essa condivise con la
successiva età classica: la concezione della politica come lotta, come
agone tra diversi individui o soggetti politici; e la presenza di una
vasta classe intermedia tra l’aristocrazia terriera e le classi rurali
povere.
(b.3.4.1) la politica come lotta sociale, il rischio della stasis e i valori
aristocratici
Cominciamo dal primo punto. La
città-stato fu, sin dai suoi albori e con un’intensità crescente nel corso dei
secoli, il luogo del dibattito e del confronto/scontro tra diverse classi
sociali o gruppi di interesse.
La politica come lotta di classe non
era a quel tempo concepibile in nessun altro luogo al di fuori del mondo greco,
così come del resto non lo era stata nella Grecia dei periodi precedenti. Prima
e al di fuori della Grecia arcaica difatti le decisioni riguardanti la vita
della comunità erano rimaste appannaggio, se non di un Sovrano dai poteri
illimitati, quantomeno di una ristretta cerchia di
notabili.
Ci si potrebbe del resto chiedere
quali fattori contribuissero allo sviluppo di questo tipo di organizzazione
politica, tipicamente greca. Si può tentare di dare una risposta, per quanto
incerta e approssimativa, a questa domanda.
Innanzitutto vi fu la
ristrettezza dei confini dello stato, che permetteva una vita a stretto
contatto tra tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla loro collocazione
sociale (un fattore che fu ulteriormente favorito dalla nascita della città come
luogo di riunione ricorrente della popolazione adulta).
Un altro fattore favorevole a tale
sviluppo fu l'assenza pressoché totale, prima della nascita della polis,
di un'organizzazione sociale stabile. La polis sorse quindi in un clima
di anarchia latente, nel quale le classi popolari ebbero relativa
facilità a inserirsi come soggetto politico rilevante, in grado di avanzare
delle proprie rivendicazioni – cosa tanto più vera per coloro che, attraverso la
propria intraprendenza personale, avessero acquisito una certa ricchezza e un
certo prestigio sociale.
Ma in un contesto variegato e
conflittuale quale quello appena descritto, erano anche impliciti dei rischi. In
particolare, sempre in agguato era il pericolo della stasis, la guerra
civile, che infatti fu una costante della storia delle città-stato greche dai
loro albori fin oltre l'età ellenistica. La formazione di fazioni in lotta tra
loro, di solito (anche se non sempre) con una forte connotazione di classe,
teneva la comunità costantemente in bilico tra la pace e la guerra.
Non per caso, molti studiosi hanno
osservato come il concetto moderno di pace fosse del tutto sconosciuto al mondo
greco antico, sia per ciò che riguarda la vita interna che per quella esterna ai
singoli stati. Mentre infatti noi moderni siamo abituati a concepire la pace
come una condizione normale, destinata a durare indeterminatamente, e la guerra
come una condizione momentanea, al contrario gli antichi – e in particolare i
Greci – consideravano la prima come una condizione transitoria, un accordo a
termine tra stati, che determinava un interludio tra periodi di belligeranza
ritenuti invece normali. Molti storici antichi del resto, ritenevano che nei
periodi di pace non accadesse pressoché nulla di rilevante e degno di essere
registrato, e quindi se ne disinteressavano. Questa particolare concezione era
senza dubbio espressione di quella mentalità agonale che caratterizzava da
sempre i popoli greci, ma era anche al tempo stesso il risultato di
quell’endemica instabilità politica, sia interna che esterna, che affliggeva le
città-stato.
In ogni caso, il fatto stesso della
lotta sociale come base della vita della comunità comportava il pericolo
costante della guerra civile.
Il rischio era che una o più parti
della popolazione si autodesignassero come la “vera” cittadinanza, le uniche
eredi dello spirito della comunità di cui facevano parte, e che per tale ragione
si sentissero in diritto/dovere di debellare dalla città, eliminandole o
mandandole in esilio, le fazioni avverse. Scoppiava allora la guerra civile
(stasis), un evento tragico non solo in se stesso, ma anche per gli
strascichi che si portava dietro. I membri delle fazioni esiliate difatti,
cercavano successivamente di ritornare in patria e di vendicarsi di coloro che
li avevano scacciati ed espropriati dei loro beni, ciò che dava adito a nuove
lotte intestine, secondo un processo che rischiava di non avere mai
termine.
Ogni società sviluppa degli
“anticorpi” al proprio interno, per difendersi dalle proprie storture. La
città-stato sviluppò il principio dell’equilibrio e dell’equidistanza, come
valore sommo dell’esistenza sia individuale che sociale.
I greci avevano inventato diversi
nomi e concetti, peraltro strettamente interconnessi tra loro, per designare
questa idea fondamentale. È del resto significativo il fatto che tali concetti
furono elaborati e formalizzati per la prima volta dai membri delle
classi aristocratiche, in un periodo e in un contesto in cui esse godevano
ancora di un primato indiscusso all’interno della vita decisionale della
comunità, proprio al fine di giustificare il proprio diritto a
governare.
Secondo tale visione, le classi
aristocratiche, libere dalle cure materiali che affliggevano il resto della
popolazione, erano le portatrici naturali di questo tipo di nobiltà, cui davano
diversi nomi. I più comuni erano: aretè (virtù, valore), kalokagathia
(l’equilibrio del corpo e dello spirito), sophrosyne (assennatezza,
prudenza, sanità di mente): concetti che rimandavano tutti, anche se con
sfumature diverse, alla capacità di operare in modo conveniente, senza cadere
negli eccessi, e che erano intimamente connessi al senso del limite umano. Senza
quest’ultimo, gli uomini cadevano inevitabilmente nell’empietà, nella
hubris (la tracotanza verso gli dèi), scatenando così lo fthonos
theòn (l’ira divina) e la giusta punizione che ne derivava.
Di questa costellazione di concetti
troviamo più di una testimonianza non solo nei versi di molti poeti lirici
(specialmente di quelli politici, come Solone o Teognide), ma anche in Esiodo e,
seppure in forma ancora abbozzata e primitiva, nello stesso
Omero.
E non è un caso che nei successivi
periodi classici, anche laddove (come per esempio ad Atene) l’aristocrazia aveva
ormai definitivamente perduto il monopolio sulla vita politica, tali valori
rimanessero uno dei più importanti principi direttivi di quest’ultima. Essi
infatti avevano un significato e una portata che andava ben oltre le esigenze
ideologiche e di propaganda che avevano portato l’aristocrazia a elaborarli e a
formularli, attribuendoseli. Essi costituivano una delle basi stesse del buon
funzionamento della città-stato.
L’ideale dell’armonia e
dell’equilibrio fu dunque una costante, tanto etica quanto estetica, della polis
greca in tutti i suoi stadi evolutivi: dalle fasi più arcaiche fino a quelle
classiche e postclassiche. E se ciò avvenne, causa ne fu il fatto che un tale
ideale rifletteva una necessità obiettiva in un contesto costantemente dilaniato
da fazioni avverse, le quali spesso non si accontentavano di combattersi
attraverso i normali strumenti politici, ma ricorrevano a strumenti illegali e
clandestini (come le “eterie”, o società segrete) quando non addirittura alla
guerra aperta.
(b.3.4.2) le classi medie come base del rinnovamento politico del mondo greco
Alla base dell’originalità pressoché
assoluta del mondo politico greco arcaico, vi fu poi anche un altro aspetto,
inscindibile peraltro da quello appena descritto: lo sviluppo di una consistente
classe intermedia – tanto in senso economico, quanto in senso politico e
ideologico – tra i due estremi della nobiltà terriera e delle masse rurali. Un
fenomeno questo, che (come già gli antichi avevano compreso) costituì l’origine
più profonda della città-stato come forma di organizzazione politica alternativa
a quella, ancora essenzialmente feudale, del periodo
oscuro.
La centralità nella storia greca di
queste classi fu legata in primo luogo al fatto che esse godessero di una solida
autosufficienza economica, che le affrancava dalla tradizionale dipendenza dalla
nobiltà terriera. Proprio per tale ragione, esse diedero inizio e sostennero in
modo sostanziale quel processo di emancipazione della comunità dallo strapotere
nobiliare che – come abbiamo già più volte visto – costituì la componente più
profonda ed essenziale della vita politica delle città-stato.
È evidente infatti che, anche se il
popolo minuto si accodò successivamente a questo trend, accampando a sua volta
delle rivendicazioni politiche, un tale fatto fu reso possibile proprio
dall’affermazione preventiva di queste classi intermedie, che sole erano in
grado, per i motivi appena enunciati, di costituire una reale alternativa
politica al tradizionale predominio aristocratico e quindi di
scardinarlo.
Merito di tali classi inoltre, fu
quello di farsi promotrici di una nuova etica, la quale per molti versi
andava oltre sia l’egualitarismo popolare che l’individualismo eroico
dell’aristocrazia, che superava e sintetizzava in un’idea superiore. Esse erano
infatti promotrici di una concezione della vita basata su una competizione
fondata su leggi imparziali e egualitarie, la cui realizzazione in campo
economico avveniva attraverso quelle attività commerciali, produttive e di
mercato cui tali classi si dedicavano.
Questa particolare visione etica,
assieme ai peculiari stili di vita che vi erano legati, finì col tempo per
diffondersi anche tra gli altri membri della polis, contribuendo così a
creare quell’uniformità morale e materiale che rese possibile la coesione e
l’identificazione di tutti i cittadini in un unico organismo sociale e politico,
nonché quindi il dibattito e la partecipazione politica al suo
interno.
Questo processo di uniformazione del
resto della società agli ideali egualitari e isonomici della popolazione media,
si può vedere bene nella trasformazione delle élite politiche che ebbe luogo in
città-stato come Atene. In esse, l’antica aristocrazia oligarchica tese col
tempo a dividersi in due opposte fazioni: da una parte una ristretta minoranza
di irriducibili conservatori (i cosiddetti “oligarchi”) i quali, seppure in un
contesto mutato, continuavano a perorare la causa della superiorità e del
predominio politico dell’aristocrazia sul popolo (eunomia); e dall’altra
una nuova e più cospicua leva politica di leader democratici, tra i quali –
tanto per fare qualche esempio – Clistene e Pericle, che al contrario divennero
i protagonisti della vita democratica della città-stato.
La presenza di una forte classe
media, emancipata da poteri superiori e promotrice di un’etica egualitaria in
ambito politico, fu dunque un fenomeno tipicamente greco, fondamentalmente
assente negli stati del vicino mondo orientale.
Ed è in tali classi che bisogna
ricercare le radici più profonde di quell’etica – legalitaria ed egualitaria, ma
anche profondamente individualistica e agonale – che caratterizzò la città-stato
nei suoi periodi di maggiore splendore. Così come, del resto, la decadenza di
tali classi coincise con quella delle stesse città-stato e dei loro valori
fondanti.
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