L'ARTE BIZANTINA E RUSSA

PER UN'ALTERNATIVA UMANISTICA


STORIA DELL'ICONOGRAFIA RUSSA

I - II - III

Venerato San Sergio di Radonež. XX s.

Al pari dell’arte umanistico-rinascimentale italiana, l’iconografia bizantina è uno dei massimi tesori mondiali d’arte religiosa. E tuttavia, sino agli inizi del Novecento, l’icona riusciva del tutto incomprensibile all’uomo russo di cultura; non era neppure in grado di scorgere la differenza sostanziale fra i colori originali e quelli inscuriti a causa del tempo (la vita di un'icona durava circa un secolo) e soprattutto a causa della fuliggine delle candele delle chiese, tant'è che nell'antichità spesso sul disegno originario se ne dipingeva un altro identico.

E' stato grazie ai progressi della moderna tecnica del restauro che il mito della “tenebrosa” icona si è definitivamente dissolto. In molti casi s’è dovuta rimuovere anche la guarnizione d’oro o d’argento che, a partire da più di quattro secoli fa, s’era cominciato a mettere sui volti delle icone, non sapendo come restaurarle. Le icone russe hanno stupito il mondo durante la prima esposizione dell'arte antica russa, tenuta a Mosca nel 1913.

La riscoperta dell’iconografia russa è avvenuta in maniera laica, senza avvertire il bisogno di un ritorno alla vita ecclesiale d’un tempo. E’ stata studiata come un fenomeno artistico degno della massima attenzione. I testi di Viktor Lazarev sono assolutamente fondamentali per comprendere l’arte religiosa russa e bizantina: Storia della pittura bizantina, Einaudi, Torino 1967; L'arte dell'antica Russia, Jaca Book, Milano 2000; L'arte russa delle icone. Dalle origini all'inizio del XVI secolo, Jaca Book, Milano 2006.

Ed è così che si è voluto puntualizzare come l’icona non sia affatto un ritratto, ma un prototipo della futura umanità trasfigurata. L’artista non dipingeva un’icona prendendo a modello delle persone reali. Poiché la futura umanità può essere solo intravista, l’icona ne poteva rappresentare soltanto un'immagine simbolica. I volti, le mani, i corpi affilati dei santi delle icone e dello stesso Cristo, macerati nei digiuni e nelle fatiche, con quella loro estatica immaterialità ambivano a contrapporsi al “regno della carne” (alla violenza), e i loro “sensi affinati” costituivano una nuova norma nei rapporti esistenziali. Non si incontra mai un Cristo dipinto col volto rotondo, le labbra rosse, i capelli ricciuti, i muscoli in evidenza...

A un osservatore superficiale questi volti spiritualizzati possono apparire privi di vita, anche in forza dell’eccezionale severità delle tradizionali forme convenzionali cui l’iconografo doveva attenersi. I canoni di questa pittura, infatti, consacrano le linee essenziali dominanti: p.es. la posizione del torso del santo, il mutuo rapporto delle sue braccia raccolte in croce, l’unione delle sue dita benedicenti, il movimento ridotto al minimo ecc.

Nonostante questi limiti prefissati, il pittore era libero di dipingere lo sguardo del santo, l’espressione dei suoi occhi, che costituiva il maggiore centro di vita spirituale del volto umano. L’immobilità fisica del personaggio, il suo silenzio, la sacralità della scena dovevano esprimere una tensione emotiva nel contempo forte e rassicurante. Non è cosa semplice da fare: anche i personaggi di Piero della Francesca sono perfettamente immobili, ma gli sguardi appaiono come indifferenti ai sentimenti, alle emozioni… L’unica vera profondità è tutta racchiusa nella prospettiva geometrica in cui i personaggi sono inseriti.

A proposito di spazio scenico, va detto che nell’iconografia, russa o bizantina, l’icona costituisce un tutto indissolubile col tempio che la deve contenere, cioè l’artista non deve preoccuparsi di posizionare visivamente i personaggi entro un contesto ecclesiale, in quanto questo è ritenuto scontato per la collocazione della stessa icona. E’ l’icona come dipinto che deve stare dentro uno spazio architettonico che le dà significato (non dimentichiamo che sino alla fine del Quattrocento è l’architettura il motivo portante dell’arte, in oriente e in occidente). L’icona non è un quadro da appendere a un muro e non è neppure un affresco da farsi in un edificio non religioso. Non è lo spettatore che deve guardare l’icona, ma attraverso l’icona deve guardare se stesso e, guardando se stesso, deve potersi percepire come parte di un tutto.

L’artista era così abituato a immaginare la sua opera d’arte come elemento di un contesto molto più grande, che dava spontaneamente ad ogni icona una particolare e intrinseca architettura, rilevabile anche al di là di ogni nesso immediato con l’edificio sacro, tant’è che sia nei singoli personaggi che nei cori dei santi, le figure, come fossero in corrispondenza con le linee architettoniche del tempio, appaiono spesso o troppo rettilinee o troppo curvate. Obbedendo alla spinta verticale delle iconostasi alte e strette, queste figure spesso si allungano smisuratamente e la loro testa risulta troppo piccola rispetto al resto del corpo, stretto di spalle.

Altra caratteristica fondamentale dell’iconografia, bizantina o russa, è che non soltanto nei templi ma anche nelle singole icone (specie dove sono raggruppati molti santi), esiste come un centro architettonico che funge da centro ideale, attorno al quale i santi stanno immancabilmente in numero eguale e spesso anche nella stessa posizione da ambo le parti.

Fungono da centro architettonico-ideale anche il Cristo, la Vergine, la Saggezza divina: talvolta, per ragioni di simmetria, la figura centrale è addirittura raddoppiata.

La pittura subordinata all’architettura sta ad indicare non soltanto l'esigenza di contestualizzare in uno spazio significativo i contenuti della fede, ma anche la disponibilità dell'uomo ad accettare un’idea comunitaria, il prevalere dell’universale sul particolare. L’uomo cessa di essere una individualità autosufficiente e si sottomette all’architettura generale dell’intero.

Tale rappresentazione comunitaria dell’arte iconografica viene concepita come simbolica per la semplice ragione che nella realtà la pienezza della comunità non esiste: la chiesa dà per scontato che sulla terra essa sia irrealizzabile.

Infatti nei volti severi dei santi c’è qualcosa che nel contempo attira e respinge: le loro dita unite nella benedizione chiamano a sé ma mettendo come sull’avviso. Le icone esigono che si abbandoni ogni gretta trivialità quotidiana, il lusso, lo sperpero, ogni forma di malcostume. Le sofferenze non sono concepite come fine a se stesse, ma per esprimere una palingenesi cosmica, in cui l’umanità, attraverso l’amore, si riconcilia col proprio creatore: cosa che avverrà, definitivamente, solo alla fine dei tempi.

Qui sta il limite insuperabile non solo dell’iconografia russa o bizantina, ma anche di qualunque iconografia religiosa in generale, che chiede di vivere personalmente determinati valori e nel contempo di rassegnarsi al fatto di non poterli vedere realizzati in una dimensione storica e terrena. Il sacro realismo simbolico ch’essa pretende di dimostrare va umanizzato in direzione del superamento di ogni religione e di ogni antagonismo sociale, che, in ultima istanza, trova proprio nella religione l'occasione, il pretesto per riprodursi all'infinito.

Di quell’arte e di quella religione in essa rappresentata, si possono valorizzare gli aspetti che ancora oggi possono avere un significato, ma a condizione di trasfigurarli in chiave laico-umanistica, finalizzandoli alla costruzione di una convivenza civile in cui la religione sia soltanto un aspetto della libertà di coscienza, non il presupposto etico su cui costruire il socialismo democratico.

Come oggi consideriamo definitivamente superati tutti i progetti di giustizia sociale basati sulla religione, così dobbiamo considerare superati tutti i tentativi del socialismo di servirsi della religione per edificare se stesso.

L’umanesimo laico e il socialismo democratico possono utilizzare i valori della tradizionale religione per affermare che ogni religione, in sé, costituisce un ostacolo alla realizzazione dell’identità umana. Infatti ogni religione della storia ha sempre considerato l’essere umano come incapace di essere “umano” sino in fondo. Il primo impegno dell’uomo laico è contro questo pessimismo ontoteologico.

Il secondo sarà quello di considerare che l’ambiente sociale in cui si è sviluppata l’iconografia russa e bizantina è stato quello contadino, in cui si è cercato di dare una risposta religiosa ai problemi umani della povertà e delle ingiustizie sociali. Non potrà esserci un superamento della religione finché la laicità e il socialismo non avranno fatto propri tutti i valori umanistici del passato mondo rurale.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia Medievale - Sezione Arte
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 11/09/2017