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MONTAIGNE: l’educazione dei fanciulli

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Giuseppe Bailone

Montaigne

Segnato da un’educazione infantile singolare, Montaigne dedica molta attenzione all’educazione. I suoi Saggi sono, sotto molti aspetti, un libro di autoformazione, una preziosa raccolta di esperienze umane molto varie su cui egli riflette per la propria educazione permanente. Il problema della formazione umana, infatti, non ha per lui conclusioni definitive, ma si riapre in ogni fase della vita. La pedagogia, però, che di questo processo costituisce l’avvio, ha, secondo lui, il compito più difficile, “pieno di affanni e di ansie”.

Frutto di un’educazione infantile molto studiata, Montaigne si rende conto che i neonati non si possono allevare con la stessa naturalezza con cui si fanno. Ci vuole scienza, molta scienza, ci vuole la più difficile delle scienze.

Scrive: “La maggiore e più grave difficoltà della scienza umana par che s’incontri proprio là dove si tratta della educazione e della istruzione dei fanciulli”.[1]

Sembra che seguire e farsi guidare dalla natura sia la strada maestra, ma non è facile riconoscere nei bambini le indicazioni della natura: “I segni delle loro inclinazioni sono così tenui in questa prima età, e così oscuri, le promesse così incerte e fallaci, che è difficile stabilire su questa un giudizio sicuro … I piccoli degli orsi, dei cani, rivelano chiaramente la loro inclinazione naturale; ma gli uomini, immergendosi immediatamente fra usanze, opinioni, leggi, mutano o si mascherano facilmente”.[2]

L’uomo è un impasto di natura e cultura. E’ difficile distinguere ciò che è naturale nei bambini. E’ vero che “è difficile forzare le inclinazioni naturali”, come si scopre quando “non avendo ben scelto la loro strada, spesso ci si affatica per nulla e si impiega molto tempo a indirizzare i fanciulli a cose nelle quali non possono riuscire”. Sembra, però, che questa forza della natura agisca più in negativo, vanificando certe imprese educative, che in positivo, indicando chiare inclinazioni personali. Conviene, quindi, “trascurare quei leggeri indizi e quei pronostici che si traggono dagli atteggiamenti dell’infanzia”. Invece di dare ad essi troppo peso, come secondo Montaigne farebbe anche Platone nella Repubblica, bisogna avviare i fanciulli “alle cose migliori e più giovevoli” e promuovere il più presto possibile la riflessione critica sui propri costumi, sulla propria cultura, per alleggerirne il peso e il suo effetto di copertura della natura.

Alla pedagogia Montaigne dedica espressamente il capitolo XXV del primo libro dei Saggi, e si esprime in modo molto critico nei confronti dell’educazione scolastica del suo tempo. Alla formazione infantile in particolare dedica il capitolo successivo, che contiene, nella parte finale, il racconto della propria singolare educazione infantile.

In questo trattatello sull’educazione dei fanciulli, Montaigne si rivolge alla contessa di Gurson, una sua amica prossima al primo parto. Le consiglia soprattutto la scelta di un precettore “con la testa ben fatta piuttosto che ben piena”; un precettore che non “blateri negli orecchi come si versa in un imbuto”, che cominci subito a mettere alla prova il fanciullo “facendogli gustare le cose, sceglierle e discernerle da solo; a volte aprendogli la strada, a volte lasciando a lui di aprirla”.

Scrive: “Non desidero che inventi e parli lui solo, desidero che ascolti il suo discepolo parlare a sua volta … E’ bene che se lo faccia trottar davanti per giudicar la sua andatura, e giudicare fino a che punto debba abbassarsi per adattarsi alle sue possibilità. Se manca questa proporzione, guastiamo tutto, e saperla trovare, e regolarsi di conseguenza con giusta misura, è uno dei più ardui compiti che io conosca”.[3]

“Ci hanno – dice –  sottoposto per tanto tempo alle dande che non sappiamo più camminare da soli. Il nostro vigore e la nostra libertà sono spenti”.

Consiglia: “Che gli faccia passar tutto allo staccio e non gli metta in testa nulla con la sola autorità e a credito: i principi di Aristotele non siano i suoi principi non più di quanto lo siano quelli degli stoici o degli epicurei. Lo si metta davanti a questa varietà di giudizi: se può sceglierà, altrimenti rimarrà in dubbio. Soltanto i pazzi sono sicuri e risoluti.

… Infatti, se abbraccia le opinioni di Senofonte e di Platone per suo proprio ragionamento, non saranno più le loro, saranno le sue. Chi segue un altro, non segue nulla. Non trova nulla, anzi non cerca nulla … bisogna che assorba i loro umori, non che impari i loro precetti. E, se vuole, che dimentichi pure arditamente da dove li ha presi, ma che sappia appropriarseli. La verità e la ragione sono proprietà comuni a ognuno, e non sono di chi le ha dette prima a maggior ragione di che le ha dette poi. Non è secondo il parere di Platone più che secondo il mio, dal momento che lui ed io l’intendiamo e la vediamo allo stesso modo. Le api saccheggiano i fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele che è solo loro; non è più timo né maggiorana: così i passi presi da altri, egli li trasformerà e li fonderà per farne un’opera tutta sua, ossia il suo giudizio. La sua istruzione, il suo lavoro e il suo studio non mirano che a formarlo”.[4]

“Sapere a memoria –sostiene – non è sapere: è conservare ciò che si dato in custodia alla propria memoria … Fastidiosa scienza, una scienza puramente libresca!” Non si può “istruire il nostro intelletto senza scuoterlo ... A tal scopo, il commercio con gli uomini è straordinariamente adatto e così pure la visita dei paesi stranieri … per riportarne soprattutto le indoli di quei popoli e la loro maniera di vivere, e per sfregare e limare il nostro cervello contro quello degli altri”.[5] “Dal frequentare la gente si ricava una meravigliosa chiarezza per giudicare gli uomini. Noi siamo tutti ristretti e rattrappiti in noi stessi, e non vediamo più in là del nostro naso”.[6] “Invece di cercar di conoscere gli altri, ci affanniamo a far conoscere noi stessi”.[7]

Scelto il precettore, i genitori devono fare un passo indietro. Infatti, “non è bene allevare un ragazzo nel grembo dei suoi genitori”, il precettore deve avere un’autorità “sovrana su di lui”, “non ostacolata e impedita dalla presenza dei genitori”.

Il naturale amore per il proprio figlio rende i genitori, “anche i più saggi”, “troppo teneri e fiacchi”. Essi “non sono capaci di punire le sue mancanze né di vederlo allevare rudemente, com’è necessario, e a contatto con i pericoli … Perché non c’è rimedio: se si vuol farne un uomo a posto, non si deve certo risparmiarlo proprio in gioventù, ma andar spesso contro le regole della medicina”.[8] Agisce qui anche l’esempio del padre che l’ha affidato neonato ai contadini e poi al precettore tedesco. 

I genitori non sono tutti saggi e i loro disastri educativi non sono dovuti solo alla loro eccessivo premuroso amore. Ci sono anche molti genitori che puniscono in preda alla collera. Per questo Montaigne pensa che dovrebbe essere lo Stato a occuparsi dell’educazione e, sulla traccia di Aristotele, scrive: “Chi non vede che in uno Stato tutto dipende dall’educazione e dalla formazione di essa [l’infanzia]? E tuttavia, senza alcun discernimento, la si lascia alla mercé dei genitori, per quanto stolti e malvagi possano essere”.[9]

Montaigne propone di avviare presto i fanciulli alla filosofia. Si rende conto che essa per molti è “un nome vano e fantastico, che non serve a nulla e non ha alcun pregio, sia in teoria sia in pratica”. Pensa che “ne siano la causa quei cavilli che hanno invaso i suoi sentieri” e hanno reso il suo viso “falso, esangue e ripugnante”, mentre “non c’è nulla di più gaio, di più vivace, di più giocondo e, direi quasi, burlone”.

“L’anima che alberga la filosofia deve, con la sua sanità, rendere sano anche il corpo. Deve far risplendere anche al di fuori la sua tranquillità e il suo benessere; deve dare la sua impronta al portamento esteriore e guarnirlo quindi di un’amabile fierezza, di un’aria attiva e allegra e di un atteggiamento soddisfatto e bonario. Il segno più caratteristico della saggezza è un giubilo costante; la sua condizione è come quella delle cose che sono al di sopra della luna: sempre serena. Sono il «barroco» e il «baralipton»[10] che rendono i loro sudditi così impastoiati e fumosi, non lei; quelli non la conoscono che per sentito dire. Come? Essa conta di rasserenare le tempeste dell’anima, e di insegnare a ridersi della fame e delle febbri, non con qualche epiciclo immaginario, ma con argomenti naturali e palpabili. Ha per fine la virtù, che non è, come dice la scuola, piantata sulla cima di un monte scosceso, dirupato e inaccessibile. Quelli che l’hanno avvicinata la ritengono, al contrario, situata in una bella pianura fertile e fiorita, da cui essa vede, sì, tutte le cose ben al di sotto di sé, ma dove chi ne sa la direzione può arrivare per strade ombrose, erbose e dolcemente fiorite, agevolmente e per un pendio facile e liscio, come quello delle volte celesti. Per non aver praticato questa suprema virtù, bella, trionfante, amorosa, dilettevole e al tempo stesso coraggiosa, nemica dichiarata e irreconciliabile di ogni amarezza, dispiacere, timore e costrizione, avente per guida la natura, per compagni la fortuna e il piacere, essi sono andati, seguendo la loro debolezza, ad inventar quella sciocca immagine, triste, litigiosa, corrucciata, minacciosa, arcigna, e a collocarla sopra una roccia, in disparte, fra i rovi, fantasma per spaventare la gente … Il pregio e la nobiltà della vera virtù consistono nella facilità, nell’utilità e nel piacere di praticarla, cosa tanto scevra di difficoltà che i fanciulli ne sono capaci al pari degli uomini, i semplici al pari degli scaltri. La moderazione, non la forza è il suo strumento … Ama, la vita, ama la bellezza e la gloria e la salute. Ma la sua funzione propria e specifica è saper usare di quei beni con misura, e saperli perdere senza turbarsi: funzione ben più nobile che ardua, senza la quale ogni vita è snaturata, torbida e alterata, e vi si possono appunto aggiungere quegli scogli, quelle spine e quei mostri … Poiché la filosofia è quella che ci insegna a vivere, e poiché tutte le età, anche la fanciullezza trova in essa di che imparare, perché non le viene insegnata?... Ci insegnano a vivere quando la vita è passata. Cento scolari hanno preso la sifilide prima di essere arrivati alla lezione di Aristotele sulla temperanza … Togliete tutte quelle sottigliezze spinose della dialettica, da cui la nostra vita non può trarre profitto, prendete i ragionamenti semplici della filosofia, sappiateli scegliere e trattare opportunamente: sono più facili a capirsi di una novella di Boccaccio. Un fanciullo ci cresce, fin dalla più tenera età, assai più che a imparare a leggere o a scrivere. La filosofia ha ragionamenti adatti all’infanzia degli uomini come alla loro decrepitezza”.[11]

Lo studio deve avere una misura.

“Non voglio – raccomanda Montaigne – che s’imprigioni questo ragazzo. Non voglio che lo si abbandoni all’umor melanconico d’un maestro di scuola dissennato. Non voglio corrompere il suo spirito mettendolo alla tortura e al lavoro, come fanno gli altri, quattordici o quindici ore al giorno, come un facchino. Né troverei ben fatto che, se per un certo temperamento solitario e melanconico lo si vedesse dedicarsi con applicazione eccessiva allo studio dei libri, si favorisse in lui questa tendenza; questo li rende inetti alla vita di società e li distoglie da occupazioni migliori. Quanti uomini ho visto, durante la mia vita, istupiditi da una smodata avidità di scienza! Carneade ci perse la testa al punto che non si curò più di farsi la barba e di tagliarsi le unghie …

Per il nostro ragazzo, una camera, un giardino, la tavola e il letto, la solitudine, la compagnia, il mattino e la sera, tutte le ore saranno uguali, tutti i luoghi gli serviranno di studio; infatti la filosofia, che, in quanto formatrice degli intelletti e dei costumi, sarà la sua principale lezione, ha questa prerogativa di mescolarsi ovunque. Tutti riconoscono che l’oratore Isocrate, pregato a una festa di parlare della sua arte, ebbe ragione a rispondere: «Ora non è tempo di parlare di ciò che so fare; e quello di cui ora è tempo, io non lo so fare». Di fatto presentare arringhe o dispute di retorica a una compagnia adunata per ridere e far baldoria, sarebbe un miscuglio di cose troppo discordanti. E altrettanto si potrebbe dire di tutte le altre scienze. Ma, quanto alla filosofia, per la parte in cui essa si occupa dell’uomo e dei suoi doveri e compiti, è stato parere comune di tutti i saggi che, per la dolcezza che produce il parlarne, non dovrebbe essere esclusa né dai festini né dai giochi. E quando Platone l’ha invitata al suo convito, vediamo come essa intrattiene gli astanti in modo leggero e adatto al tempo e al luogo, nonostante i suoi ragionamenti più elevati e più salutari …

Così egli ozierà meno degli altri … Anche i giochi e gli esercizi saranno una buona parte dello studio: la corsa, la lotta, la musica, la danza, la caccia, il maneggio dei cavalli e delle armi. Io desidero che il decoro esteriore e il comportamento e gli atteggiamenti della persona si foggino contemporaneamente all’anima. Non è un’anima, non è un corpo che si educa: è un uomo; non bisogna dividerlo in due …

Questa educazione deve essere condotta con severa dolcezza, non come si fa. Invece di attirare i fanciulli allo studio delle lettere, in verità non si presenta loro che orrore e crudeltà. Togliete di mezzo la violenza e la forza; non c’è nulla a mio parere, che imbastardisca e stordisca a tal punto una natura ben nata. Se volete che egli tema la vergogna e il castigo, non avvezzatevelo. Avvezzatelo al sudore e al freddo, al vento, al sole e ai rischi che deve disprezzare; toglietegli ogni mollezza e ogni effeminatezza nel vestire e nel dormire, nel mangiare e nel bere; abituatelo a tutto. Che non sia un bel giovane e un damerino, ma un giovane robusto e vigoroso. Da ragazzo, da uomo, da vecchio ho sempre pensato e giudicato in tal modo. Ma, fra le altre cose, la disciplina della maggior parte dei nostri collegi non mi è mai piaciuta. Si sarebbe sbagliato, caso mai, con minor danno, inclinando all’indulgenza. E’ questo un vero carcere di gioventù prigioniera. La si rende dissoluta, punendola prima che sia tale. Andateci al momento della lezione: non sentite che grida di ragazzi tormentati e di maestri ubriachi di collera”.[12]

“Si deve piegare il corpo, quando è ancora docile, ad ogni foggia e ad ogni uso. E purché si riescano a frenare il desiderio e la volontà, si abbia il coraggio di rendere un giovane adatto a ogni nazione e a ogni compagnia, perfino alla sregolatezza e agli eccessi, se è necessario. Che la sua educazione segua l’uso. Che egli possa fare ogni cosa, e non desideri fare che le cose buone … non desista dal fare il male né per mancanza di forza né di capacità, ma per mancanza di volontà”.[13]

Montaigne ammira grandemente “la straordinaria facoltà di Alcibiade di adattarsi tanto facilmente a usanze così diverse, senza danno per la sua salute: oltrepassando ora la sontuosità e la pompa persiana, ora l’austerità e la frugalità spartana; così moderato a Sparta come dedito al piacere nella Jonia”.[14]

In filosofia imparare non è ripetere la lezione, ma metterla in pratica, quindi: “Il vero specchio dei nostri ragionamenti è il corso della nostra vita”.[15]

L’educazione deve mirare alla digestione e all’assimilazione del sapere, non al suo accumulo. Per far questo “non c’è che da secondare il desiderio e l’amore, altrimenti non si fanno che asini carichi di libri”.[16]


[1] Libro I, cap. XXVI, p. 194.

[2]Ib. p. 195.

[3]Ib. pp. 196-7.

[4]Ib. pp. 198-9.

[5]Ib. pp. 200-201.

[6]Ib. p. 207.

[7]Ib. p. 202.

[8] Ib. p. 202.

[9] Libro II, cap. XXXI, p. 946.

[10]Sono, nella logica scolastica medievale, due delle diciannove forme del sillogismo.

[11] Libro I, cap. XXVI, p. 212-216.

[12] Ib. pp. 217-219.

[13] Questa opinione è una di quelle che il Maestro del sacro Palazzo rimproverò a Montaigne quando nel marzo del 1581 lo convocò per restituirgli la copia dei Saggi confiscatagli al suo ingresso a Roma, come Montaigne narra nel Journal. Di queste censure Montaigne non tenne minimamente conto nella pubblicazione.

[14]Questa e la precedente citazione sono tratte dalla pag. 221.

[15] Ib. p. 223.

[16] Ib. p. 236.


Torino 24 ottobre 2011

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2011-12 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

Testi di Michel de Montaigne

Testi su Michel de Montaigne


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 22-09-2015