LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE


PREMESSA: PARTE I

I - II - III - IV

C. Amberger, Il capocontabile dei banchieri Fugger: M. Schwarz (1548)

1. Il problema

Il concetto di rivoluzione industriale, coniato in ambito francese negli anni venti dell’Ottocento, ha fatto molto discutere gli storici. Mentre alcuni lo ritengono inadeguato a indicare rivolgimenti di lungo periodo, difficilmente delimitabili nel tempo e nello spazio come il termine “rivoluzione” sembrerebbe presupporre, i più lo usano abitualmente, seppure con qualche cautela, soprattutto perché sembra il più idoneo a esprimere la profondità e la radicalità dei mutamenti verificatisi nelle economie occidentali a partire dall’Inghilterra del Settecento.

Se sembra effettivamente difficile rinunciare a una definizione ormai entrata nel linguaggio comune, si deve però riconoscere che le perplessità non sono infondate. Non è facile, ad esempio, accordarsi su quali furono i fattori determinanti e scatenanti del processo, e di volta in volta si pone l’accento sul versante dell’organizzazione del lavoro o sui rapporti di produzione, sull’imprenditorialità, sulle trasformazioni tecnologiche o sulle risorse disponibili.

Talvolta si assumono insieme alcuni di questi elementi, talaltra ci si riferisce ad essi nel loro complesso. Problemi non minori sorgono se si prendono in considerazione gli indicatori in base a cui misurare lo sviluppo, o l’ambito, sovranazionale, nazionale o regionale a cui rifarsi. Simili difficoltà sono solo in parte aggirate da chi preferisce rifarsi a categorie esplicative diverse.

In quest’ambito merita di essere ricordato il concetto di sviluppo economico moderno elaborato dalla storiografia. Esso indica un aumento della quantità pro capite dei beni e dei servizi a disposizione di una comunità che, a differenza di quelli del passato, presenta sul lungo periodo caratteri di irreversibilità, accompagnandosi a profonde trasformazioni produttive, sociali e demografiche.

Perché tale sviluppo si verifichi, il tasso di crescita del reddito per abitante, variabile a seconda dei tempi e delle situazioni, dovrebbe ammontare al 15-30% per decade, in un contesto caratterizzato dall’aumento della popolazione, dei risparmi e degli investimenti, e, soprattutto, della produttività, grazie all’innovazione tecnologica e a una diversa organizzazione del lavoro.

Lo sviluppo economico moderno si accompagna anche a uno straordinario mutamento nella composizione del prodotto nazionale per il quale, mentre crescono le quote relative del settore industriale e dei servizi, diminuisce in proporzione quella tradizionalmente preponderante dell’agricoltura, nonostante gli elevati incrementi di produzione e di produttività che si verificano anche in quest’ambito.

2. La rivoluzione industriale inglese

Solitamente quando si parla di rivoluzione industriale, o di avvio dello sviluppo economico moderno, ci si riferisce al processo verificatosi in Inghilterra a partire dalla seconda metà del Settecento e che da lì si diffuse successivamente all’Europa, agli Stati Uniti, a parte del Sudamerica, alle colonie di insediamento bianco e al Giappone, per coinvolgere solo dal secondo dopoguerra altri paesi dell’Asia e dell’Africa. La rivoluzione industriale inglese, giunta a compimento verso la metà dell’Ottocento, è riconducibile alla presenza di fattori di natura diversa.

Le peculiari tradizioni politiche britanniche e la mentalità delle sue classi dirigenti, inclusa l’aristocrazia, offrivano un terreno particolarmente propizio allo sviluppo delle attività economiche e alla ricerca del profitto, che potevano svolgersi in un quadro di libertà e di certezza del diritto sconosciuti nella maggior parte del continente e che erano oggetto di una valutazione sociale più positiva che altrove.

Inoltre, l’Inghilterra aveva già trasformato radicalmente la sua agricoltura e la sua popolazione, che era tra le più prospere d’Europa, costituiva un possibile mercato anche per consumi non di prima necessità. Proprio nella rivoluzione agricola, attuata in Gran Bretagna con qualche anticipo rispetto all’industrializzazione e nel corso del suo primo svolgersi, è stata spesso individuata una sorta di precondizione per il verificarsi della rivoluzione industriale.

Il possesso di un vasto impero coloniale e l’elevata disponibilità di materie prime e di risorse ampliavano poi le dimensioni degli scambi e le potenzialità produttive. In questo contesto si colloca l’introduzione di numerose innovazioni tecnologiche, che presentandosi con una straordinaria concentrazione temporale permisero incrementi di produttività senza precedenti. Il settore industriale che ne fu per primo protagonista fu quello tessile.

L’avvento della meccanizzazione della filatura e, in un secondo tempo, della tessitura, prima del cotone e poi della lana, permisero, con un caratteristico meccanismo di botta e risposta nel campo delle innovazioni, sviluppi straordinari: nella filatura del cotone, ad esempio, la produttività del lavoro crebbe di circa 150 volte entro la fine del secolo e di trecento entro il 1825.

Si trattò certamente, come avrebbe sostenuto Schumpeter, di “bufere di distruzione creativa”, giacché alle innovazioni si accompagnarono anche drammatiche conseguenze: basti pensare che la meccanizzazione della tessitura portò con sé la distruzione della figura professionale centrale dei tessitori, che dai circa 250.000 che erano nell’Inghilterra del 1820 si videro ridotti a 3000 intorno alla metà del secolo.

In seguito all’industrializzazione si diffusero e si inasprirono pertanto i conflitti sociali e la lotta di classe, che diedero luogo al sorgere del movimento operaio. Gli altri grandi protagonisti della rivoluzione industriale furono il carbone e la macchina a vapore. Nella prima fase la forza motrice usata nell’industria tessile rimase ancora quella idraulica. Ma la macchina a vapore, il cui uso si diffuse soprattutto dall’inizio dell’Ottocento, permise di estrarre il carbone in profondità, aprendo la possibilità di disporre di risorse energetiche sino a quel momento impensabili.

Fu questa rivoluzione energetica a imprimere un’autentica svolta nella storia dell’umanità, giacché grazie ad essa si poté contare per la prima volta su risorse praticamente illimitate, o in ogni caso disponibili per secoli e non più, come era stato sino ad allora, per poche generazioni.

Anche in questo caso si innescò un felice meccanismo di botta e risposta: la macchina a vapore sostituì l’acqua, più discontinua e inaffidabile, come forza motrice; permise l’estrazione di una maggior quantità di carbone, che a sua volta serviva ad alimentarla; carbone e macchina a vapore diedero l’impulso ad altre industrie, come quella siderurgica e meccanica, e l’insieme di questi fattori rese possibile, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, quell’altro evento rivoluzionario che fu l’avvento delle ferrovie.

Sul versante dell’organizzazione del lavoro, il dato saliente della rivoluzione industriale consiste nell’introduzione del sistema di fabbrica. A partire dall’industria tessile, la concentrazione del lavoro e delle macchine in un unico edificio, la divisione del lavoro e il controllo sui suoi orari e sui suoi ritmi da parte del proprietario capitalista si sostituirono progressivamente ai preesistenti modelli organizzativi protoindustriali, largamente legati al lavoro a domicilio e alla compresenza di attività agricole e industriali.

L’avvento del factory system determinò la fine della centralità della famiglia come luogo di organizzazione e di divisione del lavoro e la separazione sempre più netta del lavoratore, divenuto salariato, dal controllo del processo produttivo e dei prodotti del lavoro; in contrapposizione ai lavoratori salariati si affermarono così la proprietà privata del capitale e dei mezzi di produzione e, all’insegna della logica del profitto individuale, la figura del moderno capitalista industriale.

3. La diffusione dell’industrializzazione

La diffusione dell’industrializzazione dall’Inghilterra verso altri paesi si verificò con notevoli discontinuità spaziali e temporali, tanto che il suo procedere è stato paragonato alla conformazione maculata della pelle del leopardo. In un primo tempo, sin dalla prima metà dell’Ottocento, furono coinvolte soprattutto le aree dell’Europa nord-occidentale più ricche di risorse energetiche e più prossime alla Gran Bretagna, come il Belgio e alcune regioni della Francia e della Germania, mentre solo in misura più limitata e circoscritta furono interessate zone dell’Europa centrale e meridionale.

Solo nella seconda metà del secolo, e anche allora con persistenti discontinuità e disomogeneità, il processo si estese al resto dell’Europa e al Giappone, mentre lo sviluppo economico statunitense seguì vie diverse, più graduali e più legate ai caratteri di quel paese, attraverso una peculiare e felice imitazione del modello britannico, imperniato sulla centralità della produzione tessile.

Fu soprattutto a partire dal decennio successivo che furono intraprese, particolarmente a partire dalla Germania, vie più autonome e originali. In quella che alcuni hanno definito la “seconda rivoluzione industriale” si possono infatti riscontrare alcuni tratti che si differenziano notevolmente dall’esperienza dei decenni precedenti.

Mentre nel commercio internazionale alla fase liberista ne subentrava un’altra sempre più segnata dal protezionismo e dall’antagonismo fra le nazioni, si affermavano come protagoniste industrie nuove, o che in passato avevano avuto una funzione meno centrale. Assunsero così un’importanza cruciale la siderurgia, grazie alle nuove possibilità di produrre acciaio a basso costo, l’industria chimica, la meccanica e l’idroelettrica, mentre gli stabilimenti assumevano spesso, per l’estensione degli impianti e per la quantità della manodopera occupata, le nuove dimensioni della grande industria moderna.

Si trattava di settori produttivi che rispetto a quello tessile richiedevano tecnologie nuove, meno artigianali e più sofisticate, e più ingenti investimenti di capitali. Si assistette pertanto a uno sviluppo senza precedenti della ricerca scientifica finalizzata all’innovazione tecnologica e alla nascita di nuove istituzioni di credito per il finanziamento industriale, le cosiddette banche miste o di tipo tedesco.

In questo contesto, a differenza di quanto era accaduto nella prima fase della rivoluzione industriale, il sostegno degli stati e delle politiche economiche ebbe una funzione cruciale nello sviluppo dei paesi giunti in ritardo al capitalismo. La Germania, che emerse in questa fase come grande potenza industriale, alla fine del secolo raggiunse il potenziale economico dell’Inghilterra, che veniva così a perdere, anche in concomitanza con lo straordinario sviluppo degli Stati Uniti, il ruolo egemone che aveva a lungo occupato. [Giancarlo Jocteau]

M. Isabella Scalamandrè


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 22/02/2015