LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE


PREMESSA: PARTE IV

I - II - III - IV

La reazione del proletariato alle contraddizioni del capitale

Mentre l'impetuoso sviluppo del capitalismo commerciale nulla poté contro il dilagare della peste nella seconda metà del Trecento, che dimezzò di un terzo gli europei, uno sviluppo ancora più impetuoso del capitalismo industriale, potenziando la medicina, migliorando l'igiene e l'alimentazione (almeno per chi se lo poteva permettere), sfruttando le colonie extra-europee come sbocco per la manodopera eccedente e facendo in modo di non avere più carestie nel continente (l'ultima sarà quella irlandese del 1847-48), determinò un incredibile aumento della popolazione, che da 193 milioni nel 1800 passò a 400 milioni alla fine dello stesso secolo.

Si era infranta per sempre quella compensazione naturale tra nascite e morti che aveva caratterizzato l'Europa agricola per millenni, ove a una eventuale alta natalità seguiva sempre un'alta mortalità, dovuta a carestie o epidemie.

Si aveva inoltre l'impressione che i miglioramenti tecnologici nelle campagne sarebbero stati in grado di sfamare chiunque e che se nelle città esistevano vaste sacche di povertà, ciò non era certamente dovuto al progresso tecnologico, ma semmai ad altri fattori: p. es. all'ignoranza del proletariato urbano (per gran parte di origine contadina), incapace di fare lavori adatti alla vita di città; oppure all'indolenza di chi aspettava dall'alto la soluzione dei propri problemi materiali. Tuttavia chiunque poteva rendersi conto che le città si stavano popolando di ex-contadini, espulsi dai proprietari terrieri, intenzionati a utilizzare le loro terre secondo criteri di profitto borghese e non più di rendita feudale.

Con la rivoluzione industriale la mobilità sociale coinvolse milioni di persone, la gran parte delle quali finì addirittura oltre oceano. Questo perché l'industria voleva sottomettere a tutti i costi l'agricoltura, non concependosi più al pari di una semplice un'attività collaterale, come avveniva al tempo della manifattura sparsa. Gli imprenditori, scoperta la possibilità di fare soldi facili in virtù del lavoro altrui e della tecnologia, volevano espandere la loro attività il più in fretta possibile. E così, se nel 1810 solo 12 europei su 100 vivevano in città, un secolo dopo erano già 41.

La grande azienda agricola capitalistica stava cancellando la piccola e media proprietà contadina a conduzione familiare, e lo sviluppo della manifattura di fabbrica soppiantava l'artigianato e l'industria a domicilio. La mobilità, conseguente a questa rivoluzione tecnologica e di mentalità, non era solo in orizzontale, da un luogo all'altro, ma per molti individui, più intraprendenti di altri, era anche in verticale, da uno status sociale a un altro, da un certo reddito a un altro.

Il concetto di "ceto sociale", con tutte le sue rigidità dovute all'origine nobiliare, veniva sostituito da un concetto più elastico, la "classe sociale", rapportabile unicamente alla proprietà, mobiliare o immobiliare. Alla classe di tipo borghese tutti, virtualmente, potevano appartenere, fatto salvo ovviamente un certo censo e una certa cultura.

Già nel 1830 almeno 25 città europee superavano i 100.000 abitanti: cosa che in Italia si poteva tranquillamente constatare al tempo delle signorie e dei principati (Milano, Firenze, Napoli, Venezia... erano tra le città più grandi d'Europa), grazie allo sviluppo del capitalismo commerciale e finanziario. Tuttavia l'Italia, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, in forza della Controriforma aveva fatto molti passi indietro, trovandosi quasi completamente spiazzata dallo sviluppo industriale maturato nei paesi nord-europei.

Non solo, ma le condizioni abitative dei lavoratori del Trecento, sino alla metà del Settecento, non erano assolutamente paragonabili con quelle iperdegradate che dovevano vivere i lavoratori nei centri urbani durante la rivoluzione industriale. Infatti veniva impiegata molta manodopera femminile e infantile per sei giorni la settimana e per 14-15 ore al giorno; le condizioni abitative erano molto precarie; il sovraffollamento favoriva il diffondersi di malattie; l'inquinamento prodotto dalle fabbriche a carbone era molto elevato. E poi vi era delinquenza, alcolismo, prostituzione...

Nelle città era molto evidente la distinzione tra borghesia e proletariato. La borghesia poteva essere suddivisa, sulla base del reddito, in piccola, media e grande, ma anche in commerciale, finanziaria e industriale; i proletari invece erano tutti coloro che per campare potevano far leva soltanto sulle capacità fisiche o intellettuali, non possedendo altro. Se lavora in fabbrica il proletario è un operaio salariato, sia egli di qualifica generica o specializzata; se lavora in campagna è un bracciante a ore, un salariato agricolo. Chi è proprietario di un lotto di terra, chi la cede in affitto o l'acquista pagando un certo canone, è già un piccolo borghese, e lo è anche l'artigiano specializzato ancora padrone dei propri mezzi produttivi.

I più sfruttati sono le donne e bambini: si ha bisogno di loro soprattutto nel tessile, ma anche perché è più facile sfruttarli, incatenandoli a una macchina. La loro vita media è bassa, perché si ammalano facilmente (soprattutto di tisi), e sino alla fine dell'Ottocento la vita di fabbrica è molto dura, anche perché non esisteva alcuna forma di indennità per malattia, alcuna assicurazione per gli incidenti e nessuna pensione. Quando si usciva dal ciclo produttivo, si finiva in un ospizio sostenuto dalla pubblica carità. Di qui l'esigenza che gli operai avevano di darsi delle strutture di mutuo soccorso, con cui venire incontro alle situazioni di maggiore disagio.

Paradossalmente quanto più aumentava la ricchezza di una nazione, tanto più gli economisti (Malthus, Smith, Ricardo...) chiedevano di abolire anche le ultime leggi statali di assistenza per i poveri, col pretesto che, a causa loro, i poveri ambivano a campare di rendita, senza più cercare alcun impiego. In particolare si temeva che l'assistenza assorbisse tutta la ricchezza eccedente e non si voleva assolutamente che lo Stato interferisse nei rapporti tra imprese e lavoratori: questo perché l'erogazione dei sussidi, inducendo i disoccupati a non cercare un lavoro, faceva aumentare i salari. Sarà proprio questa durezza nei confronti dell'assistenza pubblica che indurrà i lavoratori a organizzarsi a livello sindacale, il che comporterà per gli imprenditori dei costi di molto superiori alla suddetta assistenza.

La vita della fabbrica non solo mandava in rovina chi, standosene fuori col proprio lavoro artigianale, non riusciva più a competere (si veda il fenomeno del luddismo, negli anni 1811-13, cioè della distruzione materiale delle macchine, repressa sempre molto violentemente), ma mandava in rovina anche chi se ne stava dentro, a sopportare condizioni di vita proibitiva. Di qui l'esigenza di regolamentare il lavoro femminile e minorile, che venne limitato a 58 ore settimanali e solo per soggetti al di sopra degli otto anni.

La prima forma di opposizione al sistema aziendale, che andasse oltre la mera distruzione delle macchine, fu costituita dai sindacati, piccoli organismi a base territoriale locale. Quando in Gran Bretagna vennero fuori le Trade Unions, cioè i sindacati di mestiere, il primo congresso si tenne nel 1833, ma un respiro nazionale si avrà solo nella seconda metà dell'Ottocento.

All'inizio la resistenza degli imprenditori fu durissima, anche perché col continuo afflusso dei contadini verso la città, gli operai non specializzati potevano facilmente essere sostituiti.

Scioperare era molto difficile: il diritto di poterlo fare venne riconosciuto soltanto verso la metà del XIX secolo. Il diritto di associazione sindacale in Inghilterra fu ammesso solo nel 1825; in Francia solo nel 1864. Occorsero molte lotte per portare la giornata lavorativa prima a 12 ore, poi a 10.

Una volta creati i sindacati si passò ai partiti politici: il primo fu il Cartismo inglese, sviluppatosi negli anni '30. La Carta del popolo (1837) prevedeva il suffragio universale maschile, il voto segreto durante le elezioni, l'abolizione del requisito del censo per i parlamentari, l'indennità di presenza per i parlamentari, un numero uguale di rappresentanti nei collegi elettorali per un ugual numero di elettori, il rinnovo annuale dei Parlamenti.

Cartismo


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 23/02/2015