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DAVID HUME (1711-1776)

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DAVID HUME

QUADRO STORICO

L'esordio degli Hannover

Estintasi nel 1714 la dinastia degli Stuart con la morte della regina Anna, il trono fu ereditato dalla casa tedesca di Hannover.

L'insediamento dei primi sovrani hannoveriani Giorgio I (1714-1727) e Giorgio II (1727-1760) - i quali venivano a regnare in un paese di cui ignoravano tradizioni, costumi e persino lingua - favorì i fautori della restaurazione degli Stuart, assai numerosi nel partito conservatore (i tories). Giorgio I riuscì tuttavia a controllare le forze di opposizione stuardista, appoggiandosi al partito dei whigs, fautori dei diritti del Parlamento, e chiamando a reggere il governo il loro leader Robert Walpole, che ricoprì la carica di capo di gabinetto per oltre un ventennio (1721-1742).

Il Walpole mantenne il paese estraneo alle contese internazionali e stimolò un ulteriore sviluppo delle attività marinare e commerciali, procurando nuova ricchezza e diffuso benessere; ma il suo pacifismo finì col favorire la concorrenza della Francia e della Spagna sui mari e sulle colonie.

Di fronte al rilassamento del costume pubblico favorito dal governo Walpole, prese corpo un movimento di "risveglio nazionale", di cui si fece promotore William Pitt. Divenuto capo di Gabinetto nel 1757, il Pitt intraprese una vigorosa politica estera di prestigio e di potenza, riservando cure particolari alle questioni marinare e coloniali, col risultato di estendere considerevolmente, a danno della Spagna e della Francia, l'impero coloniale dell'Inghilterra in America e in Asia.

Tendenze accentratrici della Corona

Il ritiro di William Pitt dal governo (1761) seguì di poco l'avvento al trono di Giorgio III (1760-1820), il quale non ritenne opportuno impegnarsi ad oltranza nella politica imperialistica del suo ministro, preoccupandosi invece di restaurare le prerogative della Corona di fronte al Parlamento.

David Hume e la Scozia del suo tempo

Fino al 1707 la Scozia era stato un regno indipendente. I re di Scozia, della dinastia degli Stuart, erano stati anche re d'Inghilterra fino al 1688, anno della "gloriosa rivoluzione" che scacciò gli Stuart dal trono.

Gli ultimi re di Scozia erano stati cattolici, e per questa ragione avevano perso entrambi i troni. I paese nel suo complesso, tuttavia, non era affatto cattolico. La Scozia era dominata, sul piano religioso e civile, dal presbiterianesimo, erede della tradizione ascetica e rigoristica del calvinismo e del puritanesimo e sostenuto dall'Assemblea generale della Chiesa scozzese. Gli scozzesi rifiutavano l'organizzazione centralizzata della Chiesa anglicana e riconoscevano nella locale parrocchia e negli organi elettivi che da questa derivavano l'unica autorità di fronte alla quale piegarsi. La chiusura e il dogmatismo ideologico del presbiterianesimo dei primi decenni del XVII secolo ricoprivano con una cappa di intolleranza e di fanatismo tutta la Scozia.

Sul piano economico-sociale prevaleva una generale arretratezza, che andava sempre più accentuandosi a mano a mano che dalle lowlands ci si spostava verso le highlands del nord. Abbandonate le colture, pochi i traffici, inesistenti ancora le attività manifatturiere, scarse le strade, difficile fra gli stessi scozzesi la comprensione linguistica, violenta la contrapposizione tra i diversi clans, accesi i contrasti religiosi e politici: unico elemento comune sembrava essere un orgoglioso attaccamento alle tradizioni nazionali e locali che, ben lontano dal favorire la coesione, giustificava spesso tendenze anarchiche.

Tuttavia, sul piano politico-amministrativo, al tradizionale predominio dei grandi clan nobiliari e feudali legati alla vecchia dinastia, si andava sostituendo un nuovo ceto di funzionari legati alla monarchia inglese e contrari alle avventure e alle ribellioni.

QUADRO CULTURALE

La cultura scozzese

Il panorama della cultura scozzese era caratterizzato tradizionalmente da un predominio indiscusso del clero presbiteriano. Il suo controllo si esercitava attraverso numerosi canali: dalla scuole parrocchiali alle università, dalla stampa al pulpito.

Al di là di poche eccezioni, e fra queste figura Hume, la cultura dell'epoca era quindi dominata e gestita, sia nelle istituzioni ufficiali (chiese, università) sia in quelle non ufficiali (clubs, società varie) quasi interamente da ecclesiastici. Gli attacchi e le critiche più duri e virulenti Hume li ricevette proprio dagli ambienti clericali scozzesi e inglesi.

Tuttavia, nelle scuole, nelle università, vennero proposte ed attuate, più o meno gradualmente, importanti riforme tendenti a realizzare un rinnovamento nei metodi e nei contenuti dell'insegnamento.

Il fatto nuovo che mise in crisi quel predominio fu la divisione creatasi all'interno della Chiesa scozzese fra rinnovatori e conservatori. Nei decenni centrali del secolo si formarono infatti due schieramenti: quello tradizionalista, che lottava per conservare il sistema elettivo dei ministri dal basso e si dichiarava contrario a ogni tipo di innovazione nelle forme organizzative e nei contenuti dell'insegnamento e della predicazione; quello rinnovatore, che accettava il nuovo sistema di nomina dei ministri dall'alto ed era favorevole alla circolazione di idee nuove e a una presenza meno ossessiva della chiesa nella vita sociale e culturale.

Molte furono le occasioni di scontro fra i due schieramenti. Quella che risultò particolarmente decisiva, nel 1755 e 1756, ebbe come oggetto del contendere le idee e la personalità di Hume. In tale occasione i rinnovatori vinsero.

La loro vittoria favorì molto il processo di laicizzazione della cultura scozzese, che acquistò in pochi anni una fisionomia radicalmente nuova, illuministica e progressista. Subito dopo quello scontro, infatti, cominciarono a essere pubblicate, a partire dal 1759, un vero anno d'oro della storia culturale scozzese, importantissime opere rinnovatrici nei diversi campi della ricerca storica e filosofica.

Hume contava molti amici, naturalmente nel settore dei rinnovatori o moderati. Lo scontro del 1755-6, avvenuto nelle assemblee generali annuali della Chiesa scozzese a Edimburgo, fece uscire allo scoperto quegli amici. Con abilità e fermezza riuscirono a rintuzzare i tentativi di prendere gravi sanzioni contro lo "scettico e ateo notorio", come Hume venne definito. Quest'ultimo, da parte sua, visse tale vicenda in maniera per niente drammatica, giacché aveva abbandonato da giovane le credenze e la pratica religiosa. Si considerava dunque estraneo alla Chiesa e quindi indifferente a eventuali sanzioni. Hume era amico degli esponenti più noti e autorevoli del settore moderato della Chiesa scozzese, ma rispetto agli scontri interni della Chiesa si tenne in disparte. I suoi amici, infatti, combattevano una battaglia di rinnovamento, ma sempre partendo dall'accettazione delle credenze religiose fondamentali, comuni anche ai loro avversari.

Hume non proponeva una interpretazione e una spiegazione diverse di quelle credenze, ma una filosofia che di fatto le negava o le riduceva a frutto di scelte soggettive e personali. Di qui la sua posizione, unica ed eccezionale nella cultura scozzese dell'epoca, di amico personale dei rinnovatori, ma non di alleato delle loro battaglie. Di qui anche il suo splendido isolamento rispetto all'insieme di quella cultura. Troppo radicalmente innovatrici per poter essere accettate allora, le sue idee avrebbero sì risvegliato Kant dal suo "sonno dogmatico"; soltanto dopo oltre un secolo avrebbero, però, dimostrato la loro fecondità e sarebbero finalmente circolate accompagnate dal riconoscimento da Hume tanto vanamente atteso durante la sua vita.

Le tendenze della cultura universitaria scozzese

In Gran Bretagna le università scozzesi erano all'avanguardia nell'approfondimento e nella rielaborazione di idee importate dai loro insegnati nel corso di viaggi di studio in Olanda, in Francia e in Italia. L'ampiezza con cui era diffusa la tradizione del viaggio in Europa - lo stesso Hume negli anni 1734-37 vi si uniformerà - era un segno evidente della volontà delle élites scozzesi di contrapporre all'orgogliosa cultura autoctona inglese una più avanzata cultura cosmopolita.

Hume e Newton

In quello scorcio di tempo le università scozzesi erano all'avanguardia anche nel riprendere e divulgare quanto la vicina Inghilterra aveva saputo creare di nuovo e originale. Così un posto centrale nell'insegnamento ricevuto da Hume al College aveva avuto la nuova fisica di Newton.

La cultura scozzese faceva propria l'eredità newtoniana, non però quella delle scoperte della filosofia della natura, ma preferendo richiamarsi alla lezione di metodo, per riflettere criticamente sulle questioni "morali". Sul piano metodologico essa non mancava di mettere in luce la conciliabilità della "nuova scienza" con il cauto empirismo gnoseologico elaborato da J. Locke nel Saggio sull'intelletto umano (1690) e con una più antica tradizione baconiana. Da quest'ottica si può cogliere l'elemento comune e di continuità tra le personalità, per altri versi così diverse, che dominano l'illuminismo scozzese: F. Hutcheson, D. Hume, A. Smith, T. Reid, ecc.

L'influenza newtoniana su Hume risulta evidente nell'introduzione al Tractatus, in cui Hume enuncia chiaramente le regole metodologiche a cui intende attenersi nella costruzione della sua "scienza dell'uomo". E' facile trovare punti di contatto con quanto Newton aveva sostenuto nelle "regole del filosofare" dei Principia e nelle "questioni" dell'Ottica. Lo scienziato deve in primo luogo basarsi solo "sull'esperienza o l'osservazione"; poi cercare di costruire un "sistema" che si sforzasse di rendere tutti i "principi" della scienza della natura umana "per quanto è possibile universali", spiegando "gli effetti con poche e semplicissime cause". Si trattava cioè di trovare nella natura umana un qualche principio o forza che svolgesse in essa la medesima funzione centrale che Newton aveva scoperto essere propria della forza di gravitazione relativamente ai corpi celesti e agli astri. Dio origine newtoniana sono anche le condizioni negative che una ricerca scientifica sulla natura umana doveva, secondo Hume soddisfare. In primo luogo andava rifiutata la "metafisica", intesa non già come una necessaria analisi sottile o profonda o come "anatomia della natura umana", quanto piuttosto come una pretesa conoscenza dei "principi primi dell'anima". La scienza dell'uomo, come la scienza della natura, non deve cioè pretendere di estendersi alle essenze o qualità occulte, ma limitarsi a rendere conto di ciò che è osservabile. Infine Hume non mancava di riproporre, malgrado la sua ambiguità, o proprio a ragione di essa, lo slogan newtoniano di opposizione alle "ipotesi", intese dal nostro autore come "congetture presuntuose e chimeriche" sulle "ultime e originarie qualità della natura umana".

Hume e Hutcheson

Hume non mancava di risentire nella sua formazione del clima della cultura scozzese del suo tempo. Negli anni che avevano preceduto quella che lui chiama la "nuova scena del pensiero", non aveva mancato di pagare il suo tributo alla chiusa e soffocante morale in cui era stato allevato, e quindi non è azzardato ipotizzare che essa altro non fosse che un nuovo modo di guardare ai problemi morali, che permettesse di dissolvere l'atmosfera di arrogante chiusura e dogmatismo caratterizzante la morale presbiteriana.

Di fronte al quadro culturale scozzese, doveva così porsi in primo piano, per il giovane Hume, la metodologia newtoniana, l'ambizioso progetto di metterla alla prova con un nuovo campo di studi, nella speranza di dissolvere i dogmi e i fantasmi con l'aiuto dei quali i fanatici volevano conservare la tradizione.

Altri stimoli dovevano poi aggiungersi a rendere più articolato e complesso il quadro e più profondo il lavoro di risistemazione dell'eredità culturale da cui nascerà il Tractatus.

Così, nel 1729, Hume aveva già avuto l'opportunità di venire a conoscenza dei tentativi fatti da F. Hutcheson, professore di filosofia morale a Glasgow, nella direzione di un approfondimento delle questioni morali che tenesse conto della nuova scienza.

Secondo l'interpretazione di N. Kemp Smith, la filosofia di Hume nasce da una ricerca sui principi della morale e dall'estensione ai giudizi di esistenza della teoria di Hutcheson sui giudizi morali. Hutcheson aveva detto che i giudizi di valore (estetici e morali) non sono fondati su una evidenza oggettiva, ma su un sentimento: Hume ha applicato questa teoria anche ai giudizi di esistenza. La dottrina di Hume è quindi, secondo questa interpretazione, una dottrina del primato del sentimento, ed è espressa sinteticamente in questa frase: "la ragione è, e deve essere la schiava delle passioni" (Trattato, II, III, 3).

Smith giustifica la sua interpretazione anche con due argomenti estrinseci: una nota all'introduzione al Trattato e una lettera di Hume. Nella nota alla introduzione del Trattato Hume cita come suoi predecessori, nel nuovo modo di studiare la natura umana, Locke, Shaftesbury, Mandeville, Hutcheson, Butler etc. Ora, eccezion fatta per Locke, gli autori citati sono tutti moralisti, e moralisti che assegnano una base non-razionale alla morale. Nella lettera del 1734 al suo medico, Hume parla della "nuova scena di pensiero" che gli si aprì a diciott'anni. In questo periodo aveva letto molti libri di morale: Cicerone, Seneca, Plutarco. Dopo queste letture, maturò l'orientamento definitivo della sua ricerca filosofica: "Trovai che la filosofia morale tramandataci dall'antichità soffre del medesimo difetto di cui soffre la filosofia naturale degli antichi, quello cioè di essere del tutto ipotetica e di dipendere più dall'invenzione che dall'esperienza. Ognuno consulta la propria fantasia nel costruire gli schemi della virtù e della felicità, senza badare alla natura umana, dalla quale dipende in primo luogo ogni conclusione morale. Presi quindi la risoluzione di fare di questa [la natura umana] il mio principale oggetto di studio e la fonte dalla quale trarre ogni verità in fatto di critica [ossia di estetica] e di morale".

Dunque il problema centrale di Hume, quello dal quale nasce il Trattato, è il problema morale. Dalla soluzione data a questo dipenderà anche quella data al problema della conoscenza.

Vediamo i momenti principale dell'influenza di Hutcheson su Hume:

1) proprio alla mediazione di Hutcheson è da farsi risalire l'accettazione da parte di Humme della gnoseologia presentata da Locke nel Saggio sull'intelletto umano (1690); sarà infatti la terminologia di Hutcheson, erede di Locke, che Hume riprenderà nelle classificazioni delle percezioni offerte nel Trattato e nell'accettare l'assunzione di base che la propria ricerca sperimentale andava confinata ai dati forniti dalla sensazione e dalla riflessione, uniche facoltà in grado di fornire percezioni originali;

2) era ancora le pagine di Hutcheson a convincere Hume ad accettare la teoria che indicava nel senso morale il fondamento della distinzione tra bene e male, a schierarsi cioè con Shaftesbury e Hutcheson contrapponendosi a quei filosofi che teorizzavano un'origine intellettuale della morale. Hume, colpito dalla soluzione hutchesoniana, che fondava le distinzioni morali su di un peculiare senso o sentimento che suggerisce istintivamente e immediatamente agli uomini dov'è il bene, estendeva questa scoperta anche al piano gnoseologico. Il Trattato in tutte le sue parti sviluppava sistematicamente un'unica tesi e cioè che tutte le certezze umane, siano esse intellettuali e morali, trovano il loro fondamento non già nella ragione, ma in una sorta di istinto acquisito mediante l'abitudine. E' questo istinto che ora spinge ad aderire in modo immediato e certo ad una credenza naturale ed ora spinge ad approvare con sicurezza un certo carattere o azione considerandole virtuose;

3) in Hutcheson, infine, Hume trovava già un'utilizzazione dello studio della natura umana ai fini della costruzione di un'etica mondana, del tutto esente da ingerenze teologiche, meno rinunciataria e ascetica di quella presbiteriana pur senza cadere negli eccessi di quei teorici della'amore di sé che, come Hobbes e Mandeville, nel tentativo di studiare la natura umana al di fuori di considerazioni edificanti e religiose, avevano finito con il negare la presenza in essa di azioni e motivazioni altruistiche.

ITER BIOGRAFICO E INTELLETTUALE

L'attività intellettuale di Hume si può dividere grosso modo in 3 periodi, ciascuno di circa dieci anni.

1) Il primo, dal 1729 al 1739-40, è quello dedicato alla preparazione e alla pubblicazione della grande opera giovanile, il Trattato sulla natura umana.

2) Il secondo, dal 1741 al 1751, vede un estendersi dei suoi interessi, documentato dalla pubblicazione dei diversi volumi di Saggi morali e politici, e una ripresa dei temi del Trattato, ripresentati in forma saggistica in due opere fortunate: Saggi filosofici sull'intelletto umano nel 1748 (il cui titolo diventerà dal 1758 Ricerca sull'intelletto umano) e la Ricerca sui principi della morale nel 1751 (a questo stesso anno risale la prima stesura dei Dialoghi sulla religione naturale, pubblicati postumi).

3) Il terzo periodo, dal 1751 al 1762, è dedicato quasi esclusivamente ai temi politici e storiografici, affrontati rispettivamente nei Discorsi politici del 1752 e nei sei volumi della Storia di Inghilterra dal 1754 al 1762.

+ 1711 Nasce a Ninewells in una famiglia di piccola nobiltà. Non essendo primogenito non ereditò il titolo e il grosso della proprietà.

+ 1721-26 Periodo di studi all'università di Edimburgo. La precocità degli studi universitari è dovuta al fatto che le università scozzesi equivalevano come fascia di scolarizzazione alle nostre scuole medie superiori.

+ 1729 Mentre la famiglia lo spingeva alla professione di avvocato, Hume di dedica invece agli studi letterari e filosofici, e nel 1729 matura l'esigenza di "cercare una nuova via attraverso cui provare la verità". Egli ritiene che la strada maestra per arrivare alla soluzione dei problemi fondamentali della conoscenza e della morale sia l'indagine sulla natura umana. Si apre quindi per Hume "una nuova scena di pensiero".

+ 1729-39 Dieci anni separano quella specie di "illuminazione" descritta nella lettera e la pubblicazione del Trattato sulla natura umana. In questi dieci anni Hume legge le opere dei filosofi più recenti, inglesi e francesi. Per la conoscenza di questi ultimi gli sarà molto utile il soggiorno di tre anni in Francia (1734-7), presso La Flèche, sede di un famoso collegio gesuita fornito di una biblioteca ricchissima. Concluso il soggiorno francese, durante il quale probabilmente scrisse il Trattato, Hume andò a Londra, dove rimase dal 1737 al 1739. Qui riuscì a trovare un editore per l'opera, dopo averla però notevolmente tagliata, anche dietro suggerimento di autorevoli amici, nelle parti più radicalmente nuove. Infatti, nel 1737, in una lettera ad un amico, dichiarava di voler eliminare dall'opera la parte "troppo offensiva" sui miracoli. Nonostante i tagli, tuttavia, l'opera mantenne i caratteri di rottura nei confronti della tradizione filosofica e, indirettamente, di quella religiosa.

+ 1739 I primi due libri del Trattato sulla natura umana, dedicati rispettivamente all'analisi dell'intelletto e delle passioni, apparvero anonimi a Londra. Il terzo libro, dedicato all'analisi della morale, vide la luce alla fine del 1740.

Le attese di Hume furono presto deluse. Il libro non suscitò, almeno pubblicamente, molto interesse. Gli amici di Hume non fecero nulla per favorire un dibattito pubblico sulle idee espresse nel Trattato. Quelle idee, d'altra parte, non potevano accettarle, data la loro radicalità. Vi fu invece qualche isolato e violento attacco da parte di esponenti della Chiesa ufficiale, che diedero in tal modo origine alla fama di "scettico e ateo notorio" destinata ad accompagnare per decenni l'autore del Trattato. Anche la diffusione dell'opera risultò molto scarsa, e fu, delle tante pubblicate da Hume, l'unica che non venne mai ristampata durante la sua vita.

+ 1740 Hume tentò di richiamare l'attenzione del pubblico dando alle stampe un breve Estratto del Trattato sulla natura umana, apparso anch'esso anonimo (solo di recente l'Estratto è stato attribuito con certezza a Hume). Vi indicava i punti fondamentali dell'opera e sottolineava le novità e le vere e proprie scoperte contenute nel Trattato. Ma neppure la pubblicazione dell'Estratto riuscì a cambiare le sorti dell'opera giovanile.

+ 1744-5 Tentò, senza riuscirvi, di ottenere una cattedra di filosofia all'università di Edimburgo. L'insuccesso fu dovuto alla pessima fama che si era attirato con il Trattato.

+ 1748 Hume dava alle stampe, col titolo di Saggi filosofici sull'intelletto umano, un volume che riprendeva in forma di saggi e non di trattato le principali idee del primo libro del Trattato e che avrebbe suscitato molto interesse e un vasto dibattito negli anni successivi. Ciò spinse Hume a completare la ripresentazione in forma di saggi del Trattato.

+ 1751 Pubblicò così la Ricerca sui principi della morale, ispirata agli ultimi due libri dell'opera giovanile. Entro il 1751 Hume elaborò e scrisse, anche se allora non dette alle stampe, per prudenza, i Dialoghi sulla religione naturale. Li riprese in mano pochi mesi prima di morire, decidendo di farli pubblicare due anni dopo la sua morte. I Dialoghi apparvero solo nel 1779 e in un certo senso concludono la grande stagione teorica della vita di Hume. Dopo quella data, infatti, gli interessi di Hume si concentrarono quasi esclusivamente sugli studi politici e soprattutto storici.

+ 1751-2 Dopo un secondo tentativo fallito di ottenere una cattedra all'università di Glasgow, Hume accetta con entusiasmo il posto di bibliotecario della Facoltà degli Avvocati presso l'università di Edimburgo, forse nella prospettiva di utilizzarne la ricchissima biblioteca per le sue nuove ricerche attinenti alla politica e alla storia. Durante il soggiorno a Edimburgo diviene segretario della Philososphical Society e stringe amicizia con Adam Smith e Thomas Reid.

+ 1752 Pubblica un fortunato volume di Discorsi politici. Negli anni seguenti comporrà poi una completa Storia d'Inghilterra, che gli procurerà fama ed agiatezza economica.

+ 1755-6 Le accuse rivoltegli dagli ambienti clericali sfociarono in una precisa richiesta di condanna ufficiale nelle assemblee generali della Chiesa ad Edimburgo. Grazie anche all'appoggio dei suoi amici, prevalsero i rinnovatori.

+ 1757 In quegli anni Hume dava un'altra prova di radicalità e spregiudicatezza pubblicando, dopo dubbi e incertezze, Quattro dissertazioni. La prima, la più lunga, dal titolo già di per sé molto indicativo Storia naturale della religione, riconduceva l'origine e la storia della religione a motivi naturali e psicologici. Conteneva inoltre numerose e irriverenti argomentazioni nei confronti dei più noti dogmi della religione cristiana. Suscitò, ovviamente, critiche e accuse violentissime da parte di diversi ambienti clericali, e certamente provocò qualche imbarazzo agli amici moderati di Hume, che non condividevano la radicalità e la spregiudicatezza delle sue idee, soprattutto in materia religiosa.

+ 1763-66 Hume fa il suo secondo trionfale soggiorno francese. La fama che circondava i suoi scritti era maggiore in Francia che nel suo paese. Le opere che tuttavia venivano apprezzate di più non erano quelle strettamente filosofiche ma quelle di costume, politiche, economiche e storiografiche. Hume ricevette una calorosa accoglienza nei diversi circoli culturali e salotti illuministici a Parigi e dintorni.

+ 1766 Ritornato a Londra, Hume cerca di trovare protezione e aiuti finanziari per Jean Jacques Rousseuau (1712-1778), che ha abbandonato il solitario e povero rifugio svizzero per raggiungere Hume. Ma l'ombroso Rousseau vede dappertutto dei persecutori e lascia Londra, accusando ingiustamente lo stesso Hume.

+ 1767-8 Occupa l'influente, prestigiosa e molto redditizia carica di Sottosegretario di Stato.

+ 1776 La morte lo colse serenamente ad Edimburgo, accanto al suo amico Adam Smith (a cui affidò, ricevendone un rifiuto, la pubblicazione dei Dialoghi sulla religione naturale), passando i suoi ultimi giorni a leggere i Dialoghi di Luciano e rifiutando le consolazioni offerte dalla religione.

ASPETTO ANALITICO E SISTEMATICO

Le idee e la loro associazione

Hume è convinto che si debba partire dalla scienza dell'uomo, in quanto da questa dipendono tutte le altre. Per far ciò è necessario cercar di conoscere a fondo i poteri dell'intelletto umano, il materiale su cui opera e i tipi di operazione che vengono compiuti nei ragionamenti umani.

Tale materiale è rappresentato dalle cosiddette "percezioni", le quali si suddividono in "impressioni", che concernono la sfera del sentire, e in "idee", che concernono la sfera del pensare.

Nella nostra mente non c'è altro. Tutte le forme della nostra esperienza possono essere ridotte all'uno o all'altro tipo di percezioni.

Nel caso dell'impressione siamo nella sfera del sentire, cioè usiamo uno o più dei nostri sensi. Nel caso dell'idea siamo nella sfera del pensare, cioè non stiamo usando i nostri sensi, ma la memoria o l'immaginazione.

C'è però un'altra caratteristica che Hume considera rilevante: sia le impressioni che le idee possono essere o semplici o complesse. Questa distinzione svolge un ruolo fondamentale nella individuazione del primo principio generale della natura umana. Il principio viene così formulato:

"Tutte le idee semplici, al loro primo presentarsi, derivano dalle impressioni semplici corrispondenti e le rappresentano esattamente".

Con questo principio, Hume afferma che le impressioni si presentano sempre prima, rispetto alle idee ad esse corrispondenti. Ma afferma anche che noi non possiamo creare idee con la nostra attività mentale. Le nostre idee sono sempre riducibili, in ultima nalisi, alle impressioni semplici originarie, di cui quelle sono soltanto delle copie meno vivaci, illanguidite. Certo, posso pensare a oggetti immaginari, che come tali non si sono mai presentati tramite i miei sensi. Ma le idee semplici con le quali costruisco mentalmente l'immagine di quegli oggetti immaginari non sono affatto create dal nulla; sono copie di impressioni semplici.

All'origine di qualsiasi idea, quindi, ci sono le impressioni. Quanto alle idee, se nella nostra mente compaiono nell'ordine e nella forma delle impressioni originarie, allora le stiamo ricordando; stiamo usando cioè la memoria. Se invece compaiono in un ordine e in una forma diverse, allora stiamo usando l'immaginazione.

Da queste ultime considerazioni sulla distinzione molto chiara tra l'operare della memoria e quello dell'immaginazione Hume ritiene di poter indicare il secondo princio generale della natura umana. Esso consiste nella "libertà dell'immaginazione di trasporre e cambiare le sue idee".

All'operare di un tale principio si devono i progressi della nostra conoscenza. Quest'ultima infatti, senza la libertà di immaginazione si ridurrebbe a una pura registrazione e conservazione, da parte della memoria, delle idee secondo l'ordine del loro primo presentarsi come impressioni. L'immaginazione ha una funzione attiva, creativa, rispetto alle idee immagazzinate nella mente. La memoria, al contrario, ha una funzione passiva, di semplice conservazione.

Ma, si domanda a questo punto Hume, l'operare della immaginazione è libero nella maniera più completa? L'immaginazione, cioè, agisce in modo del tutto imprevedibile e immotivato? L'esperienza ci risponde di no. Se l'immaginazione operasse in maniera assolutamente arbitraria, infatti, non sarebbe possibile per gli uomini parlarsi e comprendersi, come invece avviene. Ma se avviene che gli uomini riescono a comprendersi, vuol dire che nel comporre o scomporre le idee, da parte della mente che usa l'immaginazione, entra in funzione un qualche principio regolatore.

Da tale osservazione, egli ritiene che sia possibile ricavare un terzo principio generale della natura umana, il principio di gran lunga più importante: quello che gli chiama principio della connessione o associazione delle idee.

Si tratta di un principio universale in base al quale la nostra esperienza e la nostra conoscenza evitano l'arbitrio ed il caos più completi. Ciò non significa tuttavia che questo principio abbia un carattere rigidamente costrittivo. L'associazione o la connessione sono libere, così come è libera l'immaginazione. Tuttavia essa subisce una spinta a volgersi in un senso piuttosto che in un altro. Questa spinta nei confronti dell'immaginazione proviene per Hume, e l'esperienza ce lo mostra a ogni momento, da una "dolce forza" presente e operante in maniera connettiva o associativa fra le idee stesse. Per Hume "la natura stessa sembra indicare a ognuno le idee semplici più adatte ad essere riunite in idee complesse. Le proprietà che danno origine a questa associazione e fan sì che la mente venga trasportata da un'idea all'altra sono tre: Rassomiglianza, Contiguità nel tempo e nello spazio, Causa ed Effetto". Con una ardita analogia e richiamandosi indirettamente a Newton e alla scoperta delle leggi dell'attrazione universale, Hume fa rilevare, a livello dell'immaginazione, la presenza di "una specie di Attrazione", le cui cause, per lo più sconosciute, sono da considerarsi come "proprietà originarie della natura umana".

Perché Hume annette tanta importanza alla scoperta del principio di associazione delle idee?

1) Una prima ragione risiede essenzialmente nel fatto che ricorrendo ad esso, non risultava più necessario ricorrere a presunte cause ultime per spiegare le operazioni della mente sulle idee. Tale principio rendeva superflua al ricerca delle cause ultime, che fino allora erano state indicate in Dio o nella natura o in qualche segreta essenza del nostro io. Il principio di associazione afferma che la "dolce forza" in virtù della quale noi operiamo sulle idee è presente fra le idee stesse; e tanto basta per spiegare l'operare, insieme libero e non, della nostra immaginazione. E l'immaginazione è per Hume la facoltà mentale di gran lunga più importante della nostra esperienza. Una facoltà superiore alla stessa ragione, che agisce soltanto al servizio della immaginazione (come pure, sul piano morale, al servizio delle passioni).

2) La scoperta del suddetto principio, inoltre, viene considerata da Hume tanto importante, anche perché è stata fatta col metodo sperimentale; attraverso cioè l'osservazione dell'esperienza umana e la riflessione sui modi in cui la mente opera in tale esperienza. Non c'è stato alcun bisogno di far ricorso alla Rivelazione, all'Autorità, alla Tradizione.

Hume, quindi, ritiene di avere scoperto tre principi generali che stanno o debbono stare a fondamento di una scienza della natura umana:

a) il principio della priorità delle impressioni sulle idee;

b) quello della libertà della immaginazione (contrapposta alla non-libertà della memoria);

c) e quello, tra tutti il più importante, della associazione delle idee tramite le proprietà della somiglianza, della contiguità spaziale e temporale, della causa e dell'effetto.

Critica di alcune idee che non sono idee

Le idee generali o astratte

Uno dei punti fermi della tradizione filosofica che Hume sottopone a spietata critica era quello che affermava l'esistenza di idee astratte o generali nella nostra mente. Esse vengono concepite in corrispondenza, nel linguaggio, ai nomi comuni. Questi ultimi indicano non solo un singolo oggetto, ma un'intera categoria; nella mente perciò, si diceva, deve essere presente un'idea astratta che non si riferisca alle caratteristiche individuali del singolo oggetto. Berkeley, tuttavia, aveva rifiutato questa tesi tradizionale, affermando che le idee presenti nella mente sono tutte particolari, individuali. Generale, quindi, non è affatto l'idea, ma la parola che usiamo. Hume fa esplicito riferimento a Berkeley, su questo problema, e giudica la scoperta berkeleyana "una delle maggiori e più importanti". Hume passa poi a proporre alcune argomentazioni ed esemplificazioni per rafforzare tale scoperta ed inquadrarla nella sua filosofia. In particolare, sono due le proposizioni che Hume intende dimostrare.

1) La prima afferma che "è assolutamente impossibile concepire una quantità o una qualità senza formarci una nozione precisa del loro grado".

2) La seconda afferma che "possiamo formarci una nozione di tutti i possibili gradi di quantità e di qualità".

Sulla particolarità dei concetti, tuttavia, Hume opera una innovazione rispetto a Berkeley. L'idea in sé stessa è sempre particolare, ma l'abitudine le fa svolgere una funzione di idea generale. E l'abitudine è questa: quando riscontriamo una somiglianza fra diversi oggetti diamo a tutti un solo nome, senza tener conto delle loro differenze di quantità e di qualità. Quindi, "un'idea particolare diventa generale col venire unita ad un termine generale".

Le idee di spazio e di tempo

Una delle prime applicazioni della tesi dell'impossibilità di formare idee generali riguarda i problemi dello spazio e del tempo, della loro divisibilità o meno all'infinito e della loro specifica natura. Nell'analisi di tali problemi Hume fa operare anche il primo principio della natura umana: quello cioè della priorità delle impressioni sulle idee.

Tutti riconoscono, egli scrive, che la capacità della mente è limitata. Ora una divisibilità infinita dello spazio e del tempo, per poter essere concepita, pensata, immaginata, deve presupporre invece una capacità illimitata e infinita della mente. Dato che non è così ne consegue "che la divisione delle idee arriva a un termine ultimo", sia per lo spazio che per il tempo.

Hume, inoltre, riguardo alla natura dello spazio e del tempo, contrariamente alle più correnti e comuni concezioni in merito, sostiene che le idee corrispondenti non hanno alcun carattere di generalità, data l'impossibilità di ammettere qualsiasi idea generale.

L'idea dello spazio, dell'estensione, come tutte le altre idee è copia di un'impressione particolare: "non è altro che la copia di questi punti colorati e del loro modo di apparire". Qualcosa di analogo vale per il tempo.

La mente, quindi, non può avere idee di spazio e tempo vuoti, privi di contenuti percettivi. Sono invece i contenuti percettivi che, pensati in una certa maniera, determinano il presentarsi delle idee di spazio e di tempo: "Le idee di spazio e di tempo non hanno, quindi, un'esistenza separata e distinta, ma sono semplicemente le idee della maniera o dell'ordine con cui esistono gli oggetti".

Le idee di esistenza e di esistenza esteriore

Il punto di partenza dell'analisi di tale presunta idea è il primo dei tre principi individuati nel Trattato, quello che afferma la priorità delle impressioni sulle idee. Ora, sottolinea Hume, noi consideriamo ovviamente esistenti tutte le impressioni e le idee che ci si presentano o ci formiamo attraverso l'attività della nostra mente. Ma che cosa vuol dire attribuire l'esistenza alle impressioni o alle idee? "L'idea di esistenza [...] è la stessa cosa dell'idea di ciò che concepiamo esistente. Non c'è differenza tra riflettere sopra una cosa semplicemente e riflettere su essa come esistente: quell'idea, unita all'idea di un oggetto, non aggiunge nulla. Qualunque cosa concepiamo, la concepiamo come esistente". L'idea di esistenza, quindi, non è propriamente un'idea, in quanto non corrisponde a nessuna impressione dalla quale sia derivata.

Un discorso analogo, ma con conseguenze di portata ben più vasta, viene proposto in relazione all'idea di esistenza esterna. All'inizio e alla fine del Trattato Hume afferma che l'unico materiale su cui opera la nostra mente sono le percezioni e che quindi appare impossibile uscire dal nostro mondo percettivo, dato che tutto il mondo è soltanto l'insieme delle mie percezioni.

Eppure, osserva Hume riprendendo l'argomento nelle parti conclusive del primo libro del Trattato, tutti noi ammettiamo che esistono dei corpi fuori di noi, che continuano ad esistere anche quando non li percepiamo, che la loro esistenza è distinta, indipendente, dalla nostra esistenza e dalle nostre percezioni. Ora, dal punto di vista filosofico, non è possibile stabilire se tali ammissioni sull'esistenza continuata e distinta dei corpi esterni siano fondate o meno. Di fronte a questi due punti di vista, Hume si propone di rispondere non alla domanda "se i corpi esistono o no", ma alla domanda "quali sono le cause che ci inducono a credere nell'esistenza dei corpi". La prima domanda, infatti, dal punto di vista della filosofia di Hume, non ha alcun senso, se per "corpi" s'intendono oggetti che esistono al di là delle nostre percezioni.

Hume passa quindi a chiedersi se le opinioni sulla esistenza continuata e distinta dei corpi siano prodotte dai sensi, dalla ragione, o dalla immaginazione.

Per Hume è immediata l'esclusione dei sensi, che, in quanto portatori di impressioni, non possono andare al di là di esse e distinguere fra noi stessi e gli oggetti della nostra percezione.

Da escludere anche la ragioone, che Per Hume può soltanto analizzare le nostre percezioni e non può creare nulla di nuovo.

A questo punto, resta solo l'immaginazione. Secondo Hume è proprio l'immaginazione, e solo essa, che produce in noi l'opinione dell'esistenza continuata e distinta dei corpi. E' l'immaginazione che nella sua relativa libertà, e spinta dalla "dolce forza" che sollecita ad associare le idee, fa nascere in noi la nozione di un'esistenza continuata e distinta dei corpi.

Come succede una tal cosa, che è così contraria a quanto dicono i sensi e la ragione? La tesi di Hume è che la immaginazione viene spinta a credere in una "doppia esistenza" (percezioni e oggetti esterni) dalle caratteristiche di costanza e di coerenza che accompagnano alcuni tipi di percezione. Di quelle percezioni cioè che non si riferiscono alla sfera delle emozioni ma appunto ai cosiddetti oggetti.

A questo punto incontriamo un altro concetto chiave della filosofia di Hume, quello di abitudine. Dall'abitudine a riscontrare questi elementi di costanza e di coerenza, seppure relative, l'immaginazione viene spinta a connettere alcuni insiemi di impressioni e a considerarli stabili e permanenti, nonostante che ai nostri sensi si presentino in maniera intermittente. Da qui nasce prima l'opinione della continuata esistenza dei corpi e in seguito quella della loro distinta esistenza.

Per Hume, tuttavia, noi non soltanto formiamo la finzione della continuata esistenza, ma ci crediamo, nonostante questo frutto dell'immaginazione contrasti con la verità della ragione. Di fronte a questa palese contraddizione la nostra natura ci vieta di scegliere, portandoci invece ad accettare questo "mostruoso connubio di due principi opposti". L'alternativa sarebbe il più completo solipsismo, cioè affermare come reale solo l'esistenza del soggetto individuale, riducendo il mondo esterno a sole percezioni.

Già in queste argomentazioni Hume attribuisce alla immaginazione un ruolo costruttivo contrastante con quello inevitabilmente scettico-distruttivo della ragione o riflessione.

L'idea dell'io, o dell'identità personale

Anche nell'analisi critica della cosiddetta idea dell'io Hume arriva a conclusioni nettamente contrastanti con la tradizione filosofica antica e sua contemporanea oltre che con le varie forme della tradizione teologica. Quale che fosse il nome utilizzato, filosofi e teologi erano stati accomunati per molti secoli dalla accettazione pressoché indiscussa della tesi dell'esistenza di un io personale, individuale. A questa tesi erano giunti se erano partiti dalla tesi dell'esistenza di un Dio. O addirittura, da Cartesio in poi, erano partiti nella loro filosofia proprio dalla tesi iniziale dell'esistenza di un io.

Hume sostiene invece che non c'è affatto un'idea dell'io. Sostiene inoltre che la negazione dell'idea dell'io non è contraria all'esperienza comune, ma che al contrario è documentata e confermata da questa esperienza. Anche in questo caso, nelle argomentazioni utilizzate per negare l'idea in questione, Hume si rifà ai tre principi generali della natura umana individuati ed esposti all'inizio dell'opera.

Per Hume non c'è nessuna impressione che produca l'idea dell'io come qualcosa di stabile e permanente (parallelo al cosiddetto oggetto esterno). Le nostre impressioni ed idee non possiedono affatto il carattere di permanenza e stabilità, sono separate e isolate l'una dall'altra, esistono soltanto quando sono presenti alla mente, sentite o pensate. La riflessione su noi stessi, l'analisi razionale condotta sulle nostre percezioni, ci portano quindi a negare radicalmente la possibilità di un'idea dell'io così come viene comunemente intesa dai filosofi. "Noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso o movimento". Tuttavia, anche qui, come nel caso della presunta idea di esistenza esteriore, abbiamo a che fare con due elementi contrastanti:

1) quello della ragione, la quale nega radicalmente la possibilità dell'idea di identità personale;

2) quello dell'immaginazione, la quale sotto la spinta di una "inclinazione naturale" produce una nozione di identità personale.

Anche riguardo a quest'ultima, l'immaginazione procede allo stesso modo in cui procede nel caso dell'esistenza esteriore degli oggetti. Essa è spinta, dalla "dolce forza" presente fra le idee, a porre queste ultime in una determinata relazione costante e a trasformare questa relazione in identità.

Nella produzione della nozione di identità personale Hume associa all'immaginazione la memoria. Infatti quest'ultima svolge un ruolo indispensabile in aiuto all'immaginazione.

Nella costruzione della nozione di identità personale, secondo Hume svolgono una funzione determinante le proprietà della somiglianza e soprattutto della causalità. Per entrambe risulta indispensabile l'azione della memoria, la quale "non soltanto scopre l'identità, ma contribuisce anche alla sua produzione, producendo fra le percezioni il rapporto di somiglianza". Essa inoltre fa si che abbiamo pure la nozione di causalità, mantenendo quel concatenamento di causa ed effetto che esiste tra le nostre impressioni e le nostre idee e in genere tra i pensieri che si avvicendano nella nostra mente. Le azioni della memoria e dell'immaginazione, pur essendo coordinate, sono tuttavia divise e differenti: la memoria collega le percezioni in conformità alle proprietà della loro somiglianza e soprattutto del rapporto di causalità. E' però l'immaginazione che unifica, proiettandole anche nel futuro (cosa che la memoria non può fare), le percezioni così collegate, producendo in tal modo l'identità personale.

L'idea di causa ed effetto

La causalità è una delle tre proprietà (le altre due sono la somiglianza e la contiguità) che costituiscono il terzo principio generale della natura umana, quello dell'associazione delle idee. All'interno di tale principio, la causalità svolge un ruolo decisivo sia in relazione al nostro sapere sia in relazione alla nostra condotta. Rispetto a tutte le altre possibili relazioni fra le idee, infatti, "la causalità è la sola che possa spingersi al di là dei sensi e informarci dell'esistenza di oggetti che non vediamo né sentiamo". D'altra parte "le passioni sono connesse con gli oggetti e tra loro, non altrimenti che i corpi esteriori: sì che il rapporto di causalità è lo stesso nell'un caso e nell'altro". Senza la causalità non potremmo pensare gli oggetti e il loro comportamento al di là dei momenti in cui li percepiamo; senza la causalità non potremmo spiegarci il nostro stesso comportamento pratico.

Anche per il tema della causalità le soluzioni proposte da Hume si differenziano profondamente e radicalmente da quelle correnti ai suoi tempi. Quei filosofi e teologi che consideravano la natura come avente in se stessa la capacità del movimento consideravano, conseguentemente, la causalità insita nei poteri e nell'essenza stessa della natura. Altri che giudicavano invece la natura come pura estensione, priva del potere e della forza di movimento, individuavano in Dio la fonte della causalità, cioè del movimento della natura sottoposto a precise leggi. Tutti, comunque, concordavano sul fondamento oggettivo (naturale o divino) del rapporto di causalità. Hume rovescia l'opinione prevalente: il fondamento del rapporto di causalità è infatti da lui individuato nel soggetto e non negli oggetti. Non solo, ma la fonte di tale rapporto non è indicata nella ragione, ma nell'immaginazione congiunta all'abitudine. E' un nuovo colpo alle concezioni filosofiche prevalenti che privilegiavano la ragione come fonte di conoscenza in tutti i campi del sapere.

Che cos'è quella che comunemente chiamiamo idea della causalità? E' quell'idea, osserva Hume, in base alla quale abbiamo la certezza che all'esistenza o all'azione di uno o più oggetti è seguita o ha preceduto, e continuerà necessariamente a seguire o a precedere, un'altra esistenza o un'altra azione. E' un'idea, perciò, che, come quella dell'identità, va al di là delle impressioni dei sensi e della loro sfera in generale. Si pone pertanto il problema della sua origine.

Hume esclude subito che l'idea di causalità possa derivare da una impressione che si riferisca agli oggetti che chiamiamo cause ed effetti. Ora, si domanda Hume, quali sono le caratteristiche che accompagnano sempre quello che viene comunemente chiamato un rapporto di causalità? La risposta è che le caratteristiche considerate da tutti come essenziali perché sussista una relazione di causalità sono le tre seguenti:

1) il rapporto di contiguità;

2) il rapporto di priorità o successione costante;

3) il rapporto di connessione necessaria, il quale per Hume "ha un'importanza ben maggiore dei due precedenti. Esso, infatti, sta proprio all'origine della nozione di causalità, in quanto ci porta a ritenere che la contiguità e la successione costante fra l'oggetto-causa e l'oggetto-effetto si verificheranno sempre e necessariamente. La risposta alla domanda sull'origine e sulla natura dell'idea di causalità, dovrà venire fuori dall'analisi della nozione di connessione necessaria.

Se analizziamo la nostra esperienza, ci rendiamo conto che attraverso i sensi, la memoria e l'abitudine, stabiliamo una relazione di congiungimento costante tra causa ed effetto. E' ancora assente, da questa relazione, il carattere di necessità, quello che a noi interessa maggiormente. Dal congiungimento costante de due noi inferiamo, cioè deduciamo l'un dall'altro. In ultima istanza, la connessione necessaria che cerchiamo si fonda proprio su tale inferenza e non viceversa. Egli vuol dire in sostanza questo: non c'è affatto, fra gli oggetti della nostra esperienza, una connessione necessaria che noi constatiamo e che quindi costituisce la base delle nostre inferenze (deduzioni) di tipo causale. Al contrario, il fatto che noi inferiamo spinti dall'abitudine e dall'immaginazione, l'esistenza di un oggetto come conseguenza necessaria dell'esistenza di un altro oggetto precedente e contiguo costituisce l'unica fonte della nozione di connessione necessaria e quindi della causalità. E' il soggetto che istituisce la relazione di connessione necessaria; non la troviamo affatto bell'e pronta furi di noi, fra gli oggetti. Il soggetto, tuttavia, stabilisce una connessione di tipo causale solo in presenza di condizioni ben determinate: vale a dire la costanza e il ripetersi regolare dei rapporti di contiguità, di successione e unione costanti. L'inferenza aggiuntiva, che istituisce la relazione di causalità, naturalmente per Hume, è dovuta all'immaginazione e non alla ragione.

La relazione di causalità, allora, non è propriamente un'idea, poiché non c'è un'impressione corrispondente che l'abbia preceduta. E' invece il risultato dell'operare della immaginazione in condizioni ben determinate.

L'idea di credenza

La credenza è per Hume quella maniera di percepire, in base alla quale le cose che percepiamo le consideriamo davvero esistenti e non fantastiche, immaginarie, frutto di sogni o allucinazioni.

La credenza è legata alla vivacità delle impressioni originarie dei sensi e alla fedeltà con cui vengono pensate come idee dalla memoria. Io credo nell'esistenza di un oggetto, quando lo penso, perché sto riproducendo con la memoria, fedelmente, a livello di idee le impressioni originarie. Se invece, con l'immaginazione, liberamente unisco parti di quelle idee a costruire un'altra idea, a questa non si unisce, naturalmente la credenza. Tuttavia, osserva Hume, "la credenza nell'esistenza non aggiunge nessuna nuova idea a quelle che compongono l'idea dell'oggetto". La credenza, quindi, non sembra essere un'idea. Essa sembra invece risiedere nel modo in cui concepiamo un'idea. Essa, infatti, "può dare alle nostre idee soltanto una forza e vivacità nuova" e "può essere definita esattamente come un'idea vivace, relativa o associata, ad un'impressione presente". Il credere, quindi, è un modo di formare un'idea caratterizzato da una particolare forza e vivacità. Un ruolo fondamentale, nell'atto di credenza, è svolto dall'abitudine, la quale "agisce prima che abbiamo il tempo di riflettere"; ci fa credere o non credere, appunto, all'esistenza di un oggetto che pensiamo, o a quella di un oggetto al quale ci rinvia una determinata impressione.

Conclusioni

Alla luce della critica humiana, le nostre più comuni convinzioni, che per molti filosofi erano certezze indubitabili, non superano l'esame della ragione. Tuttavia, Hume, in un breve paragrafo dedicato alla distinzione fra conoscenza e probabilità, metteva al riparo dalla critica l'algebra e la matematica. Le definiva anzi come "le sole scienze nelle quali possiamo muoversi attraverso una serie di ragionamenti anche molto intricati con perfetta esattezza e certezza". In quelle scienze, infatti, la ragione si limita a registrare tipi di relazioni fra le idee "dipendenti interamente dalle idee messe a confronto".

Ma aparte l'eccezione dell'algebra e dell'aritmetica, in tutti gli altri campi del sapere e dell'esperienza la ragione svolge un ruolo in ultima analisi negativo, se opera da sola: porta cioè a conclusioni apertamente e totalmente scettiche. Soltanto al servizio dell'immaginazione, cioè soltanto se viene usata in funzione strumentale e subalterna, la ragione può essere di grande utilità. L'immaginazione, infatti, ci costringe a credere, la ragione ci costringe a cadere nello scetticismo.

Se dunque è questo il rapporto fra ragione e immaginazione, che cosa conosciamo allora, e come?

Con la ragione conosciamo soltanto le relazioni di idee che costituiscono le scienze dell'algebra e dell'aritmetica. Con l'immaginazione (aiutata dai sensi, dalla memoria, dall'abitudine e dalla ragione) conosciamo tutto il resto. In particolare conosciamo i rapporti causali fra gli oggetti, oltre agli oggetti stessi e a noi stessi. Ma la conoscenza prodotta dall'immaginazione è di tipo diverso da quella prodotta dalla ragione, che si limita all'aritmetica e all'algebra. L'immaginazione non può produrre una conoscenza certa, evidente, quale risulta essere quella delle scienze suddette. La conoscenza prodotta dall'immaginazione è probabile e in molti casi molto probabile, quasi certa.

Un'altra importante differenza tra l'immaginazione e la ragione riguarda le loro rispettive pretese nella ricerca delle cause. La ragione, operando al di fuori delle scienze matematiche, aveva sempre preteso di conoscere l'essenza ultima e le cause di ogni fenomeno; l'immaginazione pone un alt definitivo a queste pretese, dato che tale ricerca porta soltanto a contraddizioni o nonsensi. La ricerca delle cause portata avanti dall'immaginazione, con l'aiuto dei sensi, della memoria, dell'abitudine e della stessa ragione, conduce invece a verità di tipo sperimentale. Questo tipo di verità caratterizza del resto, secondo Hume, la scienza dei moderni, in contrasto con la presunta scienza degli scolastici. Se si escludono le scienze matematiche, quindi, tutte le altre scienze, l'intero nostro sapere, debbono necessariamente limitarsi alla ricerca di verità sperimentali. Se cercano verità dell'altro tipo, vanno inevitabilmente incontro a contraddizioni, insensatezze e scetticismo.

Se ora ci si chiede quale universalità, cioè accettabilità da parte di tutti, abbiano le verità sperimentali prodotte dall'immaginazione, essa non dipende né dagli oggetti, i quali sono il risultato dell'operare dell'immaginazione e dell'abitudine, né dal soggetto pensante stesso, che non è qualcosa di oggettivo, cioè di esistente in maniera indipendente dalle nostre percezioni: è anch'esso il risultato dell'operare dell'immaginazione.

Le verità sperimentali sono quindi fondate sull'immaginazione, la quale è una delle principali attività della mente. Ma la mente è a sua volta un prodotto dell'immaginazione. Non c'è nulla di ultimo, nel pensiero di Hume, su cui far poggiare quelle verità. Da qui deriva lo scetticismo di fondo, inevitabile, della filosofia del nostro autore.

Angelo Papi - Contatto

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015