Gli arabeschi di Derrida

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Gli arabeschi di Derrida

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Dario Lodi

Nota è la posizione dei filosofi analitici nei confronti di Jacques Derrida: essi non ne accettano la figura di filosofo, sulla base di una cripticità dei suoi scritti. Gente, come Habermas, votata all’analisi acribica faceva molta fatica a prendere anche solo in considerazione le sue teorie ed infine desistette di fronte alla reiterazione di quei testi tanto arabescati e “decostruiti” (“decostruzionismo” si chiama, infatti, il suo pensiero). Affermare che essa agisse così perché riteneva impropria un’oscurità espressiva nei confronti del pensiero filosofico da parte del presunto collega, è vero nella misura in cui la filosofia gode di necessità di precisione espositiva secondo una logica empirica.

Derrida è figlio dell’Esistenzialismo, ha frequentato Paul Celan: da entrambe le esperienze ma specie da quella con Celan, ha ricavato sicuramente, in modo diretto ed indiretto, uno scetticismo nei confronti delle possibilità umane di raggiungere la verità, che l’ha aiutato verso la formulazione di idee nuove. Sono idee nuove che vanno contro Heidegger e il suo perfezionismo programmatico e che si dilatano in una serie di probabilismo sfuggente alla speculazione tradizionale. Si dice e si ripete che l’accostamento, fatto da molti, dell’idea derridiana con l’indeterminazione scientifica portata da Heisenberg e da Planck, sia un’autentica forzatura, mancando rapporti fra il fare e il dire, il primo visto come pur utile volgarità e il secondo come virtù intellettuale taumaturgica.

Ma appare indubbio che il clima culturale maturato dopo decenni dalla formulazione di ipotesi rivoluzionarie, in qualche modo suffragate dai fatti, circa l’indeterminabilità del progresso della materia, e dunque della realtà, abbia influito, e non poco, sulla decisione del francese di dare retta ai dubbi, o per lo meno di dare loro uno spazio accogliente. Se accettiamo tutto questo, capiremo anche la faticosissima prosa di Derrida, non tanto in senso rigidamente esplicativo, quanto in senso propositivo, ammirando nel contempo, la coerenza dello scrittore: se devo scrivere di cose che non so, mi adeguerò relativamente, cioè la mia prosa sarà aperta a varie interpretazioni perché varie interpretazioni essa sarà in grado di suscitare.

Non è detto che lo stesso Derrida capisse tutto ciò che scriveva, ma può essere detto che non gli importava granché di essere chiaro in quanto il tema che andava trattando non poteva avere quella chiarezza che la filosofia convenzionale reclamava. L’indeterminazione scientifica consentiva, ed anzi sollecitava, tutto ciò mentre il mondo accademico, chiuso nelle sue metodologie cristallizzate, respingeva il tentativo derridiano quasi come eretico nei confronti dell’ortodossia che tanto dava, in termini di protagonismo, all’uomo.

Accettare Derrida significa ammettere ufficialmente il relativismo: sarebbe la fine del finalismo religioso e del determinismo scientifico (a dire il vero, potrebbe essere una sospensione provvisoria delle due cose, ma la presunta drasticità del pensiero derridiano fa vedere il peggio, dopo secoli di certezze metodiche), l’uomo perderebbe, sempre ufficialmente, la posizione centrale nella gestione del mondo, acquisita con Illuminismo e Positivismo; il precedente impianto strutturalistico della realtà risulterebbe una fantasia, le parole dei segni senza senso, o con senso limitato, con i concetti a rimorchio di esse. Si avvertirebbe l’inutilità del grande impegno filosofico, quello orientato da sempre alle costruzioni di sistemi assoluti e si accetterebbe, per forza, la prigionia entro le mura naturali (Wittgenstein docet).

Che Derrida possa significare tutto questo è tuttavia un’assurdità in quanto il pensatore non intendeva arrivare a soluzioni definite: sarebbe un controsenso rispetto a quella che potrebbe essere chiamata una provocazione benefica. Il francese, sostanzialmente, raccomanda di non rimanere sulle posizioni tradizionali come il classico soldato giapponese nella Seconda guerra mondiale, lì impalato, armi in pugno (ma senza più munizioni) a difendersi da simulacri di nemici. Derrida non era per niente quel soldato e, continuando con le metafore, non aveva neppure ambizioni di generale, né di guru.

Certo, la decostruzione di qualcosa implica la ricostruzione di un altro qualcosa. Derrida prevede tutto questo? Non tanto e questa sua esitazione, con definitiva rinuncia, fa capire che la sua tesi è solo l’inizio di un necessario cambiamento. Il filosofo francese vuole mettere in discussione la realtà tradizionale e minare alla base le istituzioni forti che proprio solo con la forza sono riuscite ad affermarsi. Caso tipico è la religione monoteista, la cui presenza millenaria ha costretto a pensare ad una sola realtà, con la conseguenza della nascita di una scienza simile per imposizione psicologica e contraria alla religione per scopo materialistico anziché sentimentale.

L’operazione di Derrida chiama in causa anche le riflessioni non sviluppate per impedimento da parte del sistema imperante, vuoi regale vuoi papale. Se vogliamo, specialmente a causa del secondo in quanto molto più ampio perché includente anche la sfera spirituale. Il danno provocato dalla chiesa alla razionalità è probabilmente immenso, anche se alla chiesa stessa va riconosciuto uno stimolo intellettuale – indiretto – che ha portato alle speculazioni laiche moderne. In altre parole, le istituzioni, basate sulla verticalità del potere, sono state messe in discussione dal pensiero libero e dalla dignità dell’uomo in quanto umanità. Derrida, con il suo decostruzionismo, suggerisce alternative al sistema storico, proponendo una ricostruzione la più possibile libera da legacci e il più possibile aperta alle varie opzioni avanzate dalla sensibilità umana.

Il fenomeno decostruzionista va a toccare anche l’aspetto culturale, ribaltando i programmi della cultura. Ad esempio, contesta l’accademismo, ovvero il sapere fossilizzato, e respinge la realizzazione della struttura con mattoni prefabbricati. Cioè evita il risultato finale in certo qual modo previsto e preparato a tavolino, pur non trattandosi di un tavolino a tre gambe. Il sapere aperto, e molto impegnativo, di Derrida, con tanto di accoglimento e di rispetto per ogni idea o sensazione, emozione, o sentimento è un orizzonte intrigante anche se infinito e irraggiungibile. Di sicuro, meglio di norme e regole metafisiche delle quali ogni apparato istituzionale è intriso o ne è più o meno seriamente toccato.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015