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Hume: sulla scia di Berkeley, ma con altro spirito

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Giuseppe Bailone

Hume ha molta considerazione per Locke e per Berkeley, soprattutto perché hanno costruito la loro teoria della conoscenza sui dati dell’esperienza. La sua teoria della conoscenza risente grandemente delle loro posizioni e può essere considerata come un loro sviluppo.

Hume, come Locke e come Berkeley, pensa che, quando si viene al mondo, la nostra mente sia un foglio bianco, tutto da scrivere, e che siano i nostri sensi ad alimentare la conoscenza. La quale conoscenza, però, non si ferma alle sensazioni, ma ci lavora su, producendo altri elementi di conoscenza.

A differenza di Locke e di Berkeley che chiamavano idea ogni contenuto mentale, ogni oggetto del pensiero, Hume chiama “impressioni” i dati prodotti dalle sensazioni in atto e “idee” quel che ne resta nella mente finita la sensazione. Chiama “idee” i ricordi delle sensazioni e tutti i contenuti mentali che il pensiero produce lavorando sulle sensazioni e sui ricordi. Si potrebbe dire che le impressioni sono la materia prima del pensiero, prodotta dalle sensazioni in atto, mentre le idee sono il prodotto della nostra memoria e delle nostre riflessioni sulle impressioni e sul loro ricordo.

Nel prendere in esame questo lavorio della mente sulle impressioni, Hume fa sue le critiche di Berkeley a Locke, e si muove sulla scia della sua critica alle idee astratte e alla distinzione fra qualità primarie e secondarie.

“Un grande filosofo [Berkeley] ha contestato l’opinione invalsa a questo proposito e ha affermato che tutte le idee generali non sono altro che idee particolari congiunte a una certa parola che dà loro un significato più esteso e, occorrendo, fa sì che ne richiamino altre individuali simili a loro”. Hume considera “questa scoperta una delle maggiori e più importanti che siano state fatte in questi ultimi anni nella repubblica delle lettere” e sviluppa a suo sostegno altri argomenti per metterla “fuori d’ogni dubbio e controversia”.[1]

Hume sottoscrive anche, e argomenta ulteriormente, la critica che Berkeley ha fatto alla distinzione fra le qualità primarie e quelle secondarie dei corpi, distinzione di origine democritea e poi ripresa da Galileo, Cartesio e anche da Locke, che pure non ne condivide la metafisica da essa presupposta (cioè che la natura sia scritta in caratteri matematici).

Hume non condivide, invece, la tesi metafisica fondamentale di Berkeley, quella dell’esse est percipi, anche se la considera molto ben argomentata; né condivide la sua passione religiosa e la finalizzazione della ricerca filosofica alla difesa della religione cristiana rivelata. La ricerca della verità, in Hume, non deve avere compiti prestabiliti. Egli paragona la filosofia alla caccia e al gioco con posta: non pensa, cioè, a una ricerca del tutto disinteressata. La filosofia è, per lui, utile a migliorare l’esistenza umana ed è quindi animata sempre dall’utilità, oltre che dal piacere che la sua attività produce, proprio come la caccia e il gioco con posta.[2] Non pensa, però, di poter arrivare a verità ultime e assolute, e le conclusioni scettiche cui approda non gli danno la sensazione che la terra gli venga a mancare sotto i piedi. Quando la verità che cerca gli indica i limiti invalicabili della natura umana, lui li accetta con serenità. Scrive: “Benché non si possa mai giungere ai principi ultimi, è una soddisfazione spingerci avanti fin dove ce lo consentono le nostre facoltà”.[3] A differenza di Berkeley, lui non ha verità rivelate da difendere: per quanto utile, la filosofia, come la caccia e il gioco, è attività libera, non di servizio ad altro.

Nel riprendere e sviluppare la “scoperta” di Berkeley, Hume introduce la sua tesi: è l’abitudine dell’uso di certe parole generali per una pluralità d’idee particolari che alimenta l’errore di Locke, l’illusione, cioè, che il nostro intelletto possa, attraverso l’astrazione, creare idee astratte.

“Quando abbiamo trovato una somiglianza fra oggetti diversi che ci capitano spesso innanzi, diamo a tutti lo stesso nome, qualunque siano le differenze che possiamo osservare nei gradi della loro qualità e quantità, e qualunque altra differenza possa apparire tra loro. Acquistata quest’abitudine, nell’udire quel nome l’idea di uno degli oggetti si risveglia, e fa sì che l’immaginazione la concepisca in tutte le sue particolari circostanze e proporzioni. Ma, siccome la stessa parola fu probabilmente usata di frequente per altri individui, differenti sotto molti aspetti dall’idea presente immediatamente alla mente, la parola, non essendo capace di far rivivere l’idea di tutti questi individui, si limita a toccar l’anima, se così posso esprimermi, e fa rivivere l’abitudine che abbiamo contratta nell’esaminarli. Essi non sono realmente, di fatto, presenti alla mente, ma solo in potenza; né li facciamo sorgere tutti distintamente nell’immaginazione, ma ci teniamo pronti a prendere in considerazione l’uno o l’altro, secondo che ci spinga qualche intento o necessità presente. La parola sveglia un’idea individuale, e insieme con essa una certa abitudine; e questa abitudine produce ogni altra idea individuale, secondo che l’occasione lo richiede. Ma, poiché la produzione di tutte le idee, alle quali il nome può essere applicato, è cosa impossibile nella maggior parte dei casi, noi abbreviamo questo lavoro limitandolo a una considerazione più ristretta, senza che sorgano da questa abbreviazione troppi inconvenienti per i nostri ragionamenti”.[4]

Hume, non pensa di essere arrivato a toccare il fondo del problema: “Spiegare le cause ultime delle nostre azioni mentali è impossibile: basterà darne una ragione soddisfacente, desunta dall’esperienza e dall’analogia”.[5] Ed è quello che cerca di fare nelle tre pagine che seguono.

C’è un’altra importante operazione mentale nella quale Hume vede l’azione dell’abitudine: è quella che stabilisce relazioni causali tra due fatti.

“Tutti i ragionamenti relativi a materie di fatto sembrano fondati sulla relazione di causa ed effetto. Soltanto per mezzo di questa relazione possiamo andare al di là dell’evidenza della memoria e dei sensi. Se chiedete ad una persona perché crede a qualche fatto, che non è presente, per esempio che un suo amico si trova in campagna o in Francia, vi darà una ragione; e questa ragione sarà qualche altro fatto, come una lettera ricevuta da parte dell’amico o la conoscenza di sue risoluzioni o promesse precedenti. Un uomo che trovasse un orologio o un’altra macchina in un’isola deserta, concluderebbe che in quell’isola una volta vi sono stati degli uomini. Tutti i ragionamenti riguardanti fatti sono della stessa natura; in essi si suppone sempre che ci sia una connessione fra il fatto presente e quello che da esso viene inferito”.[6]

Infatti, spiega Hume, le relazioni tra fatti sono ben diverse da quelle tra idee operate in matematica: “Che il quadrato dell’ipotenusa sia uguale al quadrato dei due cateti è una proposizione che esprime una relazione fra queste figure. Che tre volte cinque sia uguale alla metà di trenta esprime una relazione fra questi numeri. Proposizioni di questa specie, si possono scoprire con una semplice operazione del pensiero, senza dipendenza alcuna da qualche cosa che esista in qualche parte dell’universo. Anche se non esistessero in natura circoli o triangoli, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero la loro certezza ed evidenza”.[7] Queste proposizioni sono dimostrazioni a priori, cioè, sono fatte senza far ricorso all’esperienza. Quelle che riguardano le relazioni di fatti, sono, invece scoperte dell’esperienza. Le prime sono condotte in base al principio di non contraddizione, che, però, non funziona con le seconde: “Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intellegibile e che non implica più contraddizione dell’affermazione che esso sorgerà. Invano tenteremo, dunque, di dimostrare la sua falsità; se essa fosse falsa dimostrativamente, implicherebbe contraddizione e non potrebbe mai esser distintamente concepita dalla mente”.[8]

La relazione tra causa ed effetto non può essere colta a priori, con la sola ragione: ci vuole l’esperienza.

Per Hume, questa legge non ha eccezioni.

“Presentiamo un oggetto ad una persona di capacità ed abilità razionali forti quanto si voglia; se quell’oggetto le è del tutto nuovo, non riuscirà, con l’esame più accurato delle qualità sensibili di esso, a scoprire qualcuna delle sue cause o dei suoi effetti. Adamo, anche se si supponga che le sue facoltà razionali fossero, fin dall’inizio, assolutamente perfette, non avrebbe potuto inferire dalla fluidità e trasparenza dell’acqua che questa lo poteva soffocare, o dalla luce e dal calore del fuoco che questo poteva ridurlo in cenere. Nessun oggetto manifesta, per mezzo delle qualità che appaiono ai sensi, né le cause che lo hanno prodotte, né gli effetti che sorgeranno da esso; né la ragione può mai, senza l’aiuto dell’esperienza, trarre alcuna inferenza riguardante esistenze reali e materia di fatto”.[9]

Che cosa ci dice, però, l’esperienza della relazione causa-effetto?

Non ci testimonia l’esistenza di quel rapporto, ma soltanto che i due fatti, l’effetto e la causa, si manifestano in successione temporale, il primo dopo il secondo. Causa ed effetto sono due fatti distinti e diversi, e nessuno dei due ha in sé qualcosa che richiaminecessariamente l’altro, come, invece, avviene nelle dimostrazioni a priori della matematica.

“Non è possibile che la mente trovi mai l’effetto nella supposta causa, nemmeno con l’indagine e l’esame più accurato, perché l’effetto è totalmente differente dalla causa, e per conseguenza non può venir scoperto in essa”. Hume fa l’esempio di una palla di bigliardo che metta in movimento una seconda palla, urtandola; e quello di una pietra sollevata in aria e lasciata cadere. “Il movimento nella seconda palla di bigliardo è un fatto del tutto distinto dal movimento della prima; non c’è nulla che suggerisca nell’uno il più piccolo cenno dell’altro. Una pietra o un pezzo di metallo sollevato in aria e lasciato senza sostegno, immediatamente cade; ma a considerare la materia a priori, v’è forse qualcosa che noi si scopra in tale situazione e che possa generare l’idea di un movimento all’ingiù o di qualche altro movimento, nella pietra o nel metallo? […] Quando vedo, per esempio, una palla di bigliardo che si muove in linea retta verso un’altra, anche supponendo che il movimento nella seconda palla mi venga accidentalmente suggerito come risultato del loro contatto o impulso, non posso io concepire che cento diversi fatti possano egualmente seguire da tale causa? Non potrebbero forse entrambe quelle palle arrestarsi e rimanere in posizione di quiete assoluta? Non potrebbe forse la prima palla tornare indietro in linea retta o rimbalzare dalla seconda in una qualsiasi linea o direzione? Tutte queste supposizioni sono coerenti e concepibili. Perché dovremmo dare la preferenza ad una che non è più coerente o concepibile delle altre? Nessuna ragione a priori riuscirà mai a giustificare questa preferenza”.[10] E l’esperienza ci testimonia solo ciò che è già avvenuto; non ci dice che ciò che già è avvenuto debba ancora avvenire; neppure ci dice che ciò che è già avvenuto dovesse avvenire.

“Di qui possiamo scoprire la ragione del fatto che i filosofi ragionevoli e modesti non hanno mai preteso di stabilire la causa ultima di qualche operazione della natura, o di mostrare distintamente l’azione del potere che produce qualche singolo effetto dell’universo. Si ammette che il massimo sforzo della ragione umana è quello di ridurre i principi che producono i fenomeni della natura ad una maggiore semplicità, e di risolvere i molti effetti particolari in poche cause generali, per mezzo di ragionamenti desunti dall’analogia, dall’esperienza e dall’osservazione. Ma quanto alle cause generali, invano ci sforzeremmo di scoprirle; né riusciremo mai a rimanere soddisfatti di qualche particolare spiegazione che le riguardi. Queste sorgenti ultime e i principi sono del tutto preclusi all’attenzione e alla ricerca umane. […] La più perfetta filosofia della natura non fa che rinviare la nostra ignoranza un po’ più lontano, come, forse, la più perfetta filosofia morale o metafisica serve soltanto a scoprirne più larga parte. Così l’osservazione della cecità e debolezza umana è il risultato di ogni filosofia e ci imbattiamo in essa ad ogni svolta, a dispetto dei nostri tentativi di sfuggirla e di schivarla.

Nemmeno la geometria, se portata in aiuto della filosofia della natura, sarebbe mai in grado di rimediare a questo difetto o condurci entro la conoscenza di cause ultime, per mezzo di tutto quel rigore di ragionamento per il quale va così giustamente famosa. Ogni scienza in cui han parte le matematiche procede in base alla supposizione che la natura stabilisce certe leggi nelle sue operazioni […]. La geometria ci aiuta nell’applicazione di queste leggi, fornendoci le esatte dimensioni di tutte le parti e di tutte le figure che possono entrare in una qualche specie di congegno; ma la scoperta della legge è dovuta tuttavia soltanto all’esperienza e tutti i ragionamenti del mondo non potrebbero farci avanzare d’un passo verso la sua conoscenza”.[11]

Hume apprezza la geometrizzazione della scienza moderna, ma respinge la metafisica, fondata sull’idea galileiana che la natura sia stata scritta da Dio in caratteri matematici, che l’accompagna e alimenta la credenza in un ordine di leggi naturali rigorose e necessarie come i ragionamenti matematici.

Si potrebbe dire che apprezza la scienza moderna, ma ne respinge l’ideologia metafisica.

Il fondamento di tutti i ragionamenti riguardanti materie di fatto è l’esperienza. Solo l’esperienza. La quale, però, in quanto testimonianza di fatti, testimonia solo ciò che già è avvenuto o sta avvenendo, mai ciò che avverrà. Quando, in base all’esperienza, ci aspettiamo il verificarsi di un evento futuro, come il levarsi del sole domani, su che cosa si fonda questa nostra attesa? Su che cosa si basa la nostra fiducia nella regolarità della natura, se abbiamo, con Hume, abbandonato la metafisica, e l’esperienza ci testimonia soltanto la regolarità che è stata e quella che è, non quella che sarà? Ci dice che il sole è sempre sorto, che, magari, sta sorgendo anche adesso. Non ci dice che sorgerà domani. Questo ce lo dice la nostra credenza nella regolarità dei fenomeni naturali.

Si tratta, però, di una fiducia non secondaria: l’intera esistenza umana si basa sulla credenza che la natura non faccia scherzi, che il suo ordine, visto in passato, ci sarà anche in futuro, che sia necessario. Quando paragoniamo le leggi umane con quelle naturali, diciamo che queste rispettano le nostre attese a differenza di quelle umane. Dove si fonda questa nostra credenza?

Sull’abitudine, sostiene Hume. È l’abitudine che porta i nostri ragionamenti sull’esperienza a far dire all’esperienza anche quello che essa non dice.

Quando abbiamo visto più volte un fatto seguirne un altro, la nostra naturale tendenza ad acquisire abitudini ci porta ad attenderci che quella successione si ripeta anche in futuro. L’aver visto molte volte il verificarsi di questo tipo di regolarità ci induce a credere, sempre per quella nostra naturale tendenza ad acquisire abitudini, che esista l’uniformità naturale. La consistenza di quella credenza è data dalla forza dell’abitudine che l’ha generata. Quella credenza non ha fondamento oggettivo, bensì soggettivo, psicologico.

La forza dell’abitudine è molto grande ed è bene che sia così. Senza di essa la nostra vita pratica sarebbe impossibile: ogni situazione si presenterebbe come un nuovo problema e resteremmo paralizzati. L’abitudine, invece, ci permette di compiere gran parte dei nostri gesti quotidiani meccanicamente, senza pensarci, e ci permette, così, di usare il pensiero per i casi nuovi: libera la nostra mente da infiniti problemi che la soffocherebbero.

“La consuetudine è la grande guida della vita umana. È questo quell’unico principio che ci rende utile l’esperienza e che ci fa attendere, per il futuro, un seguito di avvenimenti simile a quello che si è presentato nel passato. Senza l’influsso della consuetudine saremmo del tutto ignoranti di ogni materia di fatto all’infuori di ciò che è immediatamente presente alla memoria e ai sensi. Noi non saremmo mai in grado di adattare i mezzi ai fini, o di usare i nostri poteri naturali nella produzione di qualche effetto. Si avrebbe la fine, nello stesso tempo, di ogni azione, come anche della parte principale della speculazione”.[12] L’abitudine è fondamentale per la vita pratica, ma anche per il pensiero. Questo, infatti, è sì fatto di conoscenza, ma anche di ciò che conoscenza non è, e che non è facile riconoscere.

Hume sa di muoversi su un terreno inesplorato: “Questa parte della filosofia, è facile osservarlo, è stata poco coltivata sia dagli antichi che dai moderni”.[13]

Inoltre, l’abitudine quanto più è forte, tanto meno appare: “È tale l’influsso della consuetudine – scrive – che questa, dove è più forte, non soltanto nasconde la nostra ignoranza della natura, ma cancella anche se stessa, e sembra che non esista, soltanto perché è presente nel grado più alto”.[14]


[1] David Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche I, ed. Laterza 1987, p. 29.

[2] Ib. libro II, parte III, sez. decima, pp. 471-6.

[3] David Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche IV, ed. Laterza 1987, p. 6

[4] David Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche I, ed. Laterza 1987, pp. 32-3.

[5] Ib. p.35.

[6] David Hume, Ricerca sull’intelletto umano, in Opere filosofiche II, ed. Laterza 1996, p. 32.

[7] Ib. p. 31.

[8] Ib. pp. 31-2.

[9] Ib. p. 33.

[10] Ib. pp. 35-6.

[11] Ib. pp. 36-7.

[12] Ib. p. 50.

[13] Ib. p. 32.

[14] Ib. p. 34.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 16 dicembre 2013

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015