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LA STORIA NATURALE DELLA RELIGIONE DI HUME E I LIMITI DELL'ILLUMINISMO

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HUME

Può apparire un po' paradossale che nel proprio sviluppo, il pensiero filosofico moderno, a partire da Cartesio, e forse addirittura a partire da Telesio, Bruno e Campanella, abbia cercato, da un lato, di salvaguardare l'istanza a una divinità assoluta, come forma imprescindibile del rapporto io/mondo, e dall'altro non sia mai stato capace di evitare l'accusa di ateismo mossagli dagli ambienti clericali del cattolicesimo e del protestantesimo.

Il paradosso è tuttavia spiegabile in considerazione del fatto che i nuovi filosofi saliti alla ribalta, inevitabilmente formatisi in ambienti educativi ecclesiastici, sapendo bene di avere a che fare con istituzioni di potere chiaramente confessionali, dove l'intreccio degli interessi dello Stato e della chiesa era particolarmente stretto, per poter divulgare, senza correre gravi rischi personali, le nuove idee agnostiche e persino atee, che parevano loro più corrispondenti allo sviluppo economico della produzione borghese, dovevano necessariamente usare un linguaggio ambiguo.

In particolare, questi filosofi, per poter rimuovere le caratterizzazioni personalistiche più impegnative, che la teologia cristiana aveva attribuito al proprio dio, erano disposti a riservargli generiche funzioni di fondamento gnoseologico. Dio veniva ridotto a una sorta di "verità universale", impersonale, non più grande della mente umana che lo pensava. E di fronte a questo progressivo riduzionismo, né i teologi cattolici riuscivano ad accettare che il loro dio feudale fosse già stato sostituito, in maniera irreversibile, da quello luterano e soprattutto calvinista, né i teologi riformati volevano accettare che la loro grande "protesta storica" fosse un'occasione imperdibile, per la classe borghese, di portare l'istanza di fede verso un approdo tutt'altro che religioso.

Il fallimento politico del cattolicesimo medievale aveva aperto gli argini a una riflessione filosofica tendenzialmente sempre più laica e umanistica, di cui la riforma luterana costituiva soltanto il primo gradino di una lunga scala, che avrebbe portato a conseguenze non prevedibili.

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Questa premessa è fondamentale per capire un testo come la Storia naturale della religione che Hume pubblicò a Londra nel 1757, esattamente un anno dopo essere stato messo sotto accusa dalla Chiesa presbiteriana scozzese, intenzionata a scomunicarlo, in maniera pubblica e solenne, per le idee ateistiche espresse nei testi filosofici già pubblicati.

La premessa è importante perché Hume s'è sempre ben guardato dal professare esplicitamente il proprio ateismo, preferendo lasciare ad altri il compito di dedurlo, salvo riservarsi di discutere sulla congruità delle contestazioni ricevute. Il suo era un atteggiamento accorto, per quanto in maniera relativa, che non gli si può certo rimproverare, non avendo egli mai avuto l'intenzione di sottostare a processi, torture, detenzioni, pene capitali, come in precedenza era accaduto a non pochi liberi pensatori di livello europeo.

Hume voleva una religione nei limiti della ragione, conformemente alle idee illuministiche del suo tempo, ma voleva anche una ragione nei limiti del buon senso, ch'era poi quello di un intellettuale borghese, partito da una situazione familiare relativamente benestante (il padre era un piccolo nobile) e che, pur non potendo realizzare una carriera accademica a causa dell'opposizione ecclesiastica, riuscì comunque nell'intento di concludere la sua esistenza rispettato e onorato, in condizioni economiche molto agiate.

Hume non avrebbe mai partecipato politicamente alla rivoluzione francese, se avesse potuto vederla: la sua era una battaglia culturale da intellettuale isolato, desideroso soltanto di anteporre all'oscurantismo clericale le idee borghesi della classe cui si sentiva di appartenere con convinzione.

Va poi detto ch'egli ebbe la fortuna di ereditare un clima politico favorevole alla tolleranza religiosa, già sapientemente teorizzata dall'altro grande filosofo inglese, J. Locke. La prima sostanziale pacificazione tra cattolici, anglicani e calvinisti porta la data del 1689 e quest'ultimi (che in Scozia si chiamavano appunto "presbiteriani") avevano un atteggiamento molto più aperto allo sviluppo del capitalismo di quanto non l'avessero i luterani tedeschi.

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La Storia naturale della religione è per così dire la seconda parte dei Dialoghi sulla religione naturale, poiché mentre questi (di cui Hume disporrà la pubblicazione solo nel testamento di morte) trattavano il problema di come cercare i fondamenti razionali della religione (senza poter trovare alcuna soluzione, ovviamente, in quanto per Hume la religione è il fenomeno a-razionale per eccellenza), quella invece tratta delle sue origini all'interno della natura umana, dando però per scontato che non possano esserci degli "istinti primari", altrimenti non si riuscirebbe a spiegare - osserva egli giustamente nell'Introduzione - il motivo per cui alcune popolazioni, nella storia, non abbiano mai conosciuto alcuna esperienza religiosa. Da notare, en passant, che Hume, alla fine del testo, essendo amante dei paradossi, di cui si serve a piene mani per legittimare il proprio scetticismo, sostiene che un popolo del tutto sprovvisto di religione è "poco lontano dallo stato dei bruti"(p. 164, da La religione naturale, Editori Riuniti, Roma 1985).

Dunque non resta che indagare sugli "istinti secondari" della natura umana.

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La Dedica al reverendo John Home, suo cugino e amico, pubblicata solo nella prima edizione dell'opera, è un piccolo gioiello di fine psicologia. Rispecchia il noto proverbio: "parlare a nuora perché suocera intenda".

Sono tre le cose che Hume tiene a precisare con questo e con gli altri scritti dedicati al tema religioso:

  1. gli intellettuali moderni, a differenza degli antichi, sono soliti dedicare le loro opere a qualche personalità in vista per "servilismo e adulazione"; lui no;
  2. i tempi moderni non conoscono la libertà di pensiero che avevano gli antichi, poiché, ogniqualvolta ci si mette a discutere di scienza si finisce col fare accese e sterili polemiche, troncando addirittura delle amicizie il cui valore dovrebbe andare ben oltre le divergenze d'opinione;
  3. il rispetto della persona, il saper riconoscere l'ingegno altrui, il desiderio di approfondire comuni passioni per la ricerca scientifica dovrebbero essere considerati i postulati di un qualunque rapporto tra intellettuali.

Insomma Hume era davvero un gentleman e non c'è da stupirsi che con questa sublime capacità persuasiva egli abbia potuto avere un grande successo come pubblicista. E non dimentichiamo che nel 1767 riuscì a diventare addirittura sottosegretario di stato, dimostrando notevoli capacità diplomatiche.

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Nell'Introduzione Hume dice due cose tra loro opposte, di cui la prima è ovviamente imposta dalle circostanze: "l'intera composizione della natura rivela un creatore intelligente"(p. 103). Non pochi critici sostengono che questo, in realtà, fosse un suo convincimento interiore, ma se l'avesse letto Pascal, che non poteva perdonare la furbizia con cui Cartesio aveva parlato di dio per disfarsene subito dopo, cosa avrebbe detto?

Cartesio s'era formato nello stesso collegio frequentato da Hume, quello di La Flèche, retto dai gesuiti: entrambi avevano ben imparato che il modo migliore per sostenere idee ateistiche o agnostiche in un ambiente clericale è quello di fare concessioni all'ideologia dominante. In questo modo era anche più facile avere dalla propria parte, se non i credenti ortodossi, almeno i deisti.

La seconda cosa rispecchia meglio il pensiero humiano: la religione non nasce "da un istinto originario o da un impulso primario della natura"(ib.), al pari dell'attrazione sessuale, la cura della prole ecc. La religione è un fenomeno indotto da situazioni esterne alla coscienza.

Non è singolare che un dio a capo dell'universo si sia scordato di farlo sapere alla sua principale creatura? Hume è un sì un gentleman, ma questo non gli impedisce di porre subito dei paletti epistemologici nel discorso di tipo psico-antropologico che intende ora affrontare.

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Avvalendosi delle prime relazioni descrittive degli ambienti coloniali elaborate dagli esploratori anglo-francesi, Hume s'è persuaso che "nello sviluppo dell'umanità dalla barbarie iniziale verso uno stato di maggiore perfezione, il politeismo o l'idolatria sono stati la più antica forma di religione"(p. 104). Man mano che l'umanità s'è evoluta, è passata al monoteismo, che rappresenta un maggior livello di astrazione.

In teoria su questo passaggio Hume poteva anche aver ragione, ma solo a condizione di far rientrare nel concetto di "politeismo" o meglio di "idolatria" anche l'animismo e il totemismo, che erano di molto anteriori al politeismo pagano e che non riflettevano - come invece quest'ultimo - determinati rapporti schiavili. Più avanti in effetti dirà che la deificazione di piante e animali, tipica delle tribù più primitive, era conseguente al basso livello di rappresentazione artistica della loro idolatria.

Piuttosto Hume, se non avesse nutrito taluni pregiudizi antisemiti, avrebbe sicuramente notato - visto che l'acume non gli mancava - che l'ebraismo riuscì a difendere dignitosamente il proprio monoteismo in mezzo a tanti regni e imperi di religione politeistica.

Ma il punctum dolens della sua analisi è un altro ancora. Pur avendo egli ammesso che sono esistite popolazioni prive di religione, non riesce però a ipotizzare una fase storica in cui l'intera umanità fosse atea, proprio in quanto non divisa al proprio interno tra classi antagonistiche.

Egli peraltro, nonostante considerasse per molti versi il politeismo migliore del monoteismo, non ha mai condiviso il mito roussoviano del "buon selvaggio". Le popolazioni primitive restavano per l'urbanizzato Hume "ignoranti e incivili", conformemente - si potrebbe dire - al colonialismo inglese, e non solo inglese, allora imperante.

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L'origine del politeismo non sta, secondo Hume, nell'"osservazione delle opere della natura", poiché, se ci si limitasse a questo, si dovrebbe essere teisti, ma nella contraddittorietà della vita, che si esprime in "un conflitto continuo tra opposti poteri"(p. 109). E' in questo antagonismo di fondo che gli uomini si creano delle entità astratte nella speranza di affrontare meglio il timore della miseria, il terrore della morte, il desiderio di cibo e beni terreni, ecc.

Hume evita di dire che, contemplando la perfezione della natura, si potrebbe anche essere indotti a non credere in alcun dio diverso dalla stessa natura, come già aveva lasciato capire Spinoza. Ma soprattutto non riesce a compiere alcuna analisi sociale dei motivi che scatenano l'antagonismo: in questo resta più indietro persino di Thomas More, che due secoli prima aveva saputo perfettamente individuare nelle enclosures il motivo della disperazione dei contadini inglesi.

Hume è un intellettuale borghese di origine nobiliare che fa coincidere "progresso" con "scienza" e che, per questo, non può non prendersela con la gente comune, colpevole, a suo giudizio, di non saper andare oltre le apparenze e che, nella propria ignoranza, che non le permette di risolvere alcun problema, finisce con l'affidarsi al caso, credendo in qualunque superstizione, ovvero in chi riesce a svolgere al meglio il mestiere dell'imbonitore.

Tuttavia neppure lui è in grado di andare oltre una mera analisi psicologica del comportamento umano. Anzi arriva persino a dire, mostrando una curiosa misoginia, che, essendo la nascita della religione un effetto della debolezza umana, la donna va considerata, a tale scopo, molto più responsabile dell'uomo (p. 114).

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Che Hume si sentisse ateo, pur senza poterlo professare esplicitamente, è dimostrato anche là dove dice che si può esserlo in tante maniere, persino credendo in "fate e folletti"(p. 115). Lo dice usando proprio il metodo allegorico delle parabole evangeliche, che si concludeva con la famosa frase: "chi ha orecchi da intendere intenda".

A suo parere, infatti - e tutti gli illuministi gli avrebbero dato ragione (anche perché lui queste cose le aveva già acquisite in Francia, dove produsse il famoso Trattato) -, l'ateismo non è stato una scoperta della filosofia moderna, ma un atteggiamento che ha riguardato molti popoli della storia o almeno una parte di questi (e qui ne cita davvero tanti: cinesi, lapponi, egiziani, svevi... persino greci e romani, di cui avremmo detto il contrario): si tratta soltanto d'intendersi sul significato delle parole.

Chiunque abbia dato della divinità una rappresentazione antropomorfa, dovrebbe essere considerato ateo, a dispetto di qualunque professato teismo. Un pensiero potente, questo, denso di effetti collaterali, il primo dei quali rimanda inevitabilmente a quelle correnti di pensiero teologiche, di tipo apofatico, secondo cui di dio non si può dire assolutamente nulla, in quanto ogni definizione che lo riguarda non è che una negazione.

Peraltro nell'antichità - prosegue Hume - più che di "creazione dell'universo" da parte di un dio onnipotente, si preferiva parlare di "autocreazione", di "generazione spontanea" delle cose (si noti, per inciso, che anche il socialismo scientifico ha sempre parlato di "autogenerazione della materia").

Questo per dire che l'ateismo è più antico del teismo: "soltanto molto tardi i filosofi pensarono di ricorrere ad una mente o ad un'intelligenza superiore come causa prima di tutto"(p. 119).

Acutamente Hume osserva che chi nell'antichità (come p.es. Anassagora e Socrate) affermava il teismo negando valore religioso alle stelle, ai pianeti e soprattutto alle tante divinità particolari, immortalate nelle statue e nei racconti mitologici, veniva immancabilmente accusato di essere ateo, e chi invece, pur essendo ateo nei suoi presupposti filosofici (come p.es. Talete, Anassimandro, Eraclito), evitava di negare valore religioso agli aspetti idolatrici del sentire comune, non fu mai perseguitato.

Hume scriveva questo per chiedere ai suoi detrattori di essere onesti con se stessi, guardando le cose obiettivamente, per non obbligare un intellettuale come lui a dissimulare le proprie convinzioni.

Poteva essere accolta una richiesta del genere quando chi doveva farlo deteneva quel necessario potere istituzionale mediante cui era autorizzato a esercitare un filtro tra i vari atteggiamenti nei confronti della fede religiosa? Hume avrebbe potuto dichiararsi teista quanto voleva, ma non poteva non sapere che una dichiarazione del genere, nell'ambito della chiesa, implica sempre delle pratiche conseguenze, cioè quella coerenza di vita conforme al fatto che il cristianesimo non s'è mai posto come semplice movimento di pensiero.

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Analizzando la natura del politeismo, Hume dice due cose interessanti, che verranno riprese successivamente dall'etno-antropologia e del materialismo naturalistico.

La prima è che gli antichi miti potevano anche essere basati su fatti realmente accaduti, che poi però venivano stravolti nelle forme e nel contenuto per essere usati come mezzo d'imbonimento di masse ignoranti.

La seconda è che la mitologia pagana era una forma di "allegorizzazione ultraterrena" (Feuerbach parlerà di "proiezione") dell'umano desiderio di risolvere contraddizioni insopportabili, le cui cause venivano percepite come "del tutto ignote o incerte"(p. 123).

Tuttavia, mentre da un lato Hume ribadisce che la religione in generale (e quindi anche il monoteismo) sorge dall'incapacità di trovare adeguata risposta ai problemi reali della vita; dall'altro non prospetta, per il suo presente, alcuna soluzione pratica per questi problemi (se non quella del liberismo economico teorizzata dal suo caro amico Adam Smith, che però paradossalmente era una delle fonti di quegli stessi antagonismi sociali). Senza volerlo egli finiva col giustificare proprio l'idolatria che voleva combattere.

Che Hume fosse un ateo convinto, ancorché "nascosto" - come Nicodemo - per timore dei "farisei" del suo tempo, e che lo fosse a titolo individuale, senza voler fare delle proprie opinioni un movimento culturale di resistenza o addirittura di protesta, è visibile anche là dove egli considera le masse religiose, seguaci di qualsivoglia confessione, piene di pregiudizi e superstizioni.

Che un intellettuale fosse deista o scettico, ateo o agnostico, per lui era comunque un segno di distinzione. Le masse credono per abitudine, senza neppure saper rendere ragione della loro fede; il filosofo invece crede per convinzione e senza avere l'obiettivo di opporre un principio di fede a un altro (come durante la Riforma). Il massimo che Hume poteva concedere era di opporre una filosofia religiosa a una qualsivoglia teologia, ma lo faceva solo quando le circostanze lo obbligavano. Per lui era impossibile discutere con un teologo che dava per scontato, come punto di partenza, un principio indimostrabile quale appunto l'esistenza di dio.

Noi oggi siamo soliti definire ateo colui che non crede in alcun dio, neppure in senso vago o indeterminato. Ma al tempo di Hume sarebbe stato sufficiente mettere sullo stesso piano il credente politeista con quello monoteista. I critici più "possibilisti", a orientamento confessionale, ritengono che l'ateismo di Hume fosse solo una provocazione e che in realtà egli volesse affermare un teismo naturale a partire non dalla fede ma dalla ragione, in virtù del fatto ch'egli spesso sosteneva che la perfezione della natura doveva necessariamente rimandare a una mente superiore che l'avesse concepita.

Se la chiesa scozzese - essi sostengono - invece di irrigidirsi in una difesa schematica dei propri dogmi, avesse capito in tempo questa ricerca dell'assoluto per vie non convenzionali, il dialogo sarebbe stato più produttivo e ne avrebbero tratto giovamento sia la fede che la ragione.

E' difficile obiettare a questa osservazione, poiché là dove s'impone, in materia di fede religiosa, una certa dittatura del pensiero, è impossibile sapere con sicurezza se le concessioni che si fanno al teismo siano davvero frutto di un convincimento interiore o non piuttosto una sorta di precauzione per evitare spiacevoli conseguenze. Campanella, per noi italiani, è forse l'esempio più illuminante, in tal senso.

E' probabile in realtà che Hume fosse già arrivato alla conclusione che se il teismo può essere la conseguenza di un semplice ragionamento filosofico, allora nulla vieta che possa esserlo anche l'ateismo. Su questo assunto anche un teologo cristiano, il cui presupposto di fede è, come noto, l'accettazione di una "rivelazione" espressa da un dio fattosi uomo, difficilmente avrebbe potuto dargli torto. Se un uomo può arrivare da solo a credere rettamente nel dio onnipotente, allora non c'è differenza tra politeismo e monoteismo e tanto meno tra ebraismo e cristianesimo, e nessuno potrà impedire a quello stesso uomo di non aver bisogno di alcun dio per potersi affermare come tale.

Questo poi senza considerare che, anche prescindendo da tale querelle e persino dalle tesi espressamente scettiche che Hume sosteneva, il suo ateismo è lampante negli stessi presupposti di metodo con cui esamina la questione religiosa. Di fronte a un testo come la Storia naturale (per non parlare dei Dialoghi, che sono ancora più espliciti), a un teologo poteva importare assai poco se Hume in coscienza fosse teista o no. Il mastino del fanatismo clericale e letterario, W. Warburton, aveva intenzione di denunciare anche l'editore W. Strahan, che infatti si guardò bene dal pubblicare i Dialoghi.

Nessuna chiesa cristiana ha mai tollerato che un filosofo potesse interpretare il "fenomeno religioso" indipendentemente dalle chiavi di lettura offerte, per tradizione o per autorità, da essa stessa. E' stata tuttavia una fortuna sia per la chiesa inglese che per quella scozzese che Hume, potendo spaziare con relativa disinvoltura dalla filosofia alla storiografia, dall'economia politica all'etica, non avesse fatto della religione l'argomento principale delle sue ricerche. Se avesse analizzato criticamente il Nuovo Testamento, come faranno Strauss e Bauer della Sinistra hegeliana, ci si può chiedere dove sarebbe arrivato. Proprio un famoso teologo anglicano del suo paese, S. Brandon, diede dei vangeli una lettura esclusivamente politica, mezzo secolo fa, ribaltando in toto le tradizionali esegesi britanniche.

Certamente Hume non disse cose più radicali di quanto avessero già fatto taluni illuministi francesi, nondimeno è assai difficile non ritenerlo un punto di svolta del laicismo inglese. Dopo di lui non solo il teismo confessionale ma anche il deismo filosofico, se volevano continuare a sopravvivere, dovevano trovare altre giustificazioni teoretiche.

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Il limite di fondo dell'analisi humiana sta nella lettura psicologica degli eventi storici. Per lui la storia non è che il riflesso di un sentire comune riscontrabile nella quotidianità e, in questa, il "sentire popolare" è quello più irrazionale, dettato da bassi istinti e soprattutto da atavica ignoranza, per cui neanche volendo egli potrebbe considerare il monoteismo, in sé e per sé, migliore del politeismo. Tutto dipende sempre dall'uso che si fa dei propri convincimenti interiori.

Sotto questo aspetto il titolo dell'opera è più ambizioso del lecito: davvero si può impostare una "storia naturale della religione" su basi psicologiche? Le basi propriamente storiografiche per l'analisi del fenomeno religioso sono debolissime in questo testo, anche perché l'unico nesso ch'egli pone, per capire il rapporto tra struttura e sovrastruttura, è quello tra paura del presente e speranza del futuro, tra realtà angosciante e illusione ultraterrena.

La gente ignorante, sia essa politeista o monoteista, non capisce nulla delle proprie contraddizioni e si affida al misticismo. Questa classica opinione di Hume verrà ripetuta, un secolo dopo, dall'antropologo inglese E. B. Tylor. Difficile dunque pensare, sulla base di questo presupposto ermeneutico, che il fenomeno religioso possa avere una propria "storia".

La stessa idea di aggettivare questa ricerca storica come "naturale", cioè come se gli atteggiamenti religiosi, interpretati psicologicamente, siano riferibili a qualunque tempo storico, facendo essi parte di una presunta "natura umana", sempre uguale a se stessa, in quanto l'unico vero ostacolo da rimuovere è l'ignoranza, è un'idea che sul piano storiografico ha un valore scientifico prossimo allo zero.

Anzi, l'idea stessa d'inglobare qualunque fenomeno religioso entro il paradigma del pregiudizio, preclude persino una semplice analisi etno-antropologica, esente da ambizioni di tipo storiografico. Tant'è che quando gli inglesi occuparono l'India, proprio al tempo di Hume, non capirono assolutamente i problemi di quell'enorme paese, finendo col favorire il sistema delle caste e addirittura permettendo ai musulmani di staccare una porzione di territorio nazionale, creando il Pakistan.

E' incredibile che un intellettuale come Hume, dopo aver scritto sei volumi sulla Storia dell'Inghilterra, non abbia speso, in questo testo una sola parola per collegare lo sviluppo della società industriale del suo paese al passaggio dal cattolicesimo al protestantesimo.

Come sottotitolo alla Storia naturale Hume avrebbe potuto mettere "uno studio comparato delle religioni viste sotto un'angolazione fenomenologica non confessionale". Un testo del genere doveva necessariamente servire per supportare la tendenza che gli intellettuali inglesi del Settecento avevano di essere sempre più borghesi e sempre meno cristiani. Una tendenza iniziata (nella forma del deismo) con la fase mercantilistica dello sviluppo capitalistico della nazione e che si stava consolidando, in tempi molto brevi, con la fase industriale vera e propria, che Hume sostenne con entusiasmo, essendo l'industria strettamente legata alla scienza e alla tecnica.

Questa borghesia mercantile e industriale non esporterà il cristianesimo nella stessa maniera degli altri paesi colonialisti di fede cattolica. Quest'ultimi imponevano la loro ideologia con la forza delle armi; per gli inglesi invece era un titolo di merito diventare puritani, metodisti, presbiteriani ecc. Bisognava come minimo appartenere alla classe media per poter beneficiare dei vantaggi esclusivi di una associazione religiosa.

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A partire dal cap. IX Hume si diverte, dall'alto della sua scientifica obiettività, a confrontare le religioni politeiste con quelle monoteiste, onde saggiarne i pro e i contro. Si comporta come se fosse il consigliere laico di un sovrano illuminato, il quale deve trovare il giusto mezzo per far convivere pacificamente tutti i credenti del suo regno.

In tal senso il confronto tra politeisti e monoteisti è come se venisse usato come pretesto per mostrare che da un'angolazione razional-umanistica non vi può essere alcuna differenza tra le varie correnti del cristianesimo europeo.

La prima distinzione che Hume vede tra politeismo e monoteismo è la seguente: mentre l'uno è ideologicamente fragile ma politicamente democratico, l'altro è ideologicamente forte ma politicamente intollerante. Se tra i cristiani oggi esiste rispetto reciproco è solo perché ciò è stato imposto loro dagli Stati, i quali non sono in grado di svolgere alcuna vera funzione in presenza di continue guerre di religione.

Con questo ovviamente Hume non sta invitando i sovrani a preferire il politeismo, ma soltanto a non farsi condizionare dalle rivalità delle opposte correnti cristiane. Un sovrano deve restare equidistante, esercitando la pienezza del proprio potere "civile". E qui indubbiamente il Machiavelli docet anche per Hume, che lo stimava non poco.

La seconda distinzione riguarda la psicologia sociale, quella che coinvolge intere masse di credenti, che nel caso del monoteismo, avendo esse a che fare con un dio autoritario e onnipotente, possono essere indotte a comportamenti rassegnati, remissivi; mentre là dove, come nel politeismo, le divinità non sono altro che fotocopie ingrandite dei vizi e delle virtù umane, c'è più voglia di vivere la vita con coraggio e fiducia in se stessi.

Qui è evidente l'attacco a quelle confessioni, come anzitutto la cattolica, che pretendono l'obbedienza alla gerarchia come fondamentale conditio per la salvezza personale.

La terza distinzione riguarda i contenuti teologici veri e propri, su cui Hume si guarda bene dal fare osservazioni di merito, limitandosi invece a dire che quelli di area politeistica era troppo lontani dalla scienza perché la filosofia potesse trovare il modo d'integrarsi con essi. Tuttavia - egli aggiunge - anche il cattolicesimo-romano, a partire dalla Scolastica, è caduto in "sofismi del tutto incomprensibili"(p. 141), per cui bene fa la filosofia borghese, razionalista e materialista di natura, a cercare strade autonome, più conformi alle esigenze di modernità e di sviluppo, anche a costo di dover affrontare le stesse sentenze capitali comminate agli eretici.

La quarta distinzione riguarda il rapporto tra ideologia religiosa in senso lato e la filosofia. Messe a confronto con la filosofia illuministica, le religione politeistiche e monoteistiche presentano differenze solo di forma non di sostanza.

Hume arriva persino a sostenere che è impossibile, da un punto di vista razionale, fare differenza tra "religione" e "superstizione". Qualunque confessione religiosa, anche la più teologicamente evoluta, contiene aspetti palesemente superstiziosi che, agli occhi disincantati della filosofia, la rendono ridicola o patetica. Quella cristiana ha di peggio che attorno alle proprie superstizioni ha costruito un impianto dogmatico che, come i fili dell'alta tensione, chi lo tocca muore.

Erano, questi, giudizi che nessun cristiano, di nessuna confessione, avrebbe mai potuto proferire o accettare. Anche da questo si comprende bene come Hume avesse definitivamente rinunciato alla carriera universitaria, benché un secondo tentativo provò a farlo in quella di Oxford.

Gli ultimi tre capitoli sono di fuoco, persino nei titoli: tutte le religioni hanno "concezioni empie della natura divina" e influenzano negativamente la moralità.

Dunque l'unica religione ammissibile è la filosofia, che le mette al bando tutte, senza sconti per nessuna. La filosofia si basa sulla scienza, sul buon senso, sulla ragione umana e terrena delle cose: in essa non vi sono contraddizioni assurde, inconciliabili, né atteggiamenti irrazionali.

Hume ha la pretesa di fondare teoreticamente una sorta di "morale laica", nell'illusione che sia sufficiente possedere cognizioni scientifiche per agire rettamente, per superare oscurantismi e clericalismi d'ogni tipo.

Hume è figlio dell'Illuminismo, cioè di quella corrente di pensiero che non è mai riuscita né ad abbattere culturalmente le superstizioni popolari, né a creare politicamente un vero regime di separazione tra Stato e chiesa. E il motivo è semplice: l'Illuminismo non ha mai visto i limiti della religione come il riflesso di una contraddizione sociale che andava risolta socialmente. Il più grande rivoluzionario francese del Settecento, Robespierre, alla fine della sua carriera voleva imporre una sorta di "deismo statale".

La conclusione della Storia naturale rispecchia infatti il limite della corrente ideale di appartenenza del suo autore. Sono tre i punti che rivelano l'intenzione recondita di sostituire le religioni naturali e positive con una di tipo filosofica, senza dogmi né sacramenti.

  1. La perfezione della natura, con le sue leggi così rigorose, rimanda necessariamente a un "creatore".
  2. L'essere umano è inspiegabilmente contraddittorio, per cui la soluzione migliore è quella di cercare in ogni cosa la via di mezzo.
  3. Esiste una "tendenza universale a credere in un potere invisibile e intelligente"(p. 163): occorre prenderne atto e incanalarla "nelle calme, sebbene oscure, regioni della filosofia"(p. 164).

Oggi ci siamo abituati a relegare questi ragionamenti nella sfera privata della coscienza, limitandoci a discutere politicamente sulle soluzioni da prendere per i nostri problemi sociali, al punto che quando qualcuno prova a manifestare pubblicamente idee ateistiche viene subito tacciato di giacobinismo e anticlericalismo.

Nel nostro paese "laicità" è voluto dire delegare alla chiesa il monopolio interpretativo del fatto religioso. Ebbene Hume fu uno di quelli che, pur con tutti i suoi limiti, ci insegnò a non aver paura né di dio e dei suoi sacerdoti, e neppure di noi stessi.

Fonti

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015