IL SENSO CRISTIANO-BORGHESE DELLA MORTE

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IL SENSO CRISTIANO-BORGHESE DELLA MORTE

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Quando Manzoni era ateo vedeva la morte come forma di liberazione da un dolore insopportabile, da una sofferenza senza via d'uscita. E ci scrisse sopra l'Adelchi. Era un modo rassegnato di vivere la vita, che aveva però il vantaggio di non creare illusioni. Vi era una certa dignità, un certo stoicismo.

Poi divenne credente e, scrivendo i Promessi sposi, disse che le contraddizioni vanno affrontate confidando nella divina Provvidenza, che può anche servirsi della morte per liberarsi del don Rodrigo di turno e far trionfare il bene.

Fiducia contro rassegnazione, provvidenza contro disperazione. Dove sta il trucco? Sta appunto nel far credere che dal paganesimo al cristianesimo vi sia stato un progresso di etica e di cultura, quando invece l'unico progresso era stato nell'illusione di credere possibile l'esistenza di un'entità separata dall'uomo, onnipotente e infinitamente buona, in grado di risolvere tutti i problemi dell'umanità.

E su questa strada si andò avanti per secoli e secoli, finché nel Mille (guarda caso nell’Italia cattolica) nacque una nuova figura sociale, il borghese, che, pur fingendo di credere ancora in quella illusione, pensò bene di mettere in pratica un principio diciamo più mondano, quello secondo cui la felicità è data dal denaro.

Il borghese cominciò a pensare che meglio dell'aldilà era l'aldiquà, a condizione ovviamente che la religione non ponesse ostacoli insormontabili allo sfruttamento delle risorse umane e materiali. E così fu. Seppure obtorto collo, le due confessioni, prima cattolico-romana, poi, e soprattutto, protestante vennero incontro alle esigenze della nuova figura sociale.

Ci vollero altri secoli prima che qualcuno dicesse che questa forma di materialismo era rozza e volgare e che per arrivare a quella scientifica bisognava risolvere il problema dello sfruttamento, dopodiché non solo si sarebbe eliminata l'idea di provvidenza, ma si sarebbe anche considerata la morte come un falso problema.

Col socialismo la morte torna ad essere vista come nella preistoria, una sorta di mera trasformazione della materia, nell'ambito di un universo infinito nello spazio e illimitato nel tempo. Un universo mai nato e mai destinato a morire.

Intanto però dobbiamo ancora combattere non solo col primato assoluto del denaro, imposto dalla borghesia, ma anche con l'idea cristiana che sponsorizza, anche a costo d’invocare il martirio, un tipo di felicità unicamente ultraterrena.

Ma da dove viene ai cristiani questo modo mistico di considerare la morte? Viene dalla tomba vuota del Cristo. Invece di fare autocritica per non aver saputo impedire la crocifissione del loro leader e, soprattutto (perché questo fu ancora più grave), per non essere stati capaci di continuare il vangelo di liberazione nazionale (dall'oppressione romana e dal collaborazionismo interno), gli apostoli pensarono che la morte del Cristo era stata "necessaria", voluta da dio-padre per riconciliarsi con gli uomini schiavi del peccato originale, impotenti a realizzare il bene.

La morte come riscatto morale, dal dolore, dall'insignificanza della vita, dalle sconfitte quotidiane, dall'incapacità d'essere se stessi: ecco con quale follia il cristiano vive la sua esistenza, ecco da dove proviene il risentimento nei confronti di chi gli dimostra che è solo un pavido. E' stata una fortuna per lui che il borghese abbia sostituito al dio uno e trino il dio quattrino. Grazie al borghese infatti il cristiano non urla più come san Paolo: “Faccio non quello che voglio ma quello che non voglio: chi mi libererà da questo corpo di morte?”. Ora sa quello che vede fare.

LA MORTE, LAICAMENTE

Non è possibile che il bene più prezioso dell'universo, la libertà di coscienza, sia legato a un filo, quello dell'esistenza terrena. Non è logico. Sarebbe uno spreco assurdo di energia, anche se simile a quello cui ci ha abituato l'uomo negli ultimi seimila anni, costruendo e distruggendo le cose con una disinvoltura preoccupante.

La cosa potrebbe avere un qualche senso se gli esseri umani fossero tutti relativamente uguali e solo se fossero facilmente riproducibili in condizioni extraterrestri. La natura però ci ha voluti, ognuno di noi, unici e irripetibili e la nostra generazione, stando alle conoscenze di cui disponiamo, sembra avvenire solo su questo pianeta, anche se non possiamo escludere a priori un qualche intervento esterno, nella fase, per così dire, della "fecondazione", come avviene in tutti i casi riproduttivi, salvo eccezione (p. es. in certi vermi ermafroditi).

Tuttavia, se c'è stato un qualche intervento esterno, nell'essenza non possiamo considerarlo superiore all'essere umano, come non lo sono i genitori nei confronti del figlio che mettono al mondo.

Un'altra cosa che resta da chiarire è il motivo per cui esiste la morte. In natura la morte è un fenomeno meno ricorrente della vita. Per fortuna non siamo tutti farfalle. Coi nostri occhi vediamo che, in ogni cosa, la morte è soltanto il passaggio da una condizione a un'altra. Tutto è soggetto a perenne trasformazione.

Ci si può chiedere però perché questa cosa avvenga anche nell'essere umano, che è dotato del bene più prezioso dell'universo, la libertà di coscienza, che non è cosa che possa essere sostituita o riciclata. La libertà di coscienza muore con la morte del nostro corpo: non c'è niente, su questa terra, che possa farci pensare il contrario.

La cosa che più ci fa riflettere è il motivo per cui un bene così prezioso, il cui valore è assolutamente inestimabile, abbia un destino legato all'esistenza di una cosa materiale, soggetta a deperimento, come appunto il nostro corpo.

Se possiamo rispondere, guardando la natura, alla domanda "perché si muore", non riusciamo a farlo quando è in gioco l'esistenza umana. Lo strazio per la morte di una persona che si ama è incolmabile. Questa cosa la si vede persino in molti mammiferi (p. es. negli elefanti).

Per rispondere alla domanda sul perché si muore dovremmo però prima chiederci: perché all'aumentare della consapevolezza della libertà di coscienza diminuisce la forza fisica con cui esercitarla? Ovvero perché la saggezza deve riguardare la persona anziana che di quella saggezza, in un certo senso, non sa che farsene e che magari la baratterebbe volentieri con una migliore prestanza fisica, dimostrando così di non essere affatto una persona "saggia"?

Deve essere esistito un tempo in cui la morte veniva vissuta, anche nell'essere umano, come un fenomeno del tutto naturale, come una vera e propria liberazione dal decadimento fisico. Tuttavia anche questa non è una risposta convincente. Qui ce ne possono essere altre due e dobbiamo andarle a cercare nella mitologia religiosa, che nel tempo ha preceduto la riflessione filosofica.

La prima è questa: probabilmente ai primordi dell'umanità era più netta la percezione o addirittura la consapevolezza che l'esistenza umana non riguardava solo il pianeta terra ma l'intero universo, sicché si avvertiva il decadimento fisico come l'anticamera di una mutazione necessaria (e persino desiderata) da una condizione di vita a un'altra, per cui di fronte alla morte, in definitiva, non ci si angosciava ma ci si rallegrava. Il suicidio poteva essere ammesso solo in presenza di un corpo umano in disfacimento, assolutamente irrecuperabile. E' sufficiente infatti smettere di nutrirsi.

La seconda risposta può essere questa: probabilmente nel corso dell'evoluzione della nostra specie deve essere accaduto qualcosa che ci ha indotto a considerare un'esistenza temporale limitata come una condizione accettabile da sopportare a fronte di un persistente uso improprio della libertà. Nel senso che nel passato dobbiamo avere avuto consapevolezza della piena legittimità, da parte della natura, di limitare su questa terra il tempo a nostra disposizione. La riduzione cioè sarebbe stata voluta proprio a nostro vantaggio, al fine di limitare al massimo gli errori che si potevano compiere.

Ma anche in questo caso nessuna angoscia, quanto piuttosto consolazione. Non avevamo ancora compiuto uno sbaglio nei confronti del quale non si poteva trovare rimedio.

Entrambe queste risposte - è facile notarlo - ci portano a credere che i nostri più antichi progenitori si sentissero parte dell'intero universo, anche molto tempo prima che allestissero i noti osservatori astronomici.

E' stato in virtù di questa discrepanza tra percezione dell'infinità della libertà di coscienza e consapevolezza dei limiti organici in cui poterla esercitare, che è nata la religione, una risposta infantile a un problema reale.


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018