STORIA ROMANA |
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Evoluzione sociopolitica della repubblica 1. Coordinate generali del periodo (VI - III sec.)
Nonostante l'ottenimento di alcuni traguardi (quali i tribuni della plebe, il codice delle dodici tavole, ecc.) riguardi indiscutibilmente l'intera popolazione, i risultati delle lotte popolari giovano soprattutto ai plebei ricchi. Essi difatti riescono - anche, ma non solo attraverso tali lotte - ad affiancarsi ai nobili nella guida dello Stato. Col tempo si crea quindi una classe dirigente mista, ovvero patrizio-plebea (per la verità ancora abbastanza omogenea sul piano ideale e degli interessi), che detiene - attraverso i consoli e le maggiori cariche istituzionali - le principali leve decisionali di Roma (peraltro divenuta ormai un complesso organismo politico e una vera e propria potenza internazionale). - Ampliamenti territoriali Un secondo aspetto che caratterizza questi anni è l'impressionante crescita territoriale: tra il VI e il III secolo la città-stato di Roma estende il proprio dominio, sia diretto, sia indiretto (ossia coloniale), dalla sola zona del Lazio a quasi tutta la penisola italiana. Essa diviene dapprima la massima potenza della Lega latina, arrivando poi a scioglierla; successivamente conquista (con le tre guerre sannitiche) la supremazia su gran parte della Campania; e giunge infine ad oscurare il dominio greco sull'Italia meridionale. Ma bisogna anche notare come tali guerre, il cui effetto è l'estensione territoriale del dominio romano, non siano guerre aggressive e intenzionalmente di conquista, bensì guerre difensive volte a consolidare il proprio dominio contro possibili aggressori esterni. Soltanto quando la potenza di Roma si sarà scontrata, vincendola, con la potenza cartaginese, solo allora si darà inizio ad una vera e propria fase 'imperialistica', finalizzata cioè all'estensione dei domini. - I plebei e la colonizzazione italica Ma oltre alla crescita di prestigio di cui si è parlato, i plebei conoscono in questi anni anche un'opposta parabola sociale: ai plebei ricchi infatti si affiancano quelli poveri. I poveri della nuova Roma sono essenzialmente coloro che rimangono esclusi dai privilegi economici legati alle annessioni territoriali: fondamentalmente ex-contadini decaduti e divenuti proletari urbani, dopo esser stati depauperati dalle numerose guerre (che hanno danneggiato i loro campi, e li hanno inoltre tenuti lontani da essi) e da una distribuzione delle ricchezze alquanto ineguale (poiché gestita da una classe dirigente aristocratica, di vecchia e di nuova leva). Gradualmente la plebe si trasforma così da fenomeno contadino e agrario in un fenomeno cittadino - segno questo dei mutamenti che stanno avvenendo all'interno dello Stato romano: non più un semplice 'stato di contadini e di guerrieri', bensì potenza ormai cittadina (poiché la città convoglia i nuovi strati sociali, e diviene al contempo il centro direzionale dell'apparato statale complessivo) e internazionale. La crescente disparità tra ricchi e poveri poi, crea un antagonismo alternativo a quello tra plebei e patrizi, determinando nuove e più forti tensioni sociali. Il rischio chiaramente avvertito dall'establishment romano è che una tale situazione comprometta le strutture dello Stato mettendo in forse le sue ricchezze e i suoi privilegi (basati appunto su tali strutture). La soluzione sta quindi nel trovare un modo per allontanare lo spettro della ribellione sociale, alleggerendo (ma non rimuovendo) le motivazioni dello scontento dei ceti più bassi, esclusi oltre che dal potere politico anche da gran parte della ricchezza. Tra le strade più praticate ve n'è una che consiste nel riversare parte dei cittadini più poveri nelle nuove colonie, ossia nei territori di recente acquisizione, esterni ai confini territoriali della Roma vera e propria. In questo modo si ottengono due risultati: a) da una parte si restituisce la terra a coloro che l'hanno perduta; b) dall'altra si allontanano da Roma le masse degli scontenti, dal momento che essi installandosi nelle nuove colonie perdono la cittadinanza romana uscendo così dal gioco politico. E' un segno dei tempi che cambiano: Roma si mantiene in piedi essenzialmente attraverso un costante gioco d'equilibrio tra gli interessi delle diverse classi sociali. Il fatto di tenere insieme - cioè di conciliare - i differenti punti di vista (seppur mantenendo intatti i privilegi dei più ricchi) impedisce che si creino rotture interne che potrebbero risultare distruttive per la nascente classe dirigente e per la sua organizzazione di potere. Anche l'esercito inoltre modifica il proprio assetto e i propri connotati: non solo infatti esso muta la propria organizzazione in direzione di un maggiore dinamismo di manovra; ma si allarga anche quantitativamente, aprendosi ulteriormente all'apporto dei plebei (sia nei ranghi più alti, sia in quelli più bassi). Riguardo infine ai rapporti di Roma con le popolazioni sottomesse, la strategia utilizzata consiste nel mantenere in uno stato di subalternità la maggioranza della popolazione, rafforzando di contro il potere detenuto dalle aristocrazie locali (il cui dominio è spesso in crisi prima dell'intervento dei romani). I ceti dominanti ricevono così la cittadinanza romana e assieme a essa vari privilegi, tra i quali quello di far parte dell'aristocrazia senatoria romana. In questo modo il potere centrale, in sinergia con quello locale, riuscirà a mantenere saldo il suo dominio sulle zone di conquista, evitando così uno sfaldamento della compagine. 2. I principali eventi politici interni3. I principali eventi politici esterniLa condizione schiavileLa rivolta di SpartacoLa rivolta di VelznaAdriano Torricelli |
- Stampa pagina Aggiornamento: 11/09/2014 |