GIOVANNI GENTILE

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GIOVANNI GENTILE E LA RELIGIONE

I - II - III - IV

Il giovane Gentile, quando attaccava Il Modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909), non lo faceva mettendosi dalla parte della religione, ma dalla parte della filosofia. Gli pareva assurdo conciliare la fede nella trascendenza con la ricerca nell'immanenza.

Per lui l'essenza della religione stava nel sentimento, nella psicologia, e per questa ragione la giudicava come una sorta di filosofia "primitiva" o "provvisoria", avente una razionalità molto particolare, utilizzata da una coscienza volgare-popolare.

Di tutte le religioni riteneva quella cristiana la maggiore e la filosofia ne era, in un certo senso, l'inveramento. Cioè la filosofia non doveva distruggere il cristianesimo, ma, semmai, realizzarne culturalmente e politicamente le idee migliori.

Il Modernismo di Murri gli pareva un controsenso, in quanto non in grado di soddisfare né l'istanza scientifica (che deve concepirsi autonoma dalla fede), né quella religiosa, che deve restare circoscritta nel proprio ambito specifico.

Ma anche verso il laicismo dava un giudizio negativo. Per lui infatti era sinonimo d'indifferenza o neutralità. Gentile non amava né l'agnosticismo né l'ateismo, ma, essendo un hegeliano, pretendeva di fare della religione una semplice ancilla della filosofia. A una scuola laica preferiva una scuola confessionale, dove non vi può essere tolleranza per tutte le opinioni, ovvero libertà di critica e di discussione, per lui equivalenti a "puro formalismo".

Tuttavia ammetteva l'insegnamento della religione solo nella fase infantile dello sviluppo psicopedagogico del giovane, cioè nella scuola elementare; dopodiché lo studente doveva passare allo studio della filosofia, abbandonando decisamente quella "iniziale sapienza", la quale comunque restava superiore alla soggettività dell'arte. Infatti la religione era per lui una forma di "oggettività dello spirito", dove la "rivelazione" è necessaria in quanto l'assoluto non può essere compreso in maniera adeguata con la ragione. Di qui l'insufficienza della teologia nei confronti della filosofia.

Persino quando scrive il saggio su Giordano Bruno nella storia della cultura (1907), si rifiuta di vedere in questo martire della libertà di pensiero un precursore del moderno laicismo. A suo parere, anzi, Bruno fece della religione una filosofia, senza negarne affatto i presupposti. Il dio di Bruno è immanente, ma nel senso che ha integrato in sé ("sussunto", direbbe Hegel) quello trascendente.

Gentile non voleva la separazione di filosofia e religione, ma la subordinazione di questa a quella. E, per poter ottenere tale risultato, era anche disposto ad accettare una teologizzazione della filosofia. In particolare diceva che ogni religione è per sua natura monoteistica, poiché, dato che il soggetto cancella se stesso in essa, non può che porre nel divino la totalità, sicché il monoteismo è il punto d'arrivo di ogni politeismo, e di tutti i monoteismi il cristianesimo è quello che si avvicina di più alla filosofia, poiché, attraverso l'idea di "incarnazione", afferma la ricongiunzione di dio con l'uomo, annunciando una sintesi rappresentativa di soggettività e oggettività, che nella filosofia troverà il suo compimento.

Sarà proprio con la sua riforma scolastica che, in opposizione alla precedente cultura liberale, verrà introdotta nella scuola pubblica la formazione religiosa come materia d'insegnamento obbligatoria, da considerarsi a fondamento e coronamento dell'istruzione: il che incoraggiò l'inserimento di abbondanti contenuti religiosi in diverse discipline scolastiche.

Quando scrive, subito dopo la prima guerra mondiale, Guerra e fede (1919) e Discorsi di religione (1920), si dichiara avverso alla clericalizzazione o politicizzazione della fede operata dal Vaticano, che giudica come una forma d'interferenza nelle cose dello Stato. Tuttavia il suo laicismo non vuole affatto essere ateo, nel senso che se da un lato egli ritiene giusto che lo Stato si separi politicamente dalla chiesa, dall'altro ritiene sbagliato ch'esso affermi un'ideologia antitetica a quella cristiana.

D'altra parte per lui tutto il migliore Risorgimento (da Gioberti a Mazzini, da Rosmini a Manzoni, incluso lo stesso Cavour) non fu mai né irreligioso né antichiesastico; anzi, chi pretese d'esserlo, come Cattaneo e Ferrari, rimase tagliato fuori dal movimento unificatore e liberatore.

A Gentile faceva orrore tutta la cultura sensistica, materialistica e razionalistica dell'Illuminismo, che giudicava priva di spiritualità, troppo atea per essere umanamente profonda. La filosofia idealistica (il suo attualismo) era invece per lui una "fede", e solo con questa si poteva superare l'altra, quella mistica del cattolicesimo. Non a caso riteneva impossibile fare una "storia della religione", a meno che non si parlasse della religione all'interno di una "storia della filosofia": questo perché ogni religione nega validità alle altre, quindi da un punto di vista interno alla religione non è possibile alcuno sviluppo storico.

L'ultimo Gentile, nel testo La mia religione (1943), non faceva più alcuna differenza - sulla scia di Spinoza e Vico - tra "mente umana" e "mente divina", le quali dovevano per forza coincidere, altrimenti gli uomini sarebbero apparsi come "marionette della Provvidenza". In tal senso non gli riusciva proprio di sopportare la riforma protestante, con la sua idea di privatizzare l'atteggiamento nei confronti della religione.

Il Vaticano cominciò a meditare una condanna di tutta la sua opera già quattro mesi dopo la firma del Concordato, che lui aveva rifiutato, sembrandogli un'abdicazione del ruolo dello Stato fascista. I suoi libri, come quelli di Croce, vennero messi all’Indice il 20 giugno 1934 su richiesta di padre Gemelli (teologo neoscolastico particolarmente integralista), il quale ripetutamente l'aveva invitato a non definire di "ispirazione cattolica" la propria filosofia.

Come si può ben notare la filosofia gentiliana non era sufficientemente fondata in senso laicistico, in quanto andava a cercare nel cristianesimo dei motivi ispiratori. Egli inoltre non recepì per nulla gli studi ateistici della Sinistra hegeliana e di tanta filosofia illuministica. In tal senso il suo attualismo restava molto provinciale, espressione di una società scarsamente sviluppata in senso capitalistico, o comunque espressione di un certo aristocraticismo intellettualistico, lontano non solo dalla cultura operaia, ma anche da quella progressista della borghesia più produttiva, che, al suo tempo, era più interessata in Europa alle scienze esatte, al positivismo, che non a un revival della filosofia hegeliana.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 28-04-2015